Il 15 aprile, il nuovo movimento politico dei Fasci di Combattimento fa la sua prima uscita nazionale, destinata d impressionare l’opinione pubblica più della riunione del 23 marzo. Anche se nei mesi successivi le cose non andranno bene come previsto e sperato, è iniziata una marcia che sarà inarrestabile
- L’INCENDIO DELL’AVANTI
Stabilire tra la riunione di piazza san Sepolcro e l’incendio dell’Avanti un rapporto diretto di causa ed effetto, non è possibile e sarebbe errato. La lettura dei resoconti fatti dai principali protagonisti di questa prima clamorosa azione antisovversiva del dopoguerra, la ricostruzione che dell’episodio si può ricavare dalle cronache giornalistiche e poliziesche, la considerazione soprattutto dello stato d’animo dei controdimostranti riuniti in Galleria, tutto conferma la spontaneità dell’azione ed il suo sostanziale travalicare, almeno nelle conclusioni, le intenzioni degli stessi organizzatori del raduno antisocialista, Marinetti, Vecchi e Mario Chiesa.
La tesi della spontaneità dell’azione sarà da essi unanimemente sostenuta. Scriveranno Vecchi e Marinetti, nel manifesto stilato dopo il fatto, congiuntamente da futuristi, Arditi e Fasci di combattimento:
Nella giornata del 15 aprile avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna controdimostrazione, perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare il sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò spontanea per invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione premeditata degli imboscati… Col nostro intervento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia. Non provocheremo, ma se saremo provocati aggiungeremo qualche mese ai nostri quattro anni di guerra… Risponderemo senza Carabinieri, né questurini né pompieri, e senza il concorso delle truppe… (1)
Milano aveva già conosciuto, il 16 febbraio, una giornata di paura, allorchè un forte e combattivo corteo socialista, che era sembrato incontenibile nella sua potenza ed irruenza, aveva percorso le vie cittadine cantando canzoni sovversive, insultando e minacciando chiunque incontrasse per via.
Ecco perché distruggere la sede del potente giornale del (pre)potente Partito socialista è impresa che deve sembrare troppo azzardata e pericolosa anche ai più arditi fra quanti Arditi, futuristi e studenti si raccolgono in Galleria quel pomeriggio del 15 aprile.
Pomeriggio quasi festivo, per lo sciopero generale indetto dalla Camera del Lavoro cittadina, a seguito dei gravi incidenti occorsi il 13 sera, tra polizia e socialisti, a largo Garigliano, al termine di un comizio.
Alle 14,00 si tiene all’Arena la manifestazione di protesta, alla quale partecipano, secondo stime variabili, da dodicimila a cinquantamila persone. Al termine, un lungo corteo, infiammato dalla parole accese degli oratori, si dirige verso il centro, tradizionale punto di ritrovo, con i suoi caffè, della piccola e media borghesia, oltre che degli Ufficiali smobilitati in attesa di sistemazione.
La direzione presa dal corteo e il suo procedere minaccioso, sembrano avvalorare i timori di chi vede in questa “marcia” i prodromi di un’occupazione di uffici pubblici e, quindi, di una vera e propria insurrezione generale. E’ per questo che un buon numero di futuristi ed Arditi si ritrova in Galleria, in coincidenza con il raduno socialista, per ascoltare le parole di Vecchi, Marinetti ed altri oratori. Ad essi si unisce un gruppo di Ufficiali-studenti, guidati da Mario Chiesa e provenienti dal Politecnico. Essi, due giorni dopo, formeranno la squadra del Politecnico “pronti ad ogni cimento per la vita e per la morte”.
Per ora sono lì in piazza, con gli altri. In verità, se dobbiamo credere a Marinetti, stanno ad ascoltare “discorsi inutili rivolti alla facciata del Duomo, mentre tutte le facce erano rivolte all’imboccatura di piazza Mercanti e relativo cordone di Carabinieri e fanteria”.
Tra gli oratori più accesi, e la cosa è normalmente sottaciuta, per una sorta di posteriore censura, per motivi opposti, di fascisti e antifascisti, vi è Alceste De Ambris, il quale, come risulterà dal successivo rapporto di Polizia: “disdegnando ogni consiglio di prudenza, disse che, trattandosi di manifestazione patriottica, bisognava procedere in avanti, al grido di “Viva l’Italia”.
I convenuti, in effetti, sono lì non per il solito comizio, ma perché piuttosto vogliono testimoniare, con la loro presenza, la volontà di non cedere alla “bestia ritornante” il possesso quasi fisico di quelle strade, anche contro l’indifferenza e la paura dei borghesi e l’ostilità dei quartieri popolari, dove chi si avventura in divisa rischia spesso insulti ed aggressioni.
Quando, perciò, verso le 16,00, l’eco del canto di “Bandiera rossa” mischiata alle grida di “viva la rivoluzione” e “viva la Russia”, “a morte gli interventisti” arriva in piazza Duomo, per i giovani equivale ad una frustata in pieno viso. Le staffette inviate incontro al corteo annunciano che esso, travolgendo ogni resistenza della forza pubblica, si avvicina, con in testa le foto di Lenin e Malatesta.
Al suo apparire, le finestre si chiudono e i rari passanti svicolano timorosi. Appena i manifestanti arrivano in piazza, un randello sorvola il cordone di soldati e vola ai piedi di Marinetti. Basta allora un rapido cenno di intesa e tutti si mettono a correre. In testa a tutti Vecchi, Marinetti, Mazzuccato, Luigi Freddi, Chiesa, Mazza e Pinna.
All’altezza del bar Mercanti c’è il primo scontro, e l’immediata esplosione di qualche revolverata da ambedue le parti, che provoca tre giovanissimi (un sedicenne e due diciannovenni) morti, forse addirittura estranei ai fatti.
La responsabilità di aver acceso le polveri sarà stabilita dalle Autorità in maniera incontrovertibile, in una relazione nella quale, singolarmente non si parla ancora di dei pressochè sconosciuti “fascisti”, ma dei già noti “nazionalisti”:
…gli scioperanti, visto che avevano di fronte la massa dei nazionalisti lanciarono contro di essi i bastoni, che colpirono invece i Carabinieri, e da quel momento, dal lato opposto appunto di piazza Cordusio, e quindi da parte socialista, partì un colpo di pistola in direzione dei Carabinieri. Ciò valse a scatenare l’ira, appena frenata fino ad allora, e con l’intervallo di pochi secondi, evidentemente il tempo necessario per estrarre ed armare le rivoltelle, una selva di colpi partì dai nazionalisti e militari contro i socialisti che avevano iniziato il fuoco, e così continuò da entrambe le parti un rapido scambio di moltissimi colpi di arma da fuoco. (2)
La maggiore esperienza degli attaccanti, tra i quali molti sono i reduci di imprese arditesche del tempo di guerra, il loro superiore ardore, la spregiudicatezza dimostrata nell’attaccare in qualche centinaio una colonna di parecchie migliaia di dimostranti, che nella sua marcia verso il centro ha travolto come fuscelli i cordoni di truppa ed impaurito tranquilli e timidi bottegai, hanno presto ragione di ogni resistenza.
Allo scontro vero e proprio, che è brevissimo e dura solo qualche minuto, segue un lungo inseguimento della massa socialista, “dinamizzato” da mille piccole zuffe, lungo via Dante, fino a piazza Cairoli, di fronte al teatro Eden. Qui affluiscono altri Reparti militari, e, per la prima volta nel dopoguerra, vengono utilizzati, per disperdere la folla, gli idranti del genio Militare, con sei autopompe.
Gli inseguitori ne approfittano per fare una breve sosta, ricomporre il gruppo e prendere fiato. Poi, si tolgono la soddisfazione di assaporare la vittoria testè conseguita, con una sfilata a passo bersaglieresco per le vie del centro, via S. Margherita, via Manzoni, via Montenapoleone, largo S. Babila, sino a via S. Damiano, dov’è la sede dell’Avanti.
Sotto il giornale basta un cordone di soldati, disposto all’altezza del ponte sul Naviglio, a frenare l’impeto di questi primi squadristi. Con ogni probabilità, tutto si risolverebbe con una solenne fischiata, del tipo di quelle che sono toccate al Secolo ed al Corriere della Sera qualche settimana prima. Prova ne è il fatto che Marinetti, uno degli organizzatori della contromanifestazione, in prima fila all’inizio degli scontri, in una lettera a “L’Ardito” del 1° agosto del 1920, dirà di non essere stato presente all’incendio del giornale, che, evidentemente, non prevedeva.
E’, invece, il colpo di pistola, esploso dall’interno dell’edificio, che colpisce a morte un giovane militare di guardia allo stabile, Martino Speroni, a dare una svolta ai fatti.
A questo punto, il presidio di sorveglianza si dissolve. I militari hanno ben visto da dove si è sparato, e il fatto che un po’ sotto la spinta degli assalitori e un po’ spontaneamente si facciano da parte, sembra dimostrare inequivocabilmente che il colpo è partito dalla sede del giornale.
“Il Popolo d’Italia”, il giorno dopo accentuerà i toni di questa che, in fondo è stata solo una blanda forma di resistenza passiva, e nel suo sottotitolo scriverà: “I fascisti e l’Esercito assaltano l’Avanti”.
L’attacco al giornale, in verità, si realizza secondo lo stile arditesco, con grandi urla, fuoco alle porte, pugnali balenanti e pistolettate, senza che vi sia alcuna consistente reazione da parte dei socialisti provvidenzialmente e tempestivamente fuggiti da un ingresso opposto a via S. Damiano.
Arrampicandosi sulle basse inferriate del piano terra, un manipolo di assalitori raggiunge il primo piano e, dopo aver gettato nel Naviglio mobili, caratteri di stampa e altro materiale, dà fuoco ai macchinari, servendosi dei molti opuscoli di propaganda e delle foto di Lenin pronte per la spedizione.
In prima fila, ancora Ferruccio Vecchi e i suoi uomini:
Giunti davanti alla redazione designata, molte revolverate vennero sparate da dietro le persiane chiuse del primo piano. L’indignazione dei vendicatori non ebbe più freno: centinaia di rivoltelle furono estratte, centinaia di colpi risposero a quelli nemici: l’intonaco intorno alle finestre, investito dalle pallottole, cadeva spezzato, polverizzato. Poiché non fu possibile forzare la porta che dava sulla strada, un giovane si arrampicò, sospinto dagli incitamenti, fino alla finestra del balcone del primo piano e, mentre da dietro i regoli delle persiane partivano le revolverate e le maledizioni dei difensori , egli, a colpi tenaci di pugnale l’aprì! Un urlo di tripudio eruppe dai sottostanti: la battaglia era ormai vinta !S’arrampicò un secondo, un terzo, un quarto. Alcuni che vollero contemporaneamente dare la scalata al balcone, accavallandosi l’uno sull’altro, non ancora giuntici precipitarono a grappoli. Gli entrati dalla prima breccia, discese le scale, tolsero lo sbarramento di corde e travicelli al portone della strada: la gigantesca spalla della moltitudine lo sfondò, benché affidato ancora ad un grosso catenaccio. Il gigante infuriato si lanciò all’interno. Scansie, libri, ritratti, tavoli, annate del giornale e ogni altra sorte di materiale redazionale venivano calati dalle finestre superiori nella strada, e da questa gettati nel Naviglio, che le correva accanto… Un’immensa colonna di fumo, lingueggiante di fiamme e stellata di faville, salì nel cielo d’aprile.(3)
L’azione nel complesso dura circa mezz’ora e si conclude prima che possano arrivare altre forze di polizia. Segue un corteo che, ritmando: “l’Avanti non c’è più, l’Avanti non c’è più!”, va a deporre ai piedi del monumento a Vittorio Emanuele l’insegna divelta dal portone del giornale. Vecchi, al termine, manda un suo uomo al giornale, da Mussolini, con un biglietto che, anticipando il titolo de “L’Ardito” del 18 aprile, dice: “Dal balcone dell’Avanti sventola il vessillo nero!”.
L’eccitazione è grande. Lo stesso Vecchi è convinto di aver scritto, con la distruzione del giornale socialista, “il più bell’articolo” della sua vita, mentre tutti i partecipanti ancora non riescono a convincersi di essere riusciti in un’impresa fino ad allora ritenuta inosabile.
Una manifestazione di simpatia a Mussolini viene improvvisata da parte dei vincitori del confronto di piazza anche sotto la sede de “Il Popolo d’Italia”, e forse da questo nasce la diceria, presto diffusasi in città, di una direttore partecipazione del direttore del giornale, travestito da Ardito, all’assalto.
Alla sede del quotidiano ed a quella dell’Associazione Arditi viene organizzato, in serata, un rinforzo di guardia, nel timore di possibili rappresaglie che avrebbero nei due “covi” gli obiettivi più probabili.
Ma la legge del taglione non viene applicata, anche perché gli avversari socialisti sono molto impressionati da quel che è accaduto, e ne traggono le conseguenze del caso, almeno secondo l’opinione di Silvio Maurano:
Ebbero paura. Ci videro più grossi di quel che eravamo…Si può dire che le stragi degli anni successivi ebbero la loro origine nella battaglia di via Mercanti. Infatti, da allora i bolscevichi rinunciarono a scendere apertamente a battaglia in piazza, e si rifugiarono nell’imboscata. (4)
- SFIASCHEGGIAMENTI E ARRUOLAMENTI
Le settimane che seguono l’incendio del giornale socialista sono, per il movimento mussoliniano, dense di impegni più propriamente politici che proprio a Milano vedono il loro centro propulsore.
Fin dal loro sorgere, i fascisti si inseriscono nelle agitazioni contro il caroviveri, assumendo, in qualche zona, un ruolo particolarmente attivo nell’azione di protesta. Chiedono, in particolare, il calmieramento all’origine dei prodotti di grande consumo e di prima necessità, e lo svuotamento dei magazzini militari, dove le merci approvvigionate per le esigenze di guerra si vanno ora deteriorando.
Il Comitato centrale dei Fasci di Combattimento, riunito nel capoluogo lombardo, il 5 luglio proclama la sua “illimitata solidarietà con il popolo delle varie province d’Italia contro gli affamatori” e, nel contempo, plaude alle iniziative di requisizione popolare in atto qua e là, invitando i fascisti a fiancheggiare risolutamente le manifestazioni delle masse in rivolta.
De Ambris, lo stesso giorno, parla di “giustizia di popolo” e si spinge più in là: “…qualche incettatore penzolante dal lampione vicino al covo dei suoi misfatti, qualche trafugatore di alimenti schiacciato sotto delle patate o sotto i lardi nascosti per produrre il rialzo artificiale, servirebbero di esempio”.
Posizioni, come si vede, molto rigide nella difesa dei diritti della popolazione allo stremo, contro gli arricchimenti e le speculazioni del grosso capitale –ma anche dei piccoli profittatori- che dalla guerra, e oggi dal dopoguerra, ha tratto e cerca di trarre solo profitto. In particolare, trovano eco negli ambienti fascisti le rivendicazioni delle masse contadine, che hanno sostenuto il peso maggiore della guerra e che al fronte hanno costituito la “solida fanteria contadina”.
La situazione nel paese diventa ben presto incandescente. Decine di morti, centinaia di feriti e tanti arresti (500 a Genova, 1.000 a Firenze, 1.200 a Milano) che rivelano chiaramente il livello di contrapposizione e la violenza dello scontro.
Ovunque si devono lamentare saccheggi di alimentari, requisizioni di merci e imposizioni di calmieri “proletari”. Alle violenze, però, non di rado si abbandonano, confusi tra le masse di popolo, delinquenti comuni e borghesi “profittatori”.
La smania di svuotare i negozi, pagando a “prezzo politico”, contagia tutti. L’impunità per i più furbi e svelti sembra facilmente assicurata con un po’ di destrezza. Questa ansia di consumo,in pratica, rischia, però, di acuire la crisi. In poche ore viene dato fondo a scorte di materiali che, saggiamente amministrati, potrebbero durare per mesi. Particolarmente presi di mira sono anche i generi “di lusso” e voluttuari. Profumi, abbigliamento di pregio, liquori e vini. Gli alcolici scorrono a fiumi tra le masse eccitate. Le città, oltre che saccheggiate, sono anche “sfiascheggiate”, come si comincia a dire. Il disordine è tale che Nitti ammette pubblicamente di considerare “perse” ai fini dell’ordine pubblico, Torino città e la provincia di Bologna.
Diverso l’atteggiamento fascista nei confronti dello sciopero di protesta che, in segno di solidarietà con la Russia sovietica, viene indetto, in tutta Europa, per il 20 e il 21 luglio. Verrà definito “lo scioperissimo”, ma si tramuterà in effetti in un “fiaschissimo”, anche se, alla vigilia, la paura è tanta.
L’Avanti pubblica una minacciosa vignetta di Scalarini, con un operaio che indica ad un borghese una bara aperta, sulla quale è scritto: “20-21 luglio 1919”, mentre nei circoli politici si parla diffusamente di prova generale di inizio della rivoluzione rossa in Italia e forse in tutto il continente.
Il vertice milanese del movimento decide allora per la mobilitazione. Un deliberato del 17 luglio dispone che il Comitato Centrale sieda in permanenza a Milano, e prevede lo stato di allerta per tutti i fascisti, che si manifesterà con “risoluti atteggiamenti” da decidersi a seconda delle diverse circostanze e realtà locali. Succede così che, in un contesto nazionale abbastanza tranquillo, a Brescia i fascisti, guidati dallo studente diciottenne Alessandro Melchiori, provino a dare l’assalto alla Camera del Lavoro.
Nel capoluogo di regione, Michele Bianchi, in assenza di Mussolini, arriva ad assicurare al Prefetto la disponibilità dei fascisti per il mantenimento dell’ordine in casi di bisogno. La decisione è, però, sofferta e partorita non senza traumi dalla dirigenza cittadina, nonostante venga presa soprattutto in odio al carattere internazionalista e quindi antitaliano dello sciopero.
Marinetti e Vecchi sono contrari alla presa di posizione “per l’ordine”. Vecchi, in un primo tempo addirittura comunica al Segretario della Camera del Lavoro –che, prudentemente ne informa subito la Questura- la propria disponibilità ad offrire in aiuto alcuni Arditi “per la rivoluzione”. Ufficialmente l’Associazione Nazionale Arditi, riunitasi il 18 luglio, dirama un resoconto della riunione che, pubblicato dal Popolo d’Italia del 19, dice:
…Ferruccio Vecchi aprì la seduta esponendo agli intervenuti le caratteristiche del momento attuale e, riguardo al contegno degli Arditi in relazione al medesimo, annunciò che l’Ardito non deve essere lo sgherro della borghesia, ma deve essere il fautore di una rivoluzione di combattenti contro il regime attuale. Durante le giornate del 20 e 21, il contegno degli Arditi dovrà essere puramente difensivo, ed in ogni caso, questi non interverranno certo a difesa dei poliziotti, o a difesa dei pescecani, pure impedendo, però, qualsiasi sopraffazione leninista. (5)
Anche in questa occasione, come si vede, gli Arditi sono un passo avanti rispetto al resto del movimento. Già in aprile, sempre sul loro giornale, Carli si è opposto duramente alle voci governative di impiego in ordine pubblico delle “Fiamme”, con un articolo significativamente intitolato: “Arditi, non gendarmi !”. Rivolgendosi a Caviglia, che sembra essere l’ispiratore di un progetto di “normalizzazione” e scioglimento dei Reparti, rifiuta, per essi: “una vernice carabinieresca che spegnerà brutalmente o intorpidirà le loro fiamme divine”:
Voi che dite di conoscere ed amare gli Arditi (e conoscerci vuol dire precisamente amarci) ora infliggete loro la peggiore umiliazione, trasformandoli in poliziotti e sgherri governativi, credendo di interpretare una loro smaniosa aspirazione: quella di vedere ricostituiti i bei Battaglioni d’Assalto.
No, eccellenza, è troppo tardi ora.
Non bisognava scioglierli, quei Battaglioni (6)
Si sentono, gli Arditi, impegnati in una personalissima lotta contro i socialisti e i sovversivi di ogni risma. Desiderano combatterla a modo loro, senza interferenze di alcun tipo, anche se con metodi poco tradizionali ed “ortodossi”.
Proprio a Milano ne danno una prova, infiltrando due dei loro “audacissimi”, tra le file socialiste, con il compito di accostarsi ai più esagitati. La manovra riesce perfettamente. I due doppiogiochisti di notte, tra le tre e le quattro, riferiscono a Mazzuccato le notizie apprese e le informazioni ricevute che ritengono importanti, soprattutto in relazione ai movimenti di armi ed alla costituzione di squadre di attivisti. Ci pensano poi Vecchi e qualche altro ad impartire solenni “lezioncine” che tolgono ogni velleità rivoluzionaria ai più turbolenti rivoluzionari.
E’ essenziale che fuori dal confronto rimangano poliziotti e Carabinieri, con i quali, in particolare, i rapporti sono pessimi, fin dal tempo di guerra, per il loro rigido autoritarismo, l’obbedienza “cieca e assoluta” , il lealismo monarchico. Tutte cose che non possono andare d’accordo con la scanzonata indisciplina anarchicheggiante degli Arditi.
Su uno scenario dominato da queste storie “tutte italiane”, irrompe, però, la politica internazionale. L’intransigenza alleata non appare tollerabile a chi ha combattuto e si è sacrificato al fronte. “Se non vogliono darci Fiume con la ragionevolezza –questa la tesi dominante- ce la prenderemo con la forza”.
Anche alla sede del Fascio milanese cominciano, in forma semiclandestina e segreta, gli arruolamenti di chi vuole partire per la città adriatica.
NOTE
- Filippo Tommaso Marinetti, Futurismo e fascismo, Foligno 1924, pag. 169
- Documento della Prefettura di Milano, in data 24 aprile 1919 che riepiloga i fatti accaduti il 15, riportato in: Marco Rossi, “Non si può morire in aprile, Milano 2019, pag. 127
- Ferruccio Vecchi, La tragedia del mio ardire, Milano 1922, pag. 88
- Silvio Maurano, Quando eravamo sovversivi, Como 1939, pag 38
- In: Gino Svanoni, Mussolini e gli Arditi, Cusano Milanino (ristampa) 2012, pag. 73
- In: Mario Carli, Arditismo, Milano 2010, pag. 73
FOTO 3: IL 15 APRILE
FOTO 4: TUMULTI CONTRO IL CAROVIVERI