di Mario M. Merlino
‘A trentacinque anni – prigioniero come Villon, – incatenato come Cervantes – condannato come Andrea Chènier, – prima dell’ora dei condannati, – come altri in altri tempi, – su questi fogli scarabocchiati…’: inizia così Il Testamento di un condannato, scritto nel carcere di Fresnes, 22 gennaio 1945, quindici giorni prima d’essere legato al palo con davanti dodici bocche di fuoco avide del suo sangue. A Robert Brasillach, fin dal suo romanzo più celebre I Sette Colori, i trent’anni appaiono un doloroso, insanabile spartiacque tra la giovinezza e l’età adulta. Doloroso perché, ci piaccia o meno, ci vediamo costretti ad abbandonare la gioia di vivere e, soprattutto, l’amicizia. In nome di questo ideale, di questa ‘poesia del XX secolo’, egli si schiera con il Fascismo ‘immenso e rosso’.
Ecco perché va ad incontrare in Belgio, nel 1936, il capo di Rex, Léon Degrelle, che allora aveva trent’anni (e se ne rammenta quando intitola una delle sue poesie più forti, Il mio paese mi fa male, che dava il titolo ad una raccolta giovanile di versi di Degrelle). Ed ecco perché raggiunge la Spagna attraversata dalla guerra civile; è fra i primi a visitare Toledo devastata e l’Alcazar appena liberato ed eleva quale simbolo d’eroe e martire il capo della Falange, Josè Antonio, fucilato a trentadue anni nel carcere di Alicante.
In un precedente intervento, sempre su Ereticamente, avevo accennato alla intenzione di scrivere qualcosa su Pierpaolo Pasolini e su Moana Pozzi. Di Pasolini ho scritto ed allora mi tocca parlare di Moana Pozzi. E non sono di certo queste giornate di caldo torrido ad allertare i sensi, a ridestare gli antichi desideri, a riannodare i fili di quei sogni che s’imponevano alla mia adolescenza irrequieta ed inquieta. Non necessito di pornografia e dintorni perché ho rigettato la morale da lunga data (non l’etica, si badi bene) e, poi e via, potrei coinvolgere il mio fratello più caro, Robert Brasillach, in una operazione dal sapore scandalistico? Abbiate pazienza, c’è sempre tempo e luogo per…’se sei bello, ti tirano le pietre!’…
Nel 1991, a sue spese ne stampò ventimila copie, Moana Pozzi pubblica una sorta di retrospettiva di tutti gli uomini che sono transitati nel suo letto, fra cui – pur non citandone mai il nome – Bettino Craxi, titolo del libro La filosofia di Moana. Intervistata su Il Corriere della Sera, ella cita a modello di vita l’affermazione di Julius Evola ‘Vivi come se domani fosse l’ultimo giorno e pensa come se non dovessi morire mai’. Ai benpensanti di destra, agli estimatori del Barone, a coloro che si considerano i depositari della Tradizione espressa dall’autore di Rivolta contro il mondo moderno… un urlo unanime di scandalo di dolore di offesa con nostalgia del Tribunale dell’Inquisizione e annesso rogo in Campo di Fiori… Allora, dalle pagine di Publicondor, su cui mi esercitavo alla scrittura con la rubrica Briciole di cultura, risposi cercando il taglio della ragionata ironia. E mi azzardai a scrivere (convinto ieri come oggi) che Evola, se fosse stato interpellato dal ghiacciaio del Monte Rosa ove furono sparse le ceneri nel ’74, si sarebbe schierato ‘senza se e senza ma’ dalla parte della pornodiva. Metafisica del sesso docet… ed io aggiungo di quel linguaggio del corpo di cui vado e annoio i mortali lettori di queste mie pagine.
15 settembre 1994, Hòtel-Dieu di Lione, muore Moana Pozzi di carcinoma epatocellulare, tradotto in linguaggio più semplice e brutale per un tumore al fegato, all’età di trentatre anni, dove si era ritirata evitando oscene forme di pubblicità nella consapevolezza della morte annunciata (la stampa si eserciterà nelle illazioni le più stravaganti e contraddittorie come d’uso in simili circostanze). Publicondor pubblica il seguente epitaffio (io):
‘In ricordo di Moana Pozzi. Di fronte alla morte o gelido silenzio o vomitio di parole. Non v’è mediazione. Non può esservi essendo essa ciò che appartiene all’ordine naturale delle cose ed, al contempo, alla loro imprevedibilità. Nella società dell’immagine e del consumare subito e presto, la morte è bandita quando non è presente; la si sbandiera e ci si affanna sopra quando s’è resa l’ineluttabile. Il silenzio di Moana; il chiasso dei commentatori. Non v’è dubbio da che parte occorre schierarsi. Paradossalmente, per questioni di buon gusto. Perché Moana ha scelto, in vita, il muto linguaggio del corpo, con tutto il discutibile eccesso, ed ancor più muto s’è fatto all’evidenza del male ed allo scadenzario di una clessidra impietosa. Tutto ciò sa di coerenza e di dignità, ben più radicate e radicali di tante maschere di moralismo e perbenismo. Ecco perché la ricordiamo, la vogliamo ricordare, omettendo ipocriti incensi o reiterate demonizzazioni. Per non stare nel coro. Questo solo, sì: ha chiesto che le sue ceneri fossero sparse in mare o sul Cervino. Crediamo eco d’altre ceneri sparse sui ghiacciai del Monte Rosa: ‘Vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi mai morire’. Addio, Moana’.
Cosa rimane? La follia della mente, la disperazione del corpo. Passeggio sotto casa. Fra i sampietrini dei sottili fili d’erba spuntano qua e là, fra pietra e sasso. Se ne fregano dei pedoni e dell’inquinamento e delle automobili. ‘La vit
a vince sempre’: dico a Cristiano e alla sua fragilità di fronte all’esistenza…
a vince sempre’: dico a Cristiano e alla sua fragilità di fronte all’esistenza…
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