di Fabio Mazza
Tra la molteplice letteratura riguardante Julius Evola, possiamo dire che non molti abbiano approfondito i suoi legami con quella che viene chiamata “la Via del pensiero vivente” nella sua species italiana, rappresentata in primis da Giovanni Colazza, successivamente da Massimo Scaligero e Pio Filippani Ronconi, l’uno discepolo dell’altro, in una catena che vede un diretto collegamento con la figura di Rudolf Steiner. I difficili rapporti tra Evola e tali autori, notori ed incontrovertibili, si possono ricondurre alle perplessità che sul Barone esercitò non la figura di Steiner in sé, bensì l’antroposofia intesa come sistema, inevitabilmente corrotto dagli aderenti e discepoli, già mentre il “Maestro” era in vita. È d’uopo precisare che l’antroposofia nasce in periodo di positivismo, a cavallo tra 1800 e 1900, e risente indubbiamente di determinati “segni dei tempi”, o parole d’ordine. Inoltre, era inevitabile che alcune delle teorie presenti nella teosofia, influenzassero lo Steiner (ma anche qui molto meno di quanto appare alla prima lettura). Detto questo osiamo sostenere che il contrasto è più apparente che reale, e, come cercheremo di dimostrare in questo articolo, che l’opera di Evola è “completata” da quella di Steiner e di Scaligero e viceversa, sapendo già di ingenerare accuse di eresia da parte “evolomane” cosi come da parte “antroposofica”, da parte degli ortodossi difensori di una “verità” che si difende da sé e non ha certo bisogno di essere trasformata in una “religione” o “mistica”. Quello che vogliamo dimostrare è come Steiner e successivamente Scaligero diano, con sfumature diverse, gli strumenti operativi per la realizzazione degli “stati” (o meglio delle condizioni propedeutiche per la realizzazione di questi) di cui parla Evola, specie in “Introduzione alla magia quale scienza dell’Io”.
Julius Evola “magico”: il gruppo di Ur
La premessa fondamentale da porsi è che non esisterebbe un certo mondo, un certo “fronte” senza l’opera di Evola. Egli ha fissato un limes, ha dato una chiarezza e una potenza mai eguagliati al concetto di Tradizione, – formulata in questi termini prima di lui solo da Renè Guenon -, ha creato un “epica” ed un “etica” della stessa. Ha, tra i primi, criticato la modernità e messo in discussione, in tempi non sospetti, il concetto di progresso, di evoluzione e di “spiritualità” come veniva intesa nei primi decenni del novecento. È stato un distruttore, come lo fu in altro modo un Nietzsche, ma all’ “opus destruens” di Evola, era connaturata una ri-costruzione, un fondamento normativo, un “dover essere”. Se non si ha ben chiaro che cosa è la Tradizione, in primis a livello dialettico-normativo e poi anche a livello sentimentale ed emozionale, come si è dispiegata nella storia, se non si capisce che esiste un fronte opposto, della sovversione o contro-iniziazione, e che allo stato attuale esso minaccia la civiltà umana come mai prima, se non si ha ben chiaro l’ethos, come preliminare catarsi quantomeno umana ed esistenziale, ben poco può, a nostro avviso, essere tentato sulla via “iniziatica”. Parte ben più ignorata del suo pensiero è però quella dell’Evola “magico”, o per meglio dire “operativo”, che emerge nelle esperienze delle riviste Ur e Krur, raccolte successivamente in tre monografie. Il “Gruppo di Ur”, sintesi di uomini ed esoteristi di diversa estrazione stese, negli anni 20 e 30, in primis per uso interno, una serie di articoli riguardanti la magia come scienza dell’Io, e già su questo titolo occorrerebbe non tanto una ri-flessione, quanto piuttosto uno sforzo intuitivo “sottile”, quasi un “sentire” piuttosto che un “capire”. Le personalità più conosciute che si alternano tra le pagine furono Arturo Reghini, Arturo Onofri, da Ercole Quadrelli, Giovanni Parise, e soprattutto, importante ai nostri fini, Giovanni Colazza, che influenzò Evola in maniera importante, al di là delle differenze individuali tra le due personalità.
Questi testi, controparte “operativa” del pensiero evoliano, seppur spesso non organicamente integrati nella sua bibliografia dai suoi esegeti, videro una profonda impronta data dall’opera di Colazza, discepolo prediletto di Steiner, e maestro di Massimo Scaligero, che a lui venne indirizzato proprio da Evola, suo amico, nel dopoguerra. È peraltro innegabile come Evola, curatore delle monografie basi sulle idee e gli esercizi di Colazza, rectius di Steiner, buona parte dell’ossatura essenziale di “Introduzione alla magia”. È evidente, come, specie nel volume uno, e finanche nel terzo volume, i brani di “Leo”, siano centrali e rappresentativi, assieme a quelli di “Luce” (Parise) e Abraxa (Quadrelli), della parte “attiva” dell’opera, completata da molteplici articoli dottrinali e di orientamento generale, comunque fondamentali. L’efficacia della pratica del pensiero divenne per Evola talmente evidente che, nell’edizione del 1971 del terzo volume, inserì i sei esercizi di Steiner, col titolo di “Liberazione delle facoltà”, inserendo anche un personale commento. Inoltre, egli cita in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, nel capitolo dedicato all’antroposofia, proprio Colazza e Scaligero, pur senza nominarli, dichiarandosi perplesso che simili personalità, di cui riconosce l’indiscusso valore, siano state prese da un infatuazione simile per lo Steiner. Ed è questo un punto che merita chiarimenti.
Rudolf Steiner e Julius Evola
Per comprendere la relazione tra Rudolf Steiner e i suoi continuatori italiani da un lato, ed Evola dall’altro, è fondamentale il testo di Evola, precedentemente citato, dove egli tratta diffusamente delle correnti spirituali dei primi decenni del novecento, fino agli anni 70. Lo scopo era evidente: mettere in guardia dai rischi di uno sconfinamento, di una caduta, dal “personale” al “sub-personale”. Attenzione, sostiene Evola: al di là della coscienza di veglia non esistono solo stati “spirituali” e “superpersonali”, ma anche stati demonici e subumani, che incaute aperture di coscienza e pratiche deviate possono propiziare, con effetti devastanti. Per rendere giustizia a quanto detto basterebbe considerare il sottobosco esoterico italiano e i suoi componenti, per capire quanto egli avesse centrato la questione. Di conseguenza, è importantissimo fare chiarezza: la maggior parte delle correnti “spirituali” moderne, lungi dal propiziare collegamenti con il divino o con stati trascendenti, spalanca invece le porte a stati di medianità e passività (cosa tra l’altro sostenuta a chiarissime lettere dallo stesso Scaligero nelle sue opere, con riferimento all’azione degli “ostacolatori”. Tra le tante correnti citate nel testo c’è anche l’antroposofia di Steiner, a cui peraltro, egli mostra di non essere particolarmente ostile, tant’è che Guenon, letto il testo, lo rimproverò di essere stato troppo tenero con il Maestro austriaco. Egli riconosce il valore del personaggio, nonché la validità di determinati metodi da lui proposti, metodi che a suo dire, non costituiscono nulla di nuovo; ma critica pesantemente il sistema steineriano per i continui riferimenti a “umanità”, “evoluzione”, “progresso”, “pace” ecc. In effetti, se presi alla lettera, determinati discorsi dello Steiner possono, a chi è avvezzo al linguaggio tradizionale e ai testi antichi, apparire come discorsi “umanitaristici e anti-tradizionali”, se ovviamente non contestualizzati. Pare difficile però che Evola non sapesse che il tutto andava preso “cum grano salis” e sorge legittimo il dubbio che egli abbia voluto scoraggiare più l’adesione all’antroposofia quale “setta”, più che all’intero discorso steineriano, inteso quale “scienza dello spirito”, tanto da riconoscere la positività di una vocazione “scientifica” al soprasensibile, di là dal misticismo romantico e dalla devozione religiosa.
È infatti, verso la fine del medesimo brano, che Evola riconosce che la separazione è possibile, e che la parte “operativa” della dottrina rosacruciana di Steiner è valida e utilizzabile. Dice Evola di Steiner: “In realtà l’attività dello Steiner è stata rimarchevole. Egli non presenta propriamente i caratteri di un medium o di uno squilibrato. Sotto certi aspetti anzi, può dirsi che pecca nel senso opposto, ossia di uno spirito scientifico-sistematico ad ogni costo. Se molte fra le sue concezioni non stanno meno nel fantastico di quelle teosofistiche, pure può dirsi, a differenze di queste, che nella sua pazzia vi è molto metodo. Nella sua opera troviamo le stesse incomprensioni legate alla legge del karma, e una trasmigrazione ridottasi a rincarnazione, quelle stesse superstizioni evoluzionistiche, ecc. Chi però fosse in grado di operare una specie di purificazione di dette vedute dalla temporalità storica, potrebbe venire a qualcosa di valido. È possibile separare questa parte deteriore della dottrina dal resto? Nella persona di gran parte degli aderenti ciò non è facile. Essi giurano in verba magistri e guai a chi tocca anche un solo dettaglio della dottrina del maestro. D’altra parte è troppo naturale che ad un certo livello torni più comodo adagiarsi nelle visioni dell’evoluzione cosmica e del resto, che non darsi praticamente ai metodi dell’iniziazione individuale. Ma dottrinalmente, la separazione si può fare, nel senso che si può riconoscere che lo Steiner ha dato degli insegnamenti pratici e dei criteri di discriminazione che sono validi, e che possono essere utilizzati con piena indipendenza dal resto: dall’evoluzione, dalla rincarnazione, dal Cristo ormai operante in noi, dagli ideali di collettività mistica e dell’inevitabile “amore” e via dicendo. Il punto fondamentale egli lo comprende: occorre che l’uomo realizzi appieno il potere della percezione chiara e distinta, del pensiero logico, della visione oggettiva. L’ideale è quello di una scienza esatta del sovrasensibile” (Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, pag. 102 e ss.).
Massimo Scaligero
L’opera di Massimo Scaligero ha avuto un importanza fondamentale, quale ponte tra l’universo antroposofico, spesso inficiato dalle molteplici “deviazioni” di cui parlava Evola, e il tradizionalismo, specie italiano. Egli ha saputo cogliere nel pensiero di Steiner la parte “operativa” e “realizzativa”, lasciando da parte tutta la parte “sociale”, “pedagogica”, “naturalistica” ecc. Ciò che conta per Scaligero è il pensiero vivente, di cui Steiner è Maestro: il Maestro dei nuovi tempi. Egli ha fornito spunti fondamentali per legare la “scienza dell’Io”, cosi come tratteggiata nelle monografie di Ur e Krur, ad un Opus interiore, ad una “preparazione”, un “opus remotionis” alla Grande Opera. La via della Rosacroce, e del Graal, via occidentale e virile per eccellenza, è indubbiamente legata a doppio filo a vie segrete ermetiche e sapienziali che hanno percorso i secoli dal rinascimento in poi. Un interessante punto di vista sui rapporti tra Evola e Steiner è offerta proprio da Scaligero nel suo “dallo yoga alla rosacroce” (Massimo Scaligero, Dallo yoga alla rosacroce, Mediterranee, Roma, 2012). Egli è consapevole che gli attacchi a Steiner, si dovevano attendere da svariati fronti, non da ultimo quello interno alla stessa antroposofia e soprattutto da coloro che si dicono “uomini della Tradizione”, tra cui lo stesso Evola. Il motivo è semplice: l’ascesi del pensiero, è un opera preliminare di catarsi: serve a rendere l’uomo sensibile a determinate esperienze che egli può fare a condizione che conquisti in primo luogo una centratura interiore e un dominio di sé, dominio che deve passare, in questo tempo, per la “testa” e il pensiero, in quanto l’uomo moderno, è, indubitabilmente uomo “cerebrale”. In secondo luogo occorre la conquista di una prima dynamis immaginativa, cosa di cui Evola non avvertiva la necessità, per il fatto di essere egli in possesso di tale facoltà per nascita, per “naturale dignità”, senza che questa divenisse oggetto di (dura) conquista, come è invece il caso per i comuni uomini moderni, che tentano, forse titanicamente, il superamento e l’integrazione del limite umano. Dal canto suo Massimo Scaligero ebbe un ottima opinione di Evola, come dimenticano troppo spesso molti dei suoi seguaci antroposofi, che notoriamente non amano il nostro autore, che avrebbe alterato la dottrina del Maestro (quale eresia!). È nel testo “dallo yoga alla rosacroce” che Scaligero parla del suo incontro col Barone, che gli presentò Colazza e cambiò quindi la sua esistenza. Dice Scaligero: “con il susseguirsi degli anni, dovevo scoprire in lui come valore lo splendore della forza, che incarnandosi in una determinata natura, a questa aveva potuto sottomettere l’espressione medesima della conoscenza”. E ancora: “strada facendo capii che di Evola ce ne poteva essere uno solo valido e non delle copie: tutto il suo insegnamento, il suo yoga, il suo tantrismo. presuppongono la qualità interiore originaria, la magia immaginativa, che per il cercatore moderno è un punto di arrivo. Della conversione del pensiero riflesso, invero, Evola non si è mai dovuto preoccupare, perché non ne ha avuto bisogno, fruendo egli del pensiero in movimento come di una forza congeniale alla sua personalità: capace di concepire la liberazione, ma non il proprio moto autonomo come inizio della liberazione medesima, in quanto identico con la propria forma dialettica. Il pensiero di Evola mi parlava secondo il mondo di forze a cui attingeva e questo mondo di forze era importante per me realizzare, di là dalla visione delle cose che la sua dialettica come espressione personale comportava, ossia di là dal valore dialettico della Tradizione a cui faceva riferimento: valore che per gli evoliani, non per Evola, è tutto, e per cui essi trovano serie difficoltà a realizzare quel mondo di forze” (Massimo Scaligero, Dallo yoga alla rosacroce, Edizioni Mediterranee, pag. 78-79).
Cosa dire della sintesi? È evidente che l’opera di Evola è fondamentale per una visione del mondo. Senza di esso non esisterebbe nulla, né del “fronte della Tradizione”. Del resto Evola non ha però dato un sistema, salvo indicare i metodi di realizzazione tradizionali (yoga, buddhismo, ermetismo), ma lasciando imprecisato il “come” approcciarsi a tali esperienze in maniera “sana” quindi con una propedeutica preparazione a ciò che, in caso contrario, rischia di trasformarsi in una disastrosa riproposizione del mito prometeico, se non nell’esperienza di Ur, che come abbiamo detto, include molteplici esperienze di varie scuole iniziatiche. E qui subentra il discorso del “pensiero vivente” come catarsi, come ascesi preliminare, come centratura di sé e creazione di un primo nucleo intangibile, che possa poi affrontare le “acque”, senza esserne sopraffatto.
Neo-spiritualismo e Tradizione
Che dire quindi di coloro che, buttando l’acqua sporca insieme al “puer” (e l’immagine ci sembra da meditare attentamente), inseriscono senza pensarci due volte l’intera rappresentativa del “pensiero vivente” nell’ambito del neo-spiritualismo? La critica che Evola porta avanti in “maschera e volto” è fondata. Le molteplici scuole esoteriche, nuove religioni, sette e via dicendo che infestano il mondo al giorno d’oggi ne sono una prova lampante. La prova del nove di qualsiasi indirizzo esoterico, o operativo, o iniziatico che dir si voglia è vedere se esso tende a rafforzare la coscienza di veglia, o invece a solleticare la parte emotivo-irrazionale del discepolo, quando non anche la sua parte animale vera e propria. Quand’anche non si tratti di vere e proprie deviazioni, al limite del satanismo e dell’inversione di simboli e significati, di norma appositamente creati da Enti e forze per deviare l’uomo che ancora cerca, dalle vere aspirazioni spirituali, il tutto si risolve in un devozionalismo, in una religione della “vita”, dei sensi e della “libertà” intesa in senso deteriore. Tutto ciò è completamente assente nella “via del pensiero vivente”, e nella Scienza dello Spirito. è anzi evidente la volontà di Steiner di fornire una via “solare”, che rifugge dal sub personale e da stati “medianici”, e che anzi tende al potenziamento dell’individualità conscia, e non ad una dissoluzione in un caotico e naturalistico “tutto”. Ed è questa la via secca, la via solare, la via eroica e virile per eccellenza. Eracle stesso soccombe perché si “addormenta” e si fa sottrarre il frutto conquistato con aspra lotta. Giacobbe lotta con l’angelo del Signore per “tutta la notte”: rimane sveglio e riporta vittoria. Gilgamesh perde l’eterna giovinezza conquistata per essere venuto meno ed essere anch’egli caduto preda del simbolico “sonno”, che è, del resto, lo stato costante della vita di veglia dell’uomo, specie di quello moderno. Lo svegliato è, prima di tutto, uno che è presente a sé stesso, che vive in ciò che fa e impronta di sé e di senso ogni atto della vita quotidiana. E questo, ci sia concesso, è molto romano e molto occidentale.
È altrettanto evidente come ai fautori della Tradizione sia sfuggita una verità fondamentale che Massimo Scaligero fa notare con parole magistrali: la Tradizione è una forza viva, non è una cristallizzazione di esperienze passate; non è il culto del passato, non è un dogmatismo settario, una “religione dell’esoterico”. È invece una forza che ha preso, prende e prenderà le forme più svariate, atte a condurre il mondo allo Spirito, ma che non sono mai le stesse, nè mai si ripetono. Chi pensa in maniera diversa non ha capito nulla della Tradizione e confonde la forma con la sostanza. Il fatto che molti “tradizionalisti” si ostinino a giudicare l’opera di Massimo Scaligero e tramite lui di Rudolf Steiner, in base al “sentito dire”, per cui si tratterebbe di “metodi moderni”, non legati al alcuna “regolarità tradizionale” è indice di un livello di libertà intellettuale e di comprensione del concetto di “Spiritualità” davvero basso. Per un semplice motivo: costoro giudicano la “regolarità” di un sistema, esposizione e dottrina non da ciò che essa trasmette, dai contenuti viventi e dal riaffermare sotto apparente diversità e formulazione verità eterne ed immutabili, ma dal fatto che un autore o una “associazione iniziatica regolare” l’ha definito o meno appropriato. Ora, che nei testi tradizionali delle spiritualità più varie non sia contenuta l’ascesi del pensiero è una questione naturale: non si avvertiva minimamente, duemila o solo mille anni fa, la necessità di un simile “Opus”, perché per l’uomo “antico” era naturale uno stato che per l’uomo “moderno” è oggetto di conquista. È evidente che l’uomo moderno non è assimilabile al romano antico, o all’ indiano dei Veda, e questo dispiacerà a chi crede che basti il mero sentimento e ammirazione per un epoca per essere come chi in quell’epoca viveva. Ma se i detrattori di Scaligero, Steiner, Filippani Ronconi e Colazza ardissero ad approfondire le pratiche proposte vedrebbero che esse ben poco differiscono, NELLA SOSTANZA da ciò che è la preparazione all’Opera nell’ermetismo, dalla presenza a sé stessi stoica, da molteplici pratiche ed indicazioni platoniche e pitagoriche. Il fatto che per essere considerati in regola tradizionalmente occorra una presunta “patente” rilasciata da una religione, setta, loggia o gruppo, con la coeva smania di attaccarsi ad una “catena ininterrotta” è il mantra che viene alzato contro la via del pensiero vivente. Ciò mostra una sottile paura in costoro: il bisogno di tutela, di essere guidati e presi per mano, cosa che viene ammantata con presunto “rispetto della Tradizione”, quando è in realtà timore della presa d’atto che il percorso iniziatico è sempre stato un percorso individuale e che, mentre in altre epoche esistette un sostegno rappresentato da religioni e gruppi misteriosofici, ora di ciò non è il caso di parlare. Che le organizzazioni iniziatiche esistano noi ne siamo convinti: ma ad un livello diverso da quello comunemente inteso. Non si tratta tanto di gruppi di uomini, quanto di forze trascendenti, che sono in attesa di accogliere e guidare coloro che se ne saranno resi degni. Ecco l’Aurea confraternita della Rosa+Croce, in attesa del discepoli che avrà realizzato lo sgrezzamento della Pietra.
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