Con le feste di Natale e di fine d’anno per molti espatriati subentra il tempo delle analisi sul passato e sul destino che deviò il corso della loro esistenza. E in taluni di noi il misterioso rapporto con il Paese d’origine si fa addirittura imperioso.
In un’Italia in cui molti ancora oggi si vantano di essere stati comunisti, pochi osano ricordare che il Natale fu abolito nella Jugoslavia di Tito; di cui erano entrate a far parte (1947) come bottino di guerra le terre italiane dell’Istria, di Fiume e di Zara. Se oso toccare questo tasto doloroso è perché io sono originario dell’Istria. L’abolizione del Natale colpì pertanto la terra mia di nascita; dove io ero stato battezzato…
In “Preti perseguitati in Istria, 1945-1956” (Trieste: Luglio editore, 2017)” lo studioso P. Zovatto descrive i lutti e le repressioni che la Chiesa dovette subire in Istria nel periodo che va dal 1945 al 1956. Il comunismo jugoslavo, con il suo catechismo e i suoi dogmi miranti a combattere chiunque fosse restio a essere asservito alla sua ideologia e che veniva qualificato spregiativamente come “nemico del popolo”, “borghese”, “reazionario”, “capitalistaa”, “servo dei capitalisti”, “fascista”, etc., perseguitò i sacerdoti dell’Istria non solo durante la guerra ma anche a conflitto finito.
La Chiesa fu considerata un pericoloso ostacolo dal regime titoista, il quale mirava a far tabula rasa delle istituzioni precedenti. Furono così confiscate le proprietà della Chiesa, l’educazione dei giovani fu ad essa sottratta, nel camposanto al posto delle croci apparvero le stelle rosse, si tolse il crocefisso nelle scuole, si abolì l’insegnamento della religione. “Agli impiegati statali era proibita la professione pubblica della religione (andare a messa, far battezzare o cresimare i figli), pena l’espulsione immediata dal lavoro”. Ben presto si eliminò “il giorno di Natale come giorno festivo” (fu rispristinato nel 1990).
A richiedere questa persecuzione antireligiosa era anche l’implacabile programma di slavizzazione delle terre acquisite. Il deliberato intento era di attuare una svolta epocale nell’Istria attraverso la dissoluzione della sua storica tradizione italiana-venetizzante-cattolica da sostituire con una costruzione slava socialista radicale.
La costituzione jugoslava del 1946 stabiliva all’art. 25 la separazione tra Stato e Chiesa. Riconosceva pertanto la “libertà di culto”. Solo teoricamente perché nei fatti il sistema titoista combatteva la religione considerata “un fanatismo” con l’assurdo “mito di Cristo”, e cercava di ostacolare le manifestazioni di religiosità popolare come la benedizione dei campi, e osteggiava il battesimo in un “processo di laicizzazione massiccio e brutale” che si appaiava “alla snazionalizzazione della etnia italiana dell’Istria.” Nell’odio anticlericale jugoslavo confluivano diversi veleni: il fanatismo politico del socialcomunismo ateo; e l’antitalianità, poiché la Chiesa in Istria era espressione della realtà storica e umana sostanzialmente latino-veneta di quei luoghi o di gran parte di essi. I preti, anche perché sottoposti alle gerarchie ecclesiastiche italiane, erano visti come inaccettabili portatori d’italianità. E l’italianità, in Jugoslavia, era sinonimo di fascismo.
Un’equiparazione che paradossalmente ancora oggi molti fanno in Italia, a fascismo morto e sepolto da più di tre quarti di secolo. Io preferisco invece ricordare che la minacciosa eco del grido “Morte al fascismo, libertà ai popoli!” si spegnerà quando i popoli della Federazione, dopo una straordinaria abbuffata di retorica di fratellanza durata decenni, si sentiranno liberi di saltarsi alla gola. Ciò avvenne, beninteso, solo dopo il crollo del Muro con la disintegrazione delle menzogne che il socialismo reale aveva cementato nel Muro e nella cortina di ferro, convinto di poter sfidare i secoli.
Claudio Antonelli
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