“Questa essendo la perfezione e il sugello di tutto, egli qui deve mostrare il colmo della forza e del suo incomparabile valore” (1)
Per comprendere a fondo le motivazioni che hanno spinto un antropologo come Martino Nicoletti ha elaborare un saggio circa la spiritualità possibile nell’età avanzata del Kalì Yuga, cioè dell’era del ferro di esiodea memoria, in cui le componenti terrigene e materiali assurgono ad una dimensione di predominanza rispetto a quelle sacrali, è necessario rammentare come un unico modello socio-economico su scala planetaria, basato sul consumismo sfrenato e sulla logica del profitto, tendente sempre più all’omologazione totale di tutti i popoli verso stili di vita unificati, abbia prodotto un’inevitabile distruzione di tutto ciò che rende un uomo orgoglioso di appartener
Nel suo “Cavalcare il Kali Yuga (Una guida per gli uomini alla ricerca della loro virilità sacra)” per OM Edizioni, Martino Nicoletti, delinea, pertanto, quali debbano essere le caratteristiche del guerriero dello spirito, che sappia esplicitare un’appartenenza che, diversamente dal passato, non sia astrattamente intellettualistica, ma esigente dall’individuo tutte le proprie qualità più intime, in termini di coraggio, di forza interiore, di volontà di potenza. Il testo, ispirandosi alla migliore sapienzialità eroica d’Oriente quanto d’Occidente, esprime una rara maestria nel concepire come ogni adesione spirituale alla vita potrà essere realmente trasmutativa una partecipazione attiva sincera, intimamente eroica, radicandosi nel microcosmo di ognuno, divenga coscientemente di un modus essendi, che sappia rappresentare l’axis verticale del nostro agire manifestato. Una verticalità, pertanto, può ridestare una centralità animica, un aristotelico motore immobile, una fonte inesauribile di saggezza, solo quando essa sappia rappresentare il fine ultimo delle nostre attività, una corrispondenza organica, una forza, un’Idea che unisca ciò che solo il fenomenico rende differente e molteplice:
“Impara a uccidere e a nutrirti dei tuoi stessi demoni” (2).
La forza evocatrice a cui l’autore si riferisce non può che essere assunta che per estrema identità simbolica e trascendente, per la sua natura essenzialmente eroica e solare, per l’inspirarsi a quella concezione di Virilità Olimpica, tipica delle grandi civilizzazione indoeuropee della storia antica. Punto centrale delle riflessioni di Martino Nicoletti è una concezione autenticamente cavalleresca delle dinamiche sottili e ciò è possibile notarlo in una serie non casuale di simboli, legati alla catabasi, alla trasfigurazione del veleno, alla fioritura interiore, all’eroicità quale riaffermazione ermetica del Sole interiore: l’ammonimento dell’Oracolo di Delfi, “sii te stesso!” risuona ad ogni saggio aforisma, ad ogni indicazione in cui l’azione da compiere viene indicata come necessariamente centripeta, dentro di sé, all’interno dell’athanor – uomo:
“Il bersaglio non si trova mai al di fuori di te, né lo scudo che può proteggerti all’esterno della tua persona” (3).
Una visione del mondo e della vita, che sappia riconsegnarci il senso dell’origine, quindi del Sacrum e dell’Eterno, che risiede unicamente nella propria caverna animica e non in paradisi ideologici o teistici, l’Olimpo ed i Numi, essendo risvegli di stati sublimati di coscienza e non idoli da pregare fideisticamente. Il lettore potrà ritrovare un voce antica su ciò che bisogna essere e su ciò che bisogna agire. Se si accetta che la via della Virilità Olimpica, si assuma l’onere di diventare inesorabili verso se stessi e caritatevoli verso il prossimo, per una drittura ferrea che fu sempre caratteristica degli Eroi. La tenacia marziale, infatti, si realizzi essenzialmente principalmente nella dimensione interiore, in cui le espressioni Cosmo ed Ordine assumano valenze palingenetiche effettive e non sia meramente enunciazioni di principio:
“Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria statua interiore, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro” (4).
Nel bel libro di Nicoletti abbiamo ritrovato la lotta metafisica della antiche popolazioni indoeuropee, che è lotta tra Giorno e Notte, che è lotta tra Sole e Luna, che è lotta tra la Via Eroica al Divino ed un misticismo devozionale o, ancor peggio, di matrice panteistica: le basi di una visione che attivamente sappia affrontare la decadenza dei tempi ultimi, infatti, possono essere ritrovare unicamente in una schietta e sincera determinazione volitiva, che si liberi dai catechismi dei “venerabili” di turno, che osa con certezza, tacendo, riprendendo quell’ardimento legionario che forgia le azioni interiori che, uniche, sappiano comandare ai Numi, magicamente, escludendo compromessi, intellettualismi e la contiguità tanto con una spiritualità ctonia di spurio neopaganesimo, quanto con una religiosità lunare, argini fallimentari nei confronti delle sempre più dirompenti manifestazioni di uno psichismo inferiore ed immaginale:
“In fondo al fondo, nel fondo di ogni fondo, esiste un fondo senza fondo che tutto sostiene. E che sostiene anche te” (5).
Nel testo, la rammentata “violenza al Cielo” (6), è la riaffermazione di una stoica centralità animica, che esclude il coinvolgimento nel vortice delle seduzioni del mondo moderno, dei suoi dolori come dei suoi desideri, temprando l’animo dell’uomo, ove solo l’impassibilità e l’imperturbabilità attive possano realizzare, fattivamente, l’ideale stile di vita del Sapiente – Heroe. L’Uomo – Vir, tornato ad essere signore di se stesso, incarna la qualità trascendente dell’Invictus, era il Figlio del Cielo e della Terra nella tradizione taoista, come si riscontra nella tradizione, simbolo vivente della stabilità sottile, a cui esotericamente si associava l’idea della Giustizia e della Grande Pace, ma anche il potere di guarigioni miracolose, come spesso accadde, per esmepio, per i sovrani merovingi, in cui l’azione o la forza regale era palingensi vivente di una presenza divina risvegliata e non più sopita: le caratteristiche del Signore Universale, di colui che la tradizione indù denomina come Cakravartì o Volgitore della Ruota, vero ed unico rappresentate di Dio sulla Terra, l’imperator pacificus di dantesca memoria, è solo colui che ha dato guerra alla guerra, non esiliandosi, ma affrontando il mondo in caduta. E’ questo il motivo, inoltre, per cui la concezione ermetico-alchimica nel pensiero dell’autore non casualmente ci riporta alla mente la famosa opera evoliana dal titolo similare (7), in cui il conseguimento della Grande Liberazione è Opera essenzialmente eroica:
“La disciplina, l’ascesi sviluppata duramente lungo le vie tanto del bene quanto del male, attraverso prove estreme, in inserorabilità di fronte a se stessi ed agli altri – può avere il mero valore di una sensazione accresciuta ed esasperata della <<vita>>, di un Io, il quale non trae che altro il sentimento di sé se non da questa stessa selvaggia acre sensazione”.
Quando Evola, nella sua introduzione allo scritto guènoniano “La crisi del mondo moderno”, come in altre occasioni, pose in evidenza che solo l’azione materializzata può essere considerata subordinata alla contemplazione, volle esprimere una precisa conoscenza dottrina, che l’autore del testo che recensiamo sembra aver fatto sua: si sottolinea, infatti, come l’azione dei guerrieri sia sempre stata caratterizzata da una profonda passionalità, ma che essa, tramite la trasfigurazione operata dall’aretè della Fortezza nella psyche, sia stata sublimata in Azione sacrale, quindi regale ed olimpica. In merito, si ricordino nella Bhagavad-gita le incertezze e l’emotività sentimentale di Arjuna, l’Arciere, durante la crudele e sanguinosa lotta contro i parenti Kaurava, che solo la forza divina di Krsna, avatara di Vishnu, che lo sprona ad un agire non agente. In conclusione, possiamo definire la pubblicazione di Martino Nicoletti come un ottimo antidoto alla modernità ed alle vane fughe dalla realtà, la battaglia essendo qui ed ora, in quel Dioniso che bisogna affrontare e farsi amico tramite l’agone della vita ed in cui si trionfa solo sotto la tutela di Padre Marte:
“Cavalcare il Kalì Yuga come si affilerebbe dunque la lama di un coltello: ferro con ferro, Kalì Yuga con Kalì Yuga; a mani nude, energia con energia” (8).
Note:
1 – Cesare della Riviera, Il Mondo magico de gli Heroi, Editori Laterza, Bari 1932, p. 74;
2 – Martino Nicoletti, Cavalcare il Kali Yuga, Om Edizioni, Bologna 2019, p. 27;
3 – Ivi, 84;
4 – Plotino, Enneadi I, 6, 9;
5- Martino Nicoletti, op. cit. p. 29;
6- Ivi, 126ss;
7- Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, p. 55;
8 – Martino Nicoletti, op. cit. p. 132.
Luca Valentini