La vittoria di Trump ha intaccato l’egemonia detenuta dal politicamente corretto e dal pensiero unico. Infatti, a Kamala Harris, donna multiculturale, multirazziale, femminista cui si attribuivano moltissimi meriti soprattutto futuri, gli elettori e le elettrici USA hanno preferito un maschio bianco dai tanti difetti: Trump, accusato di essere un reazionario, un populista, un macho, un puttaniere, un evasore fiscale, un razzista, una spia russa, un fascista. Ma l’elettorato lo ha prescelto, e il conformismo “woke”, di cui Trump è un nemico dichiarato, è uscito sconfitto dal confronto.
Negli USA, il West selvaggio ha lasciato un rimpianto per lo sceriffo e per il giudice, i soli capaci d’imporre ordine e legalità. Trump, bersaglio di condanne, di impeachment e di tentativi di assassinio da parte di cittadini giustizieri, è passato dal ruolo del fuorilegge “Most Wanted” a quello di uno sceriffo alla “mezzogiorno di fuoco”, celebrato con brindisi, danze e “Hurray” nel “saloon” dopo la sua vittoria.
È stata una sorpresa questa vittoria, perché il “politically correct” è un dogma per la casta, per l’élite progressista, per i fabbricanti d’immagini e d’idee. Fateci caso: nella maggioranza dei film americani, in posizione di grande autorità troviamo sempre un nero; in genere fisicamente imponente e che parla poco e non è molto brillante, ma è pacato, giusto, umano. Mai e poi mai troveremo un nero nel ruolo del cattivo. Questo omaggio alle vittime del trascorso infame razzismo rende scontata la trama dei film, perché se il sospettato è un afroamericano noi sappiamo in anticipo che gli indizi che abbiamo a suo carico si riveleranno tutti falsi. Il colpevole, infatti, sarà immancabilmente un bianco.
In questa nuova distribuzione di ruoli, la donna è un combattente che picchia duro. Oggi a prenderle su scena è sempre l’uomo, per mano di una di queste campionesse di arti marziali idealmente rappresentate in politica da Kamala Harris. Che invece ha ricevuto da Trump un fracco di legnate…
Chi non ha gli occhi foderati di prosciutto nota che sullo schermo i dirigenti delle operazioni di polizia quando sono di pelle bianca sono in maggioranza di sesso femminile. E queste commissarie, inquirenti, ispettrici, magistrate per la loro bellezza potrebbero sfilare in passerella. Il regista invece ama mostrarcele nude mentre consumano uno dei loro frequenti amplessi, consacranti le nuove norme sociali in materia di apertura al diverso, anzi ai tanti diversi. Le questure e i commissariati che il cinema ci propone sono stracolmi di innamoramenti, passioni, corna, inciuci, baci e ammucchiate. Sarebbe difficile immaginare, oggi, in una di queste garçonnières un Maigret o un Nardone.
Hollywood è una fabbrica di ruoli etnici, con i personaggi italiani afflitti, tradizionalmente, dal marchio di Caino.
Ma dopo aver per anni incarnato un tipo umano da manuale d’antropologia criminale (vedi la serie “Sopranos”), l’italiano mafioso è raramente presente sullo schermo, eccetto che nelle retrospettive. Al Capone e i suoi eredi, dal sonoro nome italiano, sono stati surclassati nel vero mondo criminale da altri mafiosi. Tra questi – Saviano ce lo insegna – primeggiano i mafiosi ucraini e russi dotati spesso di cittadinanza israeliana. Ma da quando è avvenuta questa svolta del crimine, con cosa nostra soppiantata da kosher nostra, Hollywood non si interessa più tanto alla mafia. Cosa volete, il nome di Semion Yudkovich Mogilevich, temutissimo mafioso, non ha la potenza evocatrice del male che invece continuano ad avere nomi come Corleone, Capone, Luciano, Soprano.
Trump ha dato uno scossone al politicamente corretto. Ma speriamo soprattutto che interrompa l’interventismo armato senza fine americano.
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