11 Ottobre 2024
Filosofia

La verità e la filosofia – Marco Calzoli (2^ parte)

Dio e la verità si rivelano non solo nella parola ma anche nella fede. È significativo che Clemente Alessandrino (Stromati I, 18, 90, 1) chiamasse il vangelo “la vera filosofia”. Pertanto chi accede alla verità divina è un santo. Dionigi l’Areopagita (Coelestis Hierarchia 293 B7): “Quelle tra le creature intellettuali e razionali che, secondo le loro forze, si convertono totalmente all’unione con Dio e tendono, per quanto è permesso, incessantemente verso le di Lui divine illuminazioni, pros tas theias autēs ellampseis, secondo la loro virtù di imitare Dio, se così si può dire, sono state giudicate degne di ricevere il nome di sante”.

Per millenni, nelle società teocratiche, la fede/fiducia/fedeltà ai dettami di Dio era il criterio assoluto di verità. Ancor oggi questo avviene nell’Islam. Corano 32, 13: “Basterebbe un cenno affermativo da parte nostra, e ad ogni anima sarebbe offerto il punto di orientamento, walaw shi’na laatayna kulla nafsin hudaha.

In greco antico non esiste un termine specifico per “religione” perché tutto era religioso: ogni aspetto della vita era sacrale, anche la cultura, quindi non sorprende che a capo del Museo vi fosse un iereus, cioè un sacerdote. Nel mondo ebraico tutto ruotava attorno alla verità divina tanto che chi adorava gli dei stranieri poteva essere messo a morte. Pensiamo a Deuteronomio 27 (i leviti diranno al trasgressore: Maledetto), ma anche al testo di Qumran 1QS2 e persino a 1Corinzi 5, 4-5 (a Corinto doveva praticarsi un analogo rito ebraico, all’inizio il cristianesimo adottava ancora molte forme ebraiche).

Chi non segue la verità divina incontra la morte. Il peccato è definito dai teologi un atteggiamento contra legem aeternam: andare contro l’ordine del creato (quindi la verità) compromette profondamente sé stessi e la propria sussistenza. Un motivo ricorrente della Sapienza dell’Antico Testamento è che chi accetta le lusinghe della donna straniera, simbolo dei culti orgiastici cananei, incontra la morte. In sanscrito il demonio è detto māra, dalla radice mṛ-, “morire”: precisamente māra è il nomen actoris del causativo mārayati, quindi indica una entità che causa la morte.  La fede è una grazia di Dio: se il diavolo, opponendosi alla legge di Dio, nuoce all’uomo, questa limitazione della grazia avviene soprattutto nel peccato. Tommaso d’Aquino (Questio Secunda de Peccatis, 11): “Onde è manifesto che il peccato è un ostacolo che impedisce di ricevere la grazia”, unde manifestum est quod peccatum est obstaculum quoddam impediens gratie susceptionem, quindi di goderne i benefici. Dio si oppone alla materia e alle creature, quindi l’attaccamento alla materia e alle creature è un grande peccato, ostacola in sé la grazia. Per i teologi il peccato è aversio a Deo et conversio ad creaturas, cioè, possiamo parafrasare, un allontanamento da Dio e un avvicinamento alle creature. Anche Seneca (De tranquillitate animi 14) riconosceva che “l’eccessivo attaccamento alle cose sia fonte di ansie e di infelicità”, pertinacia necesse est anxia et misera sit.

Dio è la Verità e lo è senza che spesso l’uomo se ne capaciti del tutto. C’era uno stretto legame tra ossequio fideistico e obbedienza. Spinoza (Trattato teologico-politico, cap. XIV, 2) osservava come “la fede non è altro che pensare di Dio cose tali che, se ignorate, si toglie l’obbedienza verso Dio e che, posta questa obbedienza, sono necessariamente poste anch’esse”, nempe quod nihil aliud sit, quam de Deo talia sentire, quibus ignoratis tollitur erga Deum obedientia, et hac obedientia posita, necessario ponuntur.

La verità della legge di Dio, alla quale il cristiano aderisce per fede, ha un intento finale trasformativo. La verità si incarna e trasforma l’uomo che la segue. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles III, cap. CXVI): “Il fine di ogni legge, e specialmente di quella divina, è di rendere buoni gli uomini. Ma un uomo si dice buono perché ha buona la volontà, con la quale traduce in atto quanto c’è di bene in lui. Ma la volontà è buona per il fatto che vuole il bene: e specialmente il sommo bene, che è il fine. Perciò quanto più una volontà vuole codesto bene, tanto più un uomo è buono. Ora, l’0uomo vuole di più ciò che vuole per amore … Dunque l’amore del Sommo Bene, cioè di Dio, è il massimo coefficiente della bontà, ed è la cosa sommamente intesa dalla legge divina”, et est maxime intentum in divina lege.

In greco “so, conosco” è oida, che di per sé significa “ho visto”. Analogamente al sanscrito, dove il verbo vid-, “sapere”, ha la stessa radice indoeuropea di oida (che ritroviamo anche nel latino video, “vedo”) e al perfetto ha valore di presente: veda, vettha, veda, “io so”, “tu sai”, “egli sa”. Per il mondo greco la verità è un disvelamento (alētheia deriva dall’alfa privativo + lanthanō, “nascondo”) e il conoscere equivale a vedere quanto è stato disvelato. Il fr. 100 (Calame) di Alcmane, poeta lirico greco arcaico, pone questa netta differenza tra il sapere la verità e il ritenere, il credere: oreōn men ouden, dokeōn de, “nulla vedeva, ma credeva”.

Dal vedere qualcosa i greci hanno imparato a conoscere ciò che non si vede. “Il percorso dal visibile all’invisibile è così un percorso teoretico”[11]. Ciò che sta oltre i sensi (meta-fisico) è stato conosciuto partendo dalla visione.

Cusano (all’inizio de Il Dio nascosto) scriveva questo dialogo tra un pagano e un cristiano: “Io sono un cristiano. Ma chi è il Dio che adori? Non lo so. Come puoi adorare con tanta serietà ciò che non conosci? Adoro perché non conosco”. Sempre Cusano (De docta ignorantia I, 25, 84): “I vecchi pagani deridevano i giudei che adorarono il Dio unico infinito che ignoravano”, deridebant veteres pagani Iudeos, qui Deum unum infinitum, quem ignorabant, adorarunt.

Se vogliamo, è anche il discorso di Plotino (Enneadi V, I) sul pensiero diverso dall’Uno. L’uomo si è separato dal principio, dall’Uno, ammirando la totalità degli enti e disprezzando sé stesso. Le anime quindi hanno iniziato a pensare l’Uno. Ma questo pensiero è inutile, falso, diverso dalla contemplazione assoluta dell’Uno, che l’uomo non ha più. L’uomo “non potrebbe mai rivolgere nell’animo né il pensiero della natura di dio né quello della sua potenza”, oute theou phusin oute dunamin.

L’Uno si coglie per intuizione. Si tratta di quel pensiero intuitivo tipico della “sapienza greca” (Colli), poi perduto con Platone e Aristotele, ma che riemerge pubblicamente con Plotino. Il primo frammento degli Oracoli Caldaici, una raccolta di rivelazioni misteriche greco-romane realizzata alla fine del II secolo d.C., rivela: “C’è un intuibile che devi cogliere con il fiore dell’intuire, perché se inclini verso di esso il tuo intuire, e lo concepisci come se intuissi qualcosa di determinato, non lo coglierai. È il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi. Non si deve coglierlo con veemenza, quell’intuibile, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell’intuibile; e non devi intuirlo con intensità, ma – recando il puro sguardo della tua anima distolto – tendere verso l’intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, ché al di fuori dell’intuire esso dimora”.

Il piano della Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino è il seguente:

 

  1. Verità raggiungibili dalla ragione per mezzo delle creature (libri I-III);
  2. Verità che solo la fede concede (libro IV).

 

Tommaso in quest’opera adotta lo schema neoplatonico dell’Uscita e del Ritorno, però in esso include l’analisi aristotelica della causalità. Per esempio, nel libro II Tommaso espone la sua dottrina sulla Uscita da Dio come causa efficiente (creazione) e poi sul Ritorno a Dio come causa finale. Nella Summa Theologiae, opera successiva, questo schema sarà abolito.

La fede però inglobava anche le verità ragionevoli. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles I, cap. IV) spiegava il perché: “ … nelle investigazioni della ragione umana il più delle volte si mescola il falso, a cagione della debolezza nostra nel giudicare sotto le impressioni della fantasia. Perciò presso molti resterebbero dubbie anche le cose rigorosamente dimostrate, non afferrando essi il valore delle dimostrazioni; e soprattutto vedendo i pareri contrastanti di coloro che sono considerati sapienti. E anche nelle verità dimostrate talora si mescola qualche falsità, che non deriva dalla dimostrazione, bensì da ragioni probabili o sofistiche, considerate come vere dimostrazioni. Ecco perché era necessario che le verità divine fossero presentate agli uomini con certezza assoluta come materia di fede. Perciò la divina bontà provvide salutarmente a comandarci di tenere per fede anche le verità conoscibili con la ragione: affinché tutti possano con facilità essere partecipi della conoscenza di Dio, senza dubbi e senza errori”.

Per Tommaso le cose sono in rapporto all’intelletto che le concepisce. Questo rapporto è la verità. Summa Theologiae I, 16, 2: “Il vero si trova formalmente nell‘intelletto. E siccome ogni cosa è vera secondo che ha la forma conveniente alla propria natura, l‘intelletto, considerato nell‘atto del conoscere, sarà vero in quanto ha in sé l‘immagine della cosa conosciuta, poiché tale immagine è la sua forma nell‘atto del conoscere. Per questo motivo la verità si definisce in base alla conformità dell‘intelletto alla realtà, e quindi conoscere tale conformità è conoscere la verità. Tale conformità invece il senso non la conosce in alcun modo: per quanto infatti l‘occhio abbia in sé l‘immagine dell‘oggetto visibile, pure non afferra il rapporto che corre tra la cosa vista e ciò che esso ne coglie. L‘intelletto invece può conoscere la propria conformità con la cosa conosciuta. Tuttavia non la afferra quando percepisce la quiddità di una cosa; ma quando giudica che la cosa in se stessa è conforme alla sua apprensione, è allora che comincia a conoscere e a dire il vero. E fa questo nell‘atto di comporre e di dividere: infatti in ogni proposizione l‘intelletto applica o esclude, in una cosa espressa dal soggetto, una certa forma espressa dal predicato. Quindi è giusto affermare che il senso relativamente a una data cosa è vero, o che è vero l‘intelletto nel conoscere la quiddità, ma non si può dire che conosca o affermi il vero. E la stessa cosa vale per le espressioni verbali complesse o semplici. La verità dunque può anche trovarsi nei sensi o nell‘intelletto che conosce la quiddità come si trova in una cosa vera, ma non quale oggetto conosciuto nel soggetto conoscente, come invece indica il termine vero: la perfezione dell‘intelletto, infatti, è il vero conosciuto. Per conseguenza, a parlare propriamente, la verità è nell‘intelletto che compone o divide (che giudica); non invece nel senso, e neppure nell‘intelletto che percepisce la quiddità”.

Se la verità sta nella congiunzione tra cose e intelletto, esiste una verità delle cose, in esse rerum. E come si concilia l’onnipotenza di Dio con il fatto che Dio non può che il vero diventi falso? Risponde a questa obiezione Anselmo d’Aosta (Proslogion, cap. 7). Anselmo sostiene che chi può fare una cosa del genere, la fa non per potenza ma per impotenza in quanto gli procura male. Quindi Dio non può sovvertire la verità proprio perché è onnipotente.

Le cose, l’intelletto e il senso sono tutti beni. Per Agostino (De natura boni, 12), “i grandi beni non derivano da una causa e i piccoli beni da un’altra: ma i beni, e grandi e piccoli, non derivano se non dal Sommo Bene, che è Dio”, non sunt nisi a summo bono, quod Deus est.

Suàrez (Disputazioni Metafisiche III, 2, 3) riconosceva tre proprietà dell’ente:

 

  1. Uno: è una cosa in sé integra e indivisa;
  2. Vero: adeguazione o relazione all’intelletto, adaequationem, vel  habitudinem ad intellectum;
  3. Buono: un ente è buono perché desiderabile, bonum autem ad voluntatem seu appetitum.

 

Invece per Hegel la verità sarà l’intelletto stesso. “Il vero però è essenzialmente soggetto, e in quanto tale non è altro che il movimento dialettico, questo cammino che produce sé stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé”, aber wesentlich ist es Subjekt; als dieses ist es nur die dialektische  Bewegung, dieser sich selbst erzeugende, fortleitende und in sich zurückgehende Gang[12].

La tradizione metafisica occidentale distingue tra:

 

  1. Verità ontologica: è la verità della cosa, per cui la cosa appare all’intelletto vera;
  2. Verità gnoseologica: è il giudizio che l’intelletto fa della cosa, che può essere speculativo oppure pratico.

 

Secondo la verità ontologica, il vero è un trascendentale e come ogni trascendentale aggiunge una cosa nuova all’ente. Secondo Tommaso d’Aquino, il vero non è presente nella nozione stessa di ente, come accade per tutti i trascendentali, infatti esiste anche un ente falso, il quale è un ente, ma ente di ragione. L’ente si può intendere senza il vero, ma non vale il viceversa, perché il vero non fa parte della nozione di ente, mentre l’ente entra nella ragione di vero.

Per Aristotele (Metafisica VI, 4) “il vero consiste nell’affermazione nel caso di ciò che è congiunto e nella negazione nel caso di ciò che è separato, il falso nella contraddizione di questa divisione”. “Il vero e il falso non sono nelle cose … ma nel pensiero”, ou esti to pseudos kai to alethes en tois pragmasin … all’en dianoiai.

Ma un discorso vero non determina una cosa, che ha esistenza autonoma. Aristotele (Categorie 14 B): “Se infatti esiste un uomo, è vero il discorso con il quale diciamo che esiste un uomo; ed è per l’appunto correlativo: se infatti è vero il discorso con il quale diciamo che esiste un uomo, esiste un uomo. Ma il discorso vero non è in nessun modo causa dell’esistere la cosa, esti de o men alēthēs logos oudamōs aitios tou einai to pragma, mentre la cosa, in tutta chiarezza, è in qualche modo causa dell’essere il discorso vero”.

Aristotele (Categorie 1B) riconosce l’esistenza di una sostanza prima e di una sostanza seconda. La prima è l’individuo che non è in un soggetto, la seconda è la sua divisione in specie e in generi. La sostanza è l’idea delle cose, diversa dalla cosa in particolare. La sostanza è l’essere che costituisce l’ente, invece la cosa è l’oggetto concreto. Tommaso d’Aquino (De ente et essentia 1): “… l’ente … è ciò che indica la sostanza della cosa”, ens … est quod significat essentiam rei.

Aristotele (Problema XXX, 9) si chiedeva: “Perché riteniamo che il filosofo sia diverso dall’oratore? Forse perché il filosofo si occupa delle forme stesse delle cose, auta ta eidē tōn pragmatōn, mentre l’altro di ciò che ne partecipa, ta metechonta? Per esempio, l’uno cerca di definire che cos’è l’ingiustizia, mentre l’altro addita un uomo ingiusto oppure l’uno cerca di definire  la tirannide, mentre l’altro si concentra su un tiranno in particolare”.

Nel Medioevo si confrontarono due visioni: quella analogica e quella scotiana. Per la prima vige il criterio della analogia, per cui il concetto che abbiamo di Dio nasce dalla confusione, cioè dalla analogia di due cose (Essere divino e essere creaturale, cioè  essere e enti) che in realtà sono del tutto diverse. Per la seconda vige il criterio della univocità, per cui non c’è vera differenza, cioè esisterebbe insomma un solo concetto di essere, uguale sia a Dio che agli enti. La visione analogista è tipica del tomismo: gli enti partecipano all’essere divino ma non vi si identificano. Invece nella visione scotiana c’è identità. Duns Scoto (De primo principio 51): “Quando ciò che si distingue secondo le ragioni formali è componibile come atto e potenza o come due principi tali da porre in atto una medesima cosa, se uno è infinito, può includere l’altro per identità, anzi di fatto lo include”, tunc si unum est infinitum, potest includere per identitatem aliud, immo includit.

C’è un celebre passo del Fedone (62 B 2-6) nel quale Platone diceva che “noi uomini stiamo in una certa phrourà, e che perciò non bisogna abbandonarla, o scapparsene di propria iniziativa”. L’interpretazione tradizionale della parola greca phrourà, che si tramanda ancora oggi nei licei e nelle università, è quella di “carcere”: il corpo è il “carcere” dell’anima. Ma già anticamente ci si doveva interrogare sul retto significato, dato che la parola greca ha più sensi, come faceva Damascio. Di Giuseppe raccoglie molte prove filologiche e filosofiche, portate dagli studiosi moderni, per ipotizzare un’altra traduzione di phrourà. Questo termine è composto da prò, “prima”, “davanti”, e il tema del presente del verbo oraō, “vedo”, quindi di per sé è un sostantivo collocato etimologicamente nell’ambito di un “vedere davanti”, cioè del “sorvegliare”. Nelle occorrenze più antiche phrourà indica la “guardia” militare (nel senso di servizio di guardia) e poi la “guardia” (nel senso di persona che presta servizio di guardia). In seguitò passa ad indicare il luogo della guardia (“posto di guardia”), il quale è sorvegliato, quindi indicherà per un altro passaggio la “custodia” (posto custodito); un tipico posto custodito da qualcuno è il “carcere”, e questo è il senso tradizionale che viene attribuito al sostantivo nel celebre passo platonico[13].

Se noi intendiamo il termine phrourà come “luogo di guardia”, il passo platonico andrebbe tradotto: “noi uomini stiamo in un certo posto di guardia, e che perciò non bisogna abbandonarlo, o scapparsene di propria iniziativa”.

Cosa significa che gli uomini stanno facendo la guardia? Perché noi nasciamo per fare la guardia?

Secondo me, gli uomini fanno la guardia alla verità. Gli uomini sono gli spettatori del progetto divino che si estrinseca nel cosmo. Tutto ciò che è (il cosmo), è la verità che esiste sotto i nostri occhi. Pertanto gli esseri umani continuano questo gioco cosmico nel quale gli dei creano il mondo e noi ne usufruiamo e così lo teniamo d’occhio.

La vita è la massima verità che esista e l’uomo, partecipando alla vita, ha a che fare con la verità.

E il male coincide con la menzogna in quanto negazione della vita. Certamente lo spirito umano può negare la vita, è il discorso di Bachelard, per il quale “lo spirito poteva urtare la vita, opporsi ad abitudini inveterate, fare in qualche maniera rifluire il tempo su sé stesso ….”, l’esprit pouvait heurter la vie, s’opposer à des habitudes invétérées, faire en quelque manière refluer le temps sur luimeme[14].

 

NOTE

[11] R. Peregalli, La corazza ricamata. I Greci e l’invisibile, Milano 2008.

[12] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Milano 2001.

[13] R. Di Giuseppe, La teoria della morte nel Fedone platonico, Napoli 1993.

[14] G. Bachelard, Dialettica della durata, Milano 2010.

 

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Studia da anni le lingue e le letterature semitiche. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha dato alle stampe 27 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane. Ha pubblicato anche diversi articoli.

1 Comment

  • ANDRONIS Dionysos 28 Giugno 2019

    “Le talisman du Rose-Croix”
    éditions “Ars Magna”, Nantes, 2019

    Dans cet ouvrage ci-dessus coexistent un roman et deux essais. Nous allons vous parler uniquement du roman. Encore une fois nous avons adoré cette nouvelle édition “Ars Magna” mais l’absence du nom d’un traducteur au début nous a fait penser que l’éditeur a pris cette initiative mais de l’anglais, pas de l’allemand. Pourtant le résultat est bon et il nous offre une lecture intéressante qui a pris le retard d’un siècle presque puisque l’original a été publié en 1925. Christian Bouchet nous exprime encore une fois son faible pour l’islam :”Christianisme et islam étaient du pareil au même” (op.cit.p.159). Un ouvrier allemand Erwin Torre part voyager en Turquie afin d’y découvrir l’astrologie et la magie orientale (c’est le titre de l’essai qui suit le roman). Malgré le fait que le protagoniste est un simple ouvrier, la page 199 fait le parallèle entre “occultiste” et “savant”: “Celui qui se nomme occultiste, soit celui sachant seulement penser, celui-là se nomme aussi “savant”(op.cit.p.199). “Glauer (le vrai nom de Sebottendorf) quant à lui se met complaisamment en scène sous le prénom germanique et prétentieux d’Erwin et le nom alsacien de Torre qui est le pluriel de “das Tor”, la porte, ou déformation voulue “de Tor”, le fou du tarot divinatoire”(écrit en préface par André Delaporte,op.cit.p.9). Et puisque nous sommes des fans du même éditeur nous tenons à vous préciser que le préfacier Delaporte avait publié le très bon essai “Trésors de l’Age d’or” pour la maison “Ars Magna”.
    Pourtant nous n’avions pas aimé la citation contre la Grèce Ancienne :”la phrase “un corps sain dans une âme sainte” n’est pas exacte..” (op.cit.p.333). Cet argument sera expliqué quelques pages avant d’une manière philhellène :”Tu es un nouveau Diogène”(op.cit.p.287).
    écrit ar Dionysos ANDRONIS

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