9 Ottobre 2024
Appunti di Storia Storia

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Torino 1919 (prima parte). A cura di Giacinto Reale

Il Fascio di Torino, fondato da Mario Gioda il 25 marzo del 1919, assume da subito caratteri “rivoluzionari” (volgarmente ed erroneamente detti “di sinistra”) sotto la guida dell’ex anarco-sindacalista, che prevale, in questa prima fase, sul monarchico-conservatore Cesare Maria De Vecchi. La vita, però, nella città delle masse operaie sindacalizzate, di Gramsci e de “L’Ordine Nuovo” non è facile per i mussoliniani.

 

  1. Il Fascio a Torino viene fondato, il 25 marzo del 1919, da Mario Gioda, che torna in città insieme ad Attilio Longoni, che poi sarà il primo Segretario del movimento fascista, reduci entrambi dalla riunione di piazza San Sepolcro. Egli, di modestissima famiglia, tipografo di professione, giornalista per vocazione, anarco-sindacalista per convinzione, ha seguito il suo amico Mussolini nella scelta interventista, fino a partire per il fronte, anche se non giovanissimo, e nonostante sia affetto da una grave forma leucemica. La sua storia militare, tra il  1916 e il 1918 è forse unica. Arruolato, riformato e riarruolato – a richiesta – per tre volte, a causa delle cagionevoli condizioni di salute, tornerà definitivamente a casa solo a dicembre del 1918.

    Mario Gioda

Collaboratore del Popolo d’Italia, molto stimato dal direttore per le sue capacità, sarà – contro la sua volontà e solo per le pressioni di Mussolini – eletto al Parlamento nel 1924, pochi mesi prima della prematura morte. Poeta dialettale dilettante, non gli manca, nei versi, una sottile vena ironica. Molto più severo è, invece, il suo atteggiamento in politica:

Non fu neppure l’uomo delle transazioni. Non transigeva né con sé né con gli altri. Non ebbe mai ombra di superbia e visse nella più modesta semplicità e amò, fra le varie qualità che possono ornare una persona, l’espansione. La freddezza lo annientava, l’espansione, il calore, gli schiudevano l’anima al bene, alla gioia, come quando è primavera e s’apre la finestra per respirare un pò d’aria profumata. Se non fosse stato cagionevole di salute, malgrado la vita dura che gli aveva dettato la maggior parte delle sue poesie, sarebbe stato gioviale, specialmente nelle sue riunioni con gli amici… (1)

Non è un granché di oratore, e ne è consapevole, al punto di scrivere nel suo Diario, in un eccesso di autocritica: “Sono un parlatore sciagurato. Non riesco a metter quattro parole insieme”, ma con la penna in mano non teme rivali, ed ha le idee chiare. Appena smobilitato, cerca un contatto con i vecchi Partiti e movimenti della sinistra interventista, ma resta deluso, perché trova un fronte in disfacimento totale. Non fa per lui, che sarà definito “tranquillo fanatico” per la determinazione che mette nelle difesa delle sue posizioni.

E’ un avversario pericoloso, quindi, aldilà della sua cagionevole salute. Forse per questo, da nessuno è stata ripresa mai la notizia – che non fa onore ai protagonisti – fornita, nelle sue memorie postume, da Battista Santhià, all’epoca giovane guardia rossa schierata a difesa dei redattori e della sede de “L’Ordine Nuovo”:

Un bel giorno due di loro (allude agli uomini della vigilanza alla sede del giornale ndr) presero Mario Gioda, il segretario della Federazione fascista, e gli fecero bere una buona razione di olio di ricino, la stessa che somministravano gli squadristi: “Siamo persone pulite e ti abbiamo dato l’olio vicino a casa tua; ora vattene e se uno di noi avrà delle noie, preparati, perché andrai a scontare i tuoi peccati…”. (2)

Tutto di là da venire la sera del 28 marzo, quando, alla presenza di rappresentanti inviati da Milano, si tiene la vera riunione fondativa del movimento mussoliniano in città. Tra gli ospiti milanesi fa spicco la partecipazione di Ferruccio Vecchi, il popolarissimo ex Ufficiale degli Arditi, che in questo periodo sta girando per tutta l’Italia a costituire Sezioni Ardite e Fasci di Combattimento, spesso con gli stessi aderenti, a conferma degli stretti legami tra i due gruppi.

Alla fine della riunione viene approvato un documento in quattro punti che ambiziosamente si propone di:

  1. Neutralizzare i disastrosi effetti della propaganda leninista;
  2. Strappare le masse lavoratrici ai falsi pastori;
  3. Incitare il paese a produrre e a ricostruire la ricchezza nazionale;
  4. Scendere in campo contro tutti gli uomini e tutti i Partiti che non hanno voluto la guerra

A Gioda si accompagnano, da subito, alcuni ex compagni della battaglia interventista ed un gruppo di Arditi, del 27° Reparto d’Assalto e Reggimentali della Brigata Sassari. Li organizza e guida il Tenente Silvio Maurano, futuro giornalista e scrittore, che, arrivato in città il 20 marzo, dopo un fallimentare approccio al Partito Repubblicano, si è trovato subito in sintonia con l’ex anarco-sindacalista. Egli ha il suo bel daffare per tenere a bada quel gruppo di scalmanati con le fiamme al bavero della giubba:

Gioda era felice: ci ospitava la Pro-Torino, il cui Presidente, Conte Barbavara, era un patriota all’antica, ed aveva messo a nostra disposizione una ala ed uno stambugio. Gioda, dopo due giorni, si ritirò nello stambugio.

“La stanza grande è meglio che ve la teniate voi – disse perché gli Arditi fanno sempre baruffa…”

Lui si ritirò nello stanzino, che era una specie di corridoio, con i suoi primi registri, ed il materiale di corrispondente de “Il Popolo d’Italia”. (3)

 

i primi componenti la Sezione Arditi torinese: di profilo, in primo piano, Mario Gioda

Ben presto gli Arditi troveranno una sede loro, ma non mancheranno, in ogni occasione, di confermare i vecchi vincoli, e anzi decideranno, ufficializzando la loro posizione, di: “mettersi a disposizione del Fascio di Combattimento e di agire di conserva con questo quando ne sarà il caso”.

Per ora, sono tutti insieme, nelle due stanze in Arcivescovado 1 bis, nel centro della città. A poche centinaia di metri, nella stessa via, vi è la redazione torinese dell’Avanti, destinata a  diventare quella de “L’Ordine Nuovo”. Non appare fuor di luogo ipotizzare qualche “incontro” non amichevole per strada, così che i comunisti saranno ben presto costretti a pensare ad apprestamenti difensivi:

La difesa de “L’Ordine Nuovo” dalla teppaglia fascista si rese necessaria non appena si costituirono le prime squadracce. Un gruppo di compagni coraggiosi presidiava lo stabile; un altro scortava il camioncino adibito al trasporto dei giornali alla stazione.

[…]

La sede era vigilata ogni notte da una ventina di compagni, quasi tutti operai delle fabbriche, e qualche studente. L’edificio si prestava alla difesa, grazie ai corridoi strettissimi, alle camerette anguste, ai muri spessi oltre un metro. Dall’ingresso, sito in via dell’Arcivescovado, ai locali della redazione, il terreno era facilmente difendibile, e i compagni, in caso di bisogno, avrebbero dimostrato che i cavalli di frisia non costituivano un semplice ornamento. (4)

Quasi da subito, a questi primi fascisti si uniscono alcuni goliardi della locale Università e anche studenti delle scuole superiori, entusiasti e scapestrati come vuole la loro età.

In città il clima, per chi non intende rinnegare le ragioni della guerra e guarda a nuove forme di giustizia sociale, non è facile. In quello che è il primo centro industriale del paese, con duecentomila lavoratori su seicentomila abitanti, la capacità di presa della propaganda sovversiva è forte, tanto da superare anche ogni possibile collegamento –che pur sussiste negli ambienti intellettuali e borghesi – con la tradizione risorgimentale della città che volle e fece l’Unità d’Italia.

Le Forze dell’Ordine sono praticamente impotenti, oltre che mal guidate, e gli scioperi si susseguono agli scioperi, per le strade attraversate periodicamente da cortei incolonnati dietro le bandiere rosse.

Contro la massa sovversiva, si ergerà una minoranza coraggiosa. A fare da sfondo il resto – maggioritario – della popolazione impaurita e incapace di agire:

Non è chi non conosca o non ricordi, per gli episodi che affiorarono nelle cronache del tempo, le condizioni politiche di Torino dal 1919 a dopo la Marcia su Roma: da una parte un nucleo saldo, temprato, deciso ma non molto numeroso di fascisti, in gran parte Arditi di guerra o combattenti; dall’altro la massa bruta, la plebe incanaglita dalle mille braccia agitanti bandiere rosse, dalle mille bocche sputanti fiele e veleno e sozzure sulla Patria uscita barcollante, ma vittoriosa, da una grande prova che l’aveva rivelata a se stessa.

Fra i due gruppi, numericamente non confrontabili, l’enorme maggioranza della cittadinanza, disorientata, spaurita, in gran parte agnostica. (5)

In una situazione di impazzimento generale, lo sciopero degli alunni delle elementari e quello delle sartine faranno quasi più rumore di quello degli operai dell’industria (con connesse violenze ai danni di chi non intende aderire) o dei contadini, che lasciano il raccolto a marcire nei campi e le bestie a morire di fame nelle stalle.

Particolare allarme susciteranno poi due agitazioni sovversive, l’una per le modalità, e l’altra per le motivazioni, con contorno di violenze e disagi per la popolazione, in entrambi i casi.

Nella vicina Biella, dal 1° al 20 giugno, lo sciopero degli operai lanieri sfocia in vere e proprie manifestazioni insurrezionali, con barricate, attacchi ai camion di truppa, tentativi di incendio delle fabbriche, e ciò appare pericolosa avvisaglia di ciò che sarà in tutto il Paese.

Nell’intera regione, e a Torino con maggiore virulenza, per la presenza di grandi masse operaie della quale si è detto, si svolge, qualche settimana dopo, imponente, lo sciopero internazionale (o “scioperissimo”, come verrà chiamato) del 20 e 21 luglio, proclamato contemporaneamente in tutta Europa, in segno di protesta per l’intervento di truppe dell’Intesa in Russia ed in Ungheria, e ciò sembra essere la “grande prova” con la quale il movimento operaio realizza l’unità che non aveva trovato nel 1914.

Sarà sempre l’occasione di uno sciopero a fare, il 3 dicembre del 1919, la prima vittima di parte “nazionale”. Uno studente, il diciannovenne Pierino Delpiano, caporale in guerra, che, al momento del congedo, ha ripreso gli studi presso l’Istituto Sommeiller.

All’interno della scuola si rifugia un Ufficiale, per sfuggire alla folla degli scioperanti inferociti per il solo fatto di averlo visto in uniforme. Egli trova la solidarietà degli studenti, che, a sua difesa, prima barricano il portone di ingresso, e poi, dal momento che, però, i dimostranti non si allontanano, si decidono ad uscire, in minuscolo gruppo, per tentare di ricondurre tutti alla ragionevolezza.

Tentativo encomiabile quanto inutile. I ragazzi vengono circondati, insolentiti e costretti alla fuga. Solo Delpiano resta ad affrontare la massa, che gli intima, se vuole salva la vita, di gridare “Abbasso l’Italia!”.

E’ troppo per un giovane che ha conosciuto il sacrificio della trincea e ha fatto il suo dovere (ha subito anche un principio di congelamento sul Monte Grappa) in nome dell’Italia. Lui non solo si rifiuta, ma fieramente urla in faccia ai suoi aggressori che sempre e solo avrebbe gridato: “Viva l’Italia!”.

Non fa in tempo ad aggiungere altro. Uno dei manifestanti lo fredda con un colpo di pistola alla testa.

A Delpiano, che sarebbe una forzatura definire “fascista”, verrà concessa, durante il Regime, la medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:

Il Duce, udito il parere favorevole della Reale Commissione per le ricompense al valor civile, ha conferito la medaglia d’oro alla memoria di Pierino Delpiano, primo Caduto della Rivoluzione, simbolo eroico di tutta la giovinezza che si immolò perché la Patria vivesse.

Sulla porta della scuola, gridando “Viva l’Italia!” in faccia ai rinnegati, Egli additò ai giovani quali sono le vie del sacrificio per la Patria. (6)

 

Triste epilogo, quasi alla fine dell’anno, di una situazione che non accenna a migliorare per i pochi fascisti, che pure sono tipi coriacei e non disposti a mollare.

A Gioda si affiancano presto due personaggi capaci di tenere la piazza, anche in situazione di inferiorità numerica, forti di un passato combattentistico che parla per loro.

E’ il caso di Piero Brandimarte, Capitano dei Bersaglieri decorato con medaglia d’argento, esuberante nel fisico e sportivo di razza, tale da essersi classificato primo ai tornei di lotta delle Forze Armate. Sarà lui a costituire, a fine anno, la prima vera squadra d’azione torinese, “La Disperata”, che seguirà – destinata a durare – la precedente effimera esperienza di una squadra “L’Ardita”, composta da appartenenti alle Fiamme.

La sua “carta di presentazione” è in questo aneddoto, che presto fa il giro di tutta la città:

Una mattina di novembre… L’American Bar è pieno di folla, e tra questa, emerge un Ufficiale dei Bersaglieri in divisa, alto, solido, quadrato.

L’Ufficiale sta bevendo il caffè, in piedi davanti al banco. E’ solo. E, d’improvviso, ode in lontananza echeggiare le note di una fanfara. Sentir queste note e lasciare la tazza sul bancone e farsi sulla porta fu affare di un attimo. Il Bersagliere si affaccia sulla via, guarda a sinistra, guarda a destra: ma non vede nulla che possa dargli sospetto… E’ una musica che in questi mesi piace a parecchia gente. E’ “Bandiera rossa”.

L’Ufficiale dei Bersaglieri, che è del 4° Reggimento, e che si chiama Brandimarte, è il comandante in seconda de “La Disperata”. Si capisce benissimo il perché questa “Bandiera rossa” non sia di suo genio.

L’Ufficiale rientra nel bar e riprende la sua tazzina di caffè. Ma, giusto in questo momento davanti al bar passa a tutta velocità un carrozzone tranviario col rimorchio pieno zeppo di musicanti. La fanfara è in tranvai e suona a pieni polmoni l’inno sovvertitore…

Il carrozzone fila verso piazza San Carlo, ma l’Ufficiale è campione di fondo, e in questa gara di corsa avrà la meglio. Brandimarte insegue il tranvai, e all’imbocco della piazza raggiunge il rimorchio e vi salta su. I musicanti suonano con tutto slancio, passando tra la gente un po’ curiosa e un po’ intimidita, ma l’era annunciata con tanto fiato e tanta buona volontà è interrotta dal diavolo.

Mentre il tranvai va, ecco l’Ufficiale dei Bersaglieri iniziare il suo lavoro, con velocità e precisione, e senza nemmeno spendere una parola. Sui musicanti attoniti piove d’improvviso una tempesta di pugni durissimi. Di destro e sinistro. L’Ufficiale spedisce, appunto a sinistra e a destra, i suoi biglietti da visita, che mutano i connotati ai più duramente colpiti.

L’Ufficiale zompa come un grillo tra i sedili, e il suo lavoro di braccia è di una persuasione particolare. I musicanti sono sgomenti per questo assalto fulminante. Sono in trenta, ma davanti a quella furia scatenata cade in essi ogni istinto di iniziativa. Poiché infine Brandimarte ha strappato a un rosso una cornetta e con questa mena colpi da orbo su pifferi e tromboni e tamburi. I vetri della vettura vanno in frantumi. Strumenti nasi e teste sono acciaccati. La folla si sbanda intimidita a quel gran fracasso: s’aspetta, da un istante all’altro, qualche colpo di rivoltella. Ma gli assaliti decidono di arrendersi armi e bagagli e poiché l’assaltatore è un Bersagliere, ciascuno di essi ha, nel medesimo atto, il medesimo pensiero: se “Bandiera rossa” ha la virtù di scatenare questo diavolo, gli sia offerta istantaneamente l’unica musica che abbia la virtù di ammansirlo.

E, d’improvviso, tutti gli ottoni intonano la marcia gaia e veloce che batte il tempo alla corsa dei Bersaglieri. (7)

La definizione di “uomo d’armi”, che si può accettare per Brandimarte, va decisamente stretta a Cesare Maria De Vecchi, futuro protagonista dell’avventura fascista delle origini e della vita politica nazionale per tutto il ventennio successivo.

Due lauree, avvocato, è pittore e poeta dilettante, oltre che esponente di spicco della cittadina “Società promotrice di Belle Arti”. Capitano in guerra, prima nei Bombardieri e poi negli Arditi, si è meritato tre medaglie d’argento e due di bronzo.

Nel marasma del dopoguerra è anch’egli, insieme a tanti altri ex combattenti, uno di quelli che non prova vergogna e non si pente per ciò che ha fatto al fronte, ed è pronto a battersi contro gli infangatori e i rinnegatori.

E’ questa intenzione alla base della sua – sofferta – adesione al movimento fascista.   Monarchico convinto e intimamente di sentimenti conservatori, si sente “costretto” ad una vicinanza con ex anarchici e socialisti, ai quali cercherà in tutti i modi di rendere la vita difficile, nell’ambito del Fascio.

Sui dubbi di natura politica, fa però premio la sua natura impetuosa e portata all’azione. Rivelatore è il modo nel quale racconterà, anni dopo, un episodio di quei giorni lontani. Episodio che, per una singolare analogia, si svolge anch’esso, come quello di Brandimarte, su una vettura tranviaria:

Uscii da solo dal mio ufficio, e, con grande meraviglia, nonostante lo sciopero in atto, sentii squillare le campanelle del tram. Una lunga fila di vetture veniva avanti dalle rimesse, non già per servizio, ma a scopo, diciamo così, pubblicitario. Sulle fiancate, infatti, recavano grandi scritte a calce, che dicevano. “Morte al Re! Morte ai preti! Morte al Papa! Morte alla borghesia! Morte ai combattenti!”

Nessuna scritta riguardava il fascismo e i fascisti che, del resto, quasi non esistevano e nessuno prendeva in considerazione. Saltai sulla vettura di testa, con la scritta “Morte al Re!” e indussi il manovratore a fermarsi. Questi tentò di reagire staccando la manovella, e agitandola in aria, ma non gli diedi il tempo di colpirmi. Tenevo l’uomo per i risvolti della giacca e sentivo che le sue forze si ammorbidivano, fino a sparire del tutto. Lo costrinsi a scendere e gli ordinai di cancellare la scritta.

“Con che cosa la pulisco?” mi domandò, pallido di paura.

“Con la lingua!” gridai. (8)

 

-segue-

 

NOTE

  1. Giovanni Croce, La vita di Mario Gioda, Torino 1938, pag. 60
  2. Battista Santhià, con Gramsci a “L’Ordine Nuovo”, Roma 1956, pag. 178
  3. Silvio Maurano, Quando eravamo sovversivi, Como 1939, pag. 30
  4. Battista Santhià, cit., pag. 175
  5. Dante Maria Tuninetti, Squadrismo squadristi piemontesi, Roma 1942, pag. 121
  6. PNF, Fascio di Combattimento di Biella, Gruppo Rionale “Pierino Delpiano”, Commemorazione detta dal Camerata Walter Bragagnolo in Biella il 3 dicembre 1933, Biella 1935, pag. 20
  7. Guerrando Bianchi di Vigny, Storia del fascismo torinese, Torino 1939, pag. 430
  8. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo, Milano 1983, pag. 29

 

 

 

 

 

Foto 1: Mario Gioda

Foto 2: i primi componenti la Sezione Arditi torinese: di profilo, in primo piano, Mario Gioda

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