La memoria serve se non si riduce a retorica e se non si tramuta in propaganda faziosa tesa a imporre una sola visione politica degli eventi narrati. Nel mondo crepuscolare e conformista in cui viviamo, invece, il ricordo della sconfitta, matrice e sostanza di questa Repubblica, si è trasformato in celebrazione e festa settaria, che convive con una demagogica e ipocrita “cultura della mostrificazione”, che invita, in nome dell’antifascismo, a criminalizzare gli avversari sconfitti.
Ciò accade in conseguenza del pregiudizio affermatosi in Italia con la narrazione giudaico marxista della II Guerra Mondiale e del sistema di antivalori a questo connessi. Niente è più giusto o sbagliato, umano o disumano, tutto è lecito e opinabile perfino le identità individuali, con l’unica eccezione di un unico valore trasversale e intoccabile: l’antifascismo, elevato a massimo ideale politico cui tutto si deve piegare.
Grazie alla schiuma tossica di questo pseudo valore, rimasuglio di scorie diversissime e ultimo unico collante di una fazione, dopo la deriva politica che ha travolto ogni principio umano e sociale in nome di pseudo diritti civili, inversioni spregevoli e individualismi sfrenati, si è finito per dare della lotta resistenziale l’immagine edulcorata e ipocrita di una guerra di “liberazione” in cui solo i morti di una parte sarebbero i buoni e i degni di memoria.
Per una speculazione politica che venne fatta nel primo dopoguerra, durante la costruzione del mito della Resistenza, si elevò a giornata-simbolo della nuova Italia il 25 Aprile, data che doveva richiamare la cosiddetta “insurrezione partigiana”, ossia l’inizio dell’immaginario movimento insurrezionale che avrebbe posto in rotta fascisti e Tedeschi e determinato la fine della guerra in Italia. In realtà, tutta la vulgata resistenziale poggia su basi di pura fantasia, primo perché quel giorno non avvenne nessuna insurrezione partigiana, almeno nell’accezione con cui viene presentata; secondo, perché l’apporto militare della Resistenza alla guerra condotta dagli Alleati contro la RSI e la Germania fu, nel quadro generale del conflitto, sostanzialmente nullo; terza, ma non meno importante evidenza storica, il 25 Aprile 1945 non finì affatto la Seconda Guerra Mondiale in Italia, ma solo il 2 maggio con la resa delle Forze armate italo tedesche.
Non si sbaglia se si afferma che quel giorno non accadde nulla di realmente eccezionale, la guerriglia non ebbe alcun ruolo effettivo, fu secondaria e non contribuì ad accelerare la fine della guerra neanche di un minuto. Del resto, l’attività principale dei ribelli fu sempre quella di attendere l’arrivo degli Alleati, magari compiendo degli attentati quando le unità italo-tedesche – certo il prossimo arrivo dei carri armati angloamericani – si apprestavano all’uscita dalle città e alla ritirata verso Nord.
Esempio emblematico e tutt’oggi rivendicato con deplorevole orgoglio partigiano è l’attentato di via Rasella a Roma, militarmente inutile e politicamente vigliacco, che causando la morte di 33 militari germanici determinò la prevista e voluta rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Ancora oggi rivendicata come un’azione di guerra, quella inutile strage servì unicamente le mire del PCI di liberarsi di alcune frange dissidenti e di presentarsi come protagonista degli eventi, mascherando con la lotta di “liberazione” il volto del comunismo stalinista di cui era agente.
La nuova Italia che sorgeva dalle macerie della guerra, doveva trovare un mito sui cui basarsi, anche se questo significava dividere gli Italiani, e lo si vide bene quando il mito della Resistenza venne “riutilizzato” politicamente negli anni ’60 quando il PCI, ormai abbandonata la via rivoluzionaria, intese recuperare terreno per inserirsi nell’area di Governo, sbarrando – anche con la violenza – il passo al MSI, che poteva essere una sponda per alcuni settori della DC. Da qui il recupero del “modello CLN”, utilizzato ancora una volta come “cavallo di troia” dal PCI, e l’avvio della stagione dell’antifascismo militante che sfocerà, poi, nella lotta armata degli anni ’70.
Dovette intervenire nel 1993 un Professore del calibro di Renzo De Felice per evidenziare la speculazione in atto: se tutti i democratici erano antifascisti, non tutti gli antifascisti erano democratici. Del resto, la Resistenza non fu affatto un fenomeno unitario, ma fu profondamente divisa al suo interno. I ribelli rimasero divisi durante la guerriglia – arrivando a spararsi tra loro e, in alcuni casi sul fronte orientale, alcune bande partigiane fecero addirittura fronte comune con tedeschi e fascisiti per porre un argine alle milizie comuniste titine. L’utilizzo dell’antifascismo e la mitizzazione del 25 Aprile come instrumentum regni, per mascherare ancora una volta i crimini del comunismo, rappresentano pertanto la trappola utilizzata dalla sinistra per colpire i propri avversari e godere di una rendita di posizione.
Proprio per questo, oggi ci rifiutiamo di festeggiare con i sostenitori dei massacri in nome dell’antifascismo e riteniamo necessario ribattere alle falsità e alla loro indegna propaganda. È tempo di smascherare la narrazione bugiarda di un’epoca in cui l’Italia conobbe una parentesi di dignità nel nome di ideali oggi sviliti e oltraggiati e di respingere la demonizzazione di un movimento politico ridotto esclusivamente al ricordo delle Leggi razziali e della guerra, senza alcun approfondimento critico né alcuna contestualizzazione. Se, come è giusto, condanniamo gli integralisti islamici, perché dovremmo accettare chi professa principi in base ai quali ci hanno torturato e sterminato dal ‘43 fino al dopoguerra? Nella giornata del 25 Aprile vogliamo ricordare invece che l’antifascismo non ha mai proposto alcuna riappacificazione poiché non ha alcuna sostanza dialogica, ma ha affermato solo il suo diritto a dominare e distruggere tutto e tutti coloro che considerava eredi del fascismo. Nel nome dell’antifascismo militante sono state compiute stragi efferate come quella di Acca Larentia o quella di Primavalle, dove vennero bruciati i fratelli Mattei, due ragazzi di 22 e 8 anni. All’ombra dell’antifascismo sono stati compiuti delitti orrendi, come quello di Angelo Mancia o quelli di Sergio Ramelli e Francesco Cecchin. E ogni volta tutto l’antifascismo s’è mobilitato per coprire i colpevoli e intorbidare le prove, giustificando ogni crimine. Se almeno in parte siamo sopravvissuti, ciò è avvenuto solo grazie alla forza che abbiamo saputo opporre a chi aveva affermato il proprio diritto a distruggerci e che, se non avessimo reagito, ci sarebbe riuscito.
Questo Stato ci pone adesso dinanzi a una costrizione: bisogna accettare la legge democratica, vale a dire la legge del più forte e accettare che la strage dei nostri camerati e dei nostri parenti più cari sia festa per tutta la Nazione. Ma questa non è la festa della libertà degli italiani, ma solo la festa del regime antifascista, succeduto in virtù delle armi straniere al regime fascista e solo tradendo la nostra coscienza e il nostro sangue potremmo aderire a questa innaturale celebrazione di morte.
L’Anpi ci ricorda che le idee fasciste sarebbero un reato e non un diritto; questa idiozia ripetuta più volte riesce a sobillare i più ignoranti e i violenti, ma rappresenta al meglio la natura spregevole di questo antifascismo e di certa democrazia che si risolvono solo nell’affermazione arrogante delle loro ideologie e nella repressione di ogni dissenso e di ogni opinione non conforme, contravvenendo con questo anche allo stesso dettato costituzionale tante volte evocato a sproposito.
Questa contraddizione permette che cultura e ricerca storica siano ridotte a parole sganciate dalle azioni fino al punto di tollerare, in ogni sede istituzionale, in nome dell’antifascismo, l’arrogante rivendicazione pubblica e verbalmente violenta del diritto di imporre un pensiero unico e del delitto di violare una libertà garantita costituzionalmente.
La politica e la ricerca storica hanno senso solo se politici e intellettuali tornano a collegare le parole alle azioni, a scegliere tra valori disumani e valori umani, a prendere posizione, a combattere e a non accettare chi afferma l’etica della forza bruta. La ricerca storica ha senso e dignità se si impara a confutare una vulgata ideologica e ipocrita che, come quella dell’Anpi, rappresenta da decenni una storia artefatta e contrabbanda a parole la conquista di una libertà che, di fatto, garantisce solo una parte e smentisce nei fatti, con le azioni e gli strumenti legali repressivi di cui questo regime si è dotato.
Ogni regime sceglie le sue feste e così si qualifica. Padronissimi gli antifascisti di qualificarsi come “quelli del 25 Aprile”, ma padroni Noi di considerarli gli sgherri di Piazzale Loreto e i carnefici di migliaia di nostri fratelli. Per questo siamo padroni di non festeggiare e orgogliosi di ripudiare questa giornata come una ricorrenza immonda.
Enrico Marino