di Enrico Marino
Non c’è bisogno di carcerieri, cancelli, telecamere. Quando la gente è distratta da cose superficiali, quando la vita è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso si trasforma in un balbettio infantile, quando un intero popolo si trasforma in spettatore, allora la Nazione è in pericolo. La differenza sostanziale è che una tirannia manifesta è molto più facile da riconoscere e quindi da combattere rispetto alla farsa quotidiana e subdola messa in scena dal pensiero dominante e dai suoi luoghi comuni, dalla nuova religione progressista e dalla cultura individualista delle libertà e degli ipertrofici diritti del singolo. L’individuo globale, infatti, crede di autodeterminarsi, di essere informato, consapevole e libero.
E se siamo tutti pronti ad abbattere una prigione, che succede invece se non si ode alcun rumore di chiavistelli? Chi è disposto a prendere le armi contro un mare di opportunità, di distrazioni e di comodità? In verità, senza accorgercene, viviamo in un lager dove a mutare sono soltanto gli scenari e i metodi: i fili spinati oggi sono dentro le nostre teste, i divieti sono le museruole del politically correct, le catene sono diventate gabbie mentali, mentre le sirene dei campi di lavoro sono state sostituite dalle fiction o dai talk show delle televisioni.
Non abbiamo un numero tatuato sul braccio, ma siamo ridotti a codici a barre umani e il nostro campo di lavoro è quello sterminato supermercato che è diventato il mondo globalizzato. Non abbiamo scelta, perché amiamo la nostra stessa schiavitù, nessuno più ci imprigiona e questa libertà assoluta, che non sappiamo né esercitare né disciplinare, diventa la nostra peggior prigione. Una prigione nella quale, però, si può vivere benissimo quanto più ci si uniforma al pensiero unico che propone sempre nuove opportunità in cambio del rifiuto di ogni limite naturale e di ogni disciplina tradizionale; il rifiuto di ogni modello normale del mondo e della vita per abbracciare una concezione distorta e invertita dei principi fondamentali dell’esistenza umana.
Mai prima, s’era manifestato nel campo genetico un tale delirio di onnipotenza, contro la natura, che spesso ha travolto ogni limite biologico ed etico e che poi ha alimentato una diffusa subcultura che rifiuta il dolore, la morte e la vecchiaia in nome di una anestetica e artificiale lusinga di eterna bellezza e gioventù. Dal rigetto di ogni vincolo naturale al disconoscimento di ogni obbligo, anche sociale, il passo poi è breve. Nell’epoca del trionfo dell’individualismo edonista, in cui a ogni desiderio corrisponde l’istituzionalizzazione di un diritto che ne garantisca l’assoluta soddisfazione, si giunge così a teorizzare la negazione di ogni impegno e di ogni responsabilità per la realizzazione massima del proprio ego ridotto ormai a una pura astrazione, isolato da ogni contesto familiare e sociale, totalmente racchiuso nel proprio arco temporale, senza alcuna proiezione nel divenire né in una dimensione comunitaria.
Ecco allora che per avere più tempo per “realizzarsi” si può mettere da parte anche l’impegno e la fatica della procreazione e avere tutto può significare la scelta di non avere figli. Il settimanale americano Time ha pubblicato un articolo per sostenere che oggi l’ideale di una “vita libera” si persegue attraverso la negazione della genitorialità, intesa come via maestra alla autorealizzazione individuale o di coppia.
Una vita childfree, senza l’imperativo di dover formare una famiglia classica e con la possibilità, specialmente per le donne, di realizzarsi al di fuori dei canoni tradizionali. Una sessualità piena disgiunta dalla maternità rappresenta la posizione intellettuale attualmente più avanzata e più radicale del neofemminismo americano, che rifiuta la funzione riproduttiva in nome di una riappropriazione assoluta del corpo della donna al di fuori degli schemi culturali convenzionali.
Donne (e uomini) che rivendicano il diritto a costruire il loro posto nel mondo attraverso lo studio, il lavoro e l’amore nelle sue differenti declinazioni, ma che rifiutano il peso della cura familiare e di legami troppo coinvolgenti vissuti comi intralci sulla loro strada. La società atomistica crea, in tal modo, esseri sempre più isolati e introflessi, indifferenti a tutto quello che li circonda, illusi dal miraggio di un successo e di una realizzazione personali svincolati da ogni legame di solidarietà.
Si potrebbe parlare di egoismo sociale di un’intera generazione se questa operasse con assoluta consapevolezza e in piena autonomia. Ma in molti casi è stata la cultura disumanizzante del modernismo e del radicalismo liberal che ha prodotto questi esseri spiritualmente snervati che trovano il compimento alle loro aspirazioni nella società globalizzata del benessere e del consumo.
Senza figli e senza rimpianti, alla ricerca del piacere di una vita vissuta fino in fondo in assoluta libertà, la nuova umanità, in realtà, sta gettando le basi (almeno in Occidente) della propria scomparsa biologica, corrosa al proprio interno dalla sterilità delle crescenti unioni omosessuali e sommersa all’esterno dalla fertilità dei popoli del terzo e quarto mondo. La società felice e la vita libera che essa follemente sogna somigliano sempre più drammaticamente al distopico limbo esistenziale descritto da Aldous Huxley.