Le menzogne, la manipolazione ed alcune verità.
L’indipendenza della Catalogna non ci sarà. Non sappiamo se gli autori del colpo di Stato antispagnolo di Barcellona andranno davvero sino in fondo, ma è ormai chiaro che la Spagna – con alla testa una parte notevole della stessa regione ribelle – si è svegliata da 40 anni di letargo ed ha battuto un colpo. Grazie al Re Filippo VI, innanzitutto, e grazie ad un sussulto che viene dal profondo della storia della nazione iberica. La menzogna è adesso chiara, la narrazione nazionalista – una sorta di Alice nel paese delle meraviglie o se preferite un’Arcadia onirica e vittimista supportata dalla credulità di gran parte dell’opinione pubblica europea – si è dissolta.
Partiamo dalla madre di tutte le bugie: la Catalogna non è Spagna recitano i manifesti in inglese – ad uso dei gonzi stranieri – di tutte le piazzate separatiste di anni e decenni. Falso: l’unità statale e nazionale spagnola è vecchia di oltre mezzo millennio, e risale all’unione degli antichi regni di Aragona (cui apparteneva il principato di Catalogna) e di Castiglia, con il matrimonio di Ferdinando e Isabella nel 1469, i “re cattolici” che completarono l’unificazione dei popoli di Spagna cacciando gli ultimi Mori da Granada nel gennaio 1492 e dettero inizio alla straordinaria avventura d’oltremare di Cristoforo Colombo. Dunque, la regione catalana è parte integrante delle Spagne (per usare l’espressione plurale cara a Francisco de Tejada) almeno dal Medioevo. Per i cultori delle date, ricordiamo che già nel 1212 la battaglia vittoriosa di Las Navas de Tolosa vide uniti i regni di Castiglia, Aragona e Navarra, insieme con il Portogallo e pose fine alla lunga dominazione araba degli Almohabi, dilagando sino all’Andalusia. Negli ultimi anni, una testarda manipolazione storica di parte catalana ha inventato un regno catalano aragonese mai esistito. Anche per questo, è forte il risentimento aragonese verso i vicini catalani.
La manipolazione dei mezzi di informazione ha raggiunto, nelle ultime settimane, livelli di comicità involontaria, frutto della più completa ignoranza della storia spagnola. Nel presentare la “Diada”, ovvero la giornata nazionale della Catalogna che si svolge l’11 settembre, è stato detto da più parti, sino a diventare vulgata ad uso delle masse televisive, che si tratterebbe del ricordo della guerra di secessione catalana. Si trattò al contrario di una guerra di successione dinastica tra opposti pretendenti al trono sostenuti da vari territori del regno. Talvolta basta una vocale sbagliata per cambiare le carte in tavola. Quanto allo sfruttamento ed all’oppressione di cui sarebbe oggetto da secoli la regione di Barcellona, già nel Seicento Francisco de Quevedo, il grande poeta e scrittore del secolo d’oro che fu anche diplomatico e uomo politico, scriveva che i ricchi catalani erano usi al lamento ed alla pretesa di trattamenti di favore.
Fu Stendhal, il romanziere francese, in un soggiorno spagnolo, a stupirsi dei privilegi di cui godeva la nascente industria catalana. In particolare il settore tessile, reso monopolista dal protezionismo di Madrid che, tra l’altro, distrusse l’industria del lino della meno prospera Galizia. Sempre nel XIX secolo, fu la Catalogna ad ospitare le prime ferrovie per scelta di Madrid, mentre la potentissima borghesia mercantile e finanziaria di Barcellona continuò a ottenere molto dallo Stato centrale, tra ribellioni minacciate e talora realizzate, anche dopo lo choc nazionale del 1898, causato dalla perdita delle ultime colonie, data cui si fa risalire la vicenda della Spagna contemporanea. Non possono essere dimenticate le guerre che insanguinarono la Spagna nel XIX secolo, a partire dal regno di Ferdinando VII, il re fellone, Carlo IV e poi di Isabella II che mutò, con la Prammatica Sanzione del 1830, la linea di successione del Regno (guerre carliste).
Il nazionalismo basco e catalano si forgiò in quegli decenni terribili e si sviluppò nell’ambito del legittimismo monarchico cattolico ed antiliberale, per sfociare nel ribellismo repubblicano e marxista che condusse alla tragedia degli anni 30 del Novecento, conclusa con la sanguinosa guerra civile vinta dai nazionalisti di Franco. Nel corso delle convulsioni che precedettero il pronunciamento di Francisco Franco (luglio 1936), al tempo della II Repubblica spagnola la Catalogna proclamò per dieci ore l’indipedenza. Il generale repubblicano comandante della piazza di Barcellona (catalano anch’egli!) risolse la ribellione a cannonate. Lluìs Company, il protagonista della cosiddetta “balconata” indipendentista del novembre 1934, un cattolico devoto, venne poi fucilato nel 1940 dai falangisti. La mitica borghesia catalana, spaventata dagli eccessi anarchici, comunisti e repubblicani, accolse di buon grado il nuovo regime, che continuò la politica di protezione statale dell’economia regionale, favorì l’industrializzazione, il cui simbolo fu lo stabilimento automobilistico della Seat di Martorell e l’agricoltura intensiva, togliendo l’acqua all’Aragona per deviarla verso la costa. Durante il franchismo, era permessa un’unica fiera commerciale ed industriale, quella di Barcellona. Una massiccia immigrazione interna si è protratta per tutto il secolo, portando a Barcellona e nella sua cintura circa due milioni di lavoratori dalle aree depresse della Spagna meridionale, della Castiglia e della Galizia. Sono figure aneddotiche ed oggetto di disprezzo ostentato nella Catalogna odierna il cameriere galiziano, il manovale proveniente dal Sud della Spagna e la “chacha”, la bambinaia tuttofare andalusa.
Ma se questa è storia, nelle ultime settimane siamo stati testimoni di un’accelerazione culminata domenica 1 ottobre nel referendum illegale sull’indipendenza promosso dai separatisti. Al riguardo, occorre registrare un’altra serie di menzogne. La più devastante per l’immagine della Spagna è stata la penosa comparsa televisiva del presidente Mariano Rajoy – forse il più inadeguato capo di governo della storia iberica – il quale ha sentenziato, a reti unificate e di fronte al mondo, che nessun referendum si era svolto. Bugia grottesca, tutti avevano osservato le code nei seggi più o meno di fortuna allestiti dalla Generalitat ed anche le cariche della polizia nazionale. Il colonnello Buttiglione delle trasmissioni radiofoniche di Arbore e Boncompagni non si arrendeva mai, neppure di fronte all’evidenza; forse era parente di Don Mariano, che si è esposto al ridicolo, un errore irrimediabile per chiunque, ma devastante per un responsabile politico. E tuttavia, anche la “narrazione” indipendentista ha retto per pochi giorni. Svanita l’onda emozionale dell’empatia pro catalana prodotta da qualche manganello spagnolo nei tremebondi europei seduti sul divano di casa, altre menzogne stanno cadendo ad una ad una.
Dal lato nazionalista si gridava al ferimento di 900 inermi cittadini interessati solo a votare. Tanto inermi non dovevano essere, se almeno 100 poliziotti sono dovuti ricorrere alle cure mediche, e comunque il numero non è controllabile, giacché, udite udite, gli oppressi catalani hanno il controllo dell’intero sistema sanitario ed ospedaliero della regione. Una signora che lamentò la frattura di tutte le dita della mano da parte poliziesca, è risultata una mentitrice con ruolo di consigliere municipale della sinistra repubblicana separatista. Quanto alle schede, c’è chi se le è portate da casa fotocopiate, seguendo l’invito dei capi nazionalisti, altri hanno votato in Chiesa (!!!), qualcuno ha affermato di aver votato anche quattro volte ed in almeno 80 comuni il numero dei voti è risultato superiore a quello del corpo elettorale. In un caso, la polizia ha sequestrato un’urna che entrava in un seggio piena di schede. Niente male, nell’Europa legalitaria e piena di cautele procedurali del 2017.
Due giorni dopo, la presa violenta delle strade e delle piazze da parte di una turba eccitata dagli sguardi allucinati. Bambini e ragazzi fatti uscire dalle scuole poste sotto il dogmatico controllo dei nazionalisti, poiché la Spagna invertebrata si è lasciata spogliare della pubblica istruzione, vergognosi assalti agli alberghi dove alloggiano i rinforzi di polizia in mezzo a ricatti dei sindaci ai loro titolari, qualche razzia a supermercati, accerchiamento di turbe impazzite ai partiti non separatisti, a semplici cittadini non allineati, assedi ed insulti ad insegnanti e persino bambini sospettati di “spagnolismo”, il peccato capitale agli occhi di questi nazistelli mediterranei. Poiché in questi casi al tragico si assomma il comico, vi è notizia che sono stati esclusi da una mostra canina di una città catalana due esemplari colpevoli di essere … cani poliziotto! E’ tutto vero e controllabile, come l’immonda dichiarazione dell’assessore all’Interno (pardon ministro) catalano in occasione dell’attentato di agosto sulla Rambla, che ha separato le vittime catalane da quelle spagnole.
Poi ha parlato il Re. Anch’egli si gioca tutto in queste settimane davvero storiche. La Catalogna indipendente trascinerebbe la Spagna intera in una crisi territoriale, politica, civile, istituzionale che travolgerebbe per prima la Corona, unico baluardo alla dissoluzione nazionale. Serio, duro, in sette minuti ha ridato speranza alla nazione, ha smontato l’intera costruzione separatista ed ha ispirato quel riscatto popolare che il giorno 8 ha svelato che la repubblica dalla bandiera stellata è nuda, con l’immensa manifestazione di piazza “unionista” di centinaia di migliaia di catalani.
Il nazionalismo, dobbiamo riconoscerlo noi patrioti intransigenti, figlio del Diciannovesimo secolo liberale, può diventare un totalitarismo coperto, latente, che riduce tutto ad uno, la cui prima pretesa è di rappresentare, anzi essere il popolo. Le dichiarazioni assertive dei nazionalisti alla Puigdemont cominciano inevitabilmente così: “La Catalogna vuole, la Catalogna esige, la Catalogna pensa”. No, le cose non stanno così, i separatisti rappresentano una frazione importante, ma probabilmente non maggioritaria e tanto meno moltitudinaria della popolazione. Parlano per sineddoche, la figura retorica di chi cita la parte per il tutto. Si autonominano rappresentanti, interpreti esclusivi e talvolta deliranti della volontà generale, quella pericolosa armatura concettuale che Jean Jacques Rousseau consegnò alla Rivoluzione francese giacobina con esiti sanguinosi. La narrazione diffusa massicciamente ed obbligatoriamente, creduta per autosuggestione da molti e accettata dalle masse televisive di tutta Europa era: “la Catalogna vuole l’indipendenza”. Non è esattamente così, la Catalogna, come ogni regione o nazione normale, è uno spazio complesso, plurale e libero che, nonostante quarant’anni circa di impressionante indottrinamento, di odio esacerbato verso tutto ciò che è spagnolo, di suprematismo d’accatto, non è compattamente nazionalista né secessionista.
Ovvio, milioni di catalani sono originari del resto di Spagna, o figli e nipoti di immigrati. La favola antica di una nazione vessata etnicamente e linguisticamente compatta che ambisce all’indipendenza da secoli può essere creduta solo per la coazione a ripetere che l’ha imposta con mezzi propagandistici impressionanti, in buona parte provenienti dal portafogli della Spagna intera e di una metà della sua stessa gente che non la condivide. Un grande lavoro, quello svolto dalle menti raffinate degli intellettuali nazionalisti e concretizzate da un ceto politico che ha fatto dell’abolizione della Spagna a spese degli spagnoli la propria ragione d’essere.
La follia è partita da Madrid, però: governi di destra e sinistra, nel corso dei decenni hanno permesso alla Generalitat di avere la competenza esclusiva sulla sanità, sui servizi sociali, sull’ordine pubblico (i 17.000 Mossos d’Esquadra che rispondono alla Generalitat e si burlano della magistratura e del governo nazionale) e soprattutto l’istruzione. In più, la Catalogna, per luogo comune schiacciata dai terribili castigliani e dai cantaores di flamenco, dispone di un canale televisivo pubblico, TV3, controllato dalla Generalitat, che diffonde da 35 anni il messaggio nazionalista, dove non vi è un minuto di trasmissioni in spagnolo e che, ciononostante, è pagata da tutti i contribuenti, da Santander allo stretto di Gibilterra.
Non si finisce di segnalare agli increduli che in Catalogna le scuole non sono statali, ma regionali e non si può, anzi è vietato impartire le lezioni in lingua spagnola, idioma materno, repetita iuvant, di almeno la metà dei cittadini. Questo folle sistema qualcuno tenta adesso di introdurlo nelle Isole Baleari e persino a Valencia, con la complicità attiva dei marxisti di Podemos travestiti da nazionalisti maiorchini e valenzani e dei loro alleati socialisti. Il metodo è l’imposizione nelle istituzioni e nella scuola di parlate affini al catalano dimenticate da generazioni, lo scopo non è il giusto recupero di una parte dell’identità delle popolazioni, ma è fare a pezzetti lo Stato nazionale a partire dalla lingua comune, che ne è l’elemento più potente, per realizzare l’equazione secondo cui lingua e nazionalità coinciderebbero. E’ l’imperialismo dei Paesi Catalani, cui è facile opporre che argentini, portoricani e persino molti filippini parlano spagnolo, ma ovviamente spagnoli non sono, né gli svizzeri romandi o i valloni belgi sono francesi. Sembra incredibile, un salto nel passato remoto riportato alla luce per interessi che, al contrario, sono ben attuali e iscritti in un orizzonte in cui la geopolitica, il denaro e il suo potere sono ben presenti.
Per questo, occorre svolgere una riflessione complessiva sulla vicenda spagnola, poiché rappresenta lo specchio di molte contraddizioni che minacciano di intossicare la convivenza e quel minimo di senso comune di appartenenza che ancora unisce i popoli, le nazioni che formano e gli Stati che hanno costituito.
Le questioni sono moltissime: nella seconda parte del presente lavoro rifletteremo su alcune di esse: il rapporto tra legalità e legittimità; l’accusa infondata mossa ai cosiddetti sovranisti di difendere, limitare solo per gli Stati nazionali le prerogative e i poteri che negherebbero ai sostenitori dell’indipendenza delle “piccole patrie”; il difficile equilibrio tra cittadinanza , nazionalità, nazionalismo, patriottismo ( costituzionale, civico o comunitario); la diffusa pretesa e convinzione che l’esercizio del voto sia la panacea di ogni male, specie nell’ambito della contestata ed ambigua autodeterminazione; l’esistenza di un ampio fronte di opinione nel mondo occidentale convinto che il principio destinato a sciogliere ogni contrasto o problema, anche i più intricati e drammatici stia esclusivamente nel “dialogo”, idea assai rispettabile che tuttavia resta un metodo e non una soluzione.
ROBERTO PECCHIOLI