“Io non ti perderò, anche se muoio”
(Tennyson)
Capire o amare?
«Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere». Secondo Spinoza, i fatti umani non devono suscitare né il nostro umorismo, né le nostre lacrime, né il nostro disprezzo. Dobbiamo semplicemente capirli. Strumento di conoscenza del reale è la ragione, non il sentimento. Ma evidentemente, per piangere o ridere di qualcosa occorre averne una certa, immediata comprensione. Credo tuttavia che Spinoza la giudicherebbe una intellezione inaffidabile e incerta, perché non fondata su deduzioni razionali.
Il filosofo olandese non vedrebbe nel pianto alcun nesso con la verità oggettiva, ma una semplice reazione della nostra sensibilità affettiva, fatto privato, soggettivo, che non può certo fornire un giudizio analitico sulla realtà. Ma di fatto le lacrime nascono da lunghe analisi di carattere intuitivo e ne esprimono simbolicamente la sintesi, a conclusione di una lunga serie di sillogismi le cui premesse rimangono implicite, sottintese. Per comprenderne il valore filosofico dovremmo quindi percorrerne a ritroso la genesi, risalire alla loro causa. E potremmo forse sorprenderci di trovare in esse una spiegazione della vita più profonda di tante dimostrazioni more geometrico.
Si esagera spesso l’importanza di fattori logici e intellettuali nella ricerca della verità, e a ciò corrisponde una sottovalutazione del sentimento come strumento conoscitivo. Le passioni sarebbero per alcuni un ostacolo alla chiara intelligenza delle cose, una debolezza da estirpare e cui opporre l’apatia dello stoico, algido custode del logos, che messo a cuocere dentro il toro di Falaride conserva (teoricamente) la sua rigorosa impassibilità.
La nostra filosofia avalla l’idea che a) scopo della vita sia la ricerca e la dimostrazione della verità, b) che tale indagine possa essere condotta solo dalla ragione e c) che il sentimento sia irrazionale. I nostri affetti ci svierebbero perciò dal fine ultimo della nostra esistenza, ossia dalla sua scientifica delucidazione. Ma possiamo dubitare di premesse che ci conducono a una convinzione tanto priva di calore umano, e credere che scopo della vita sia, più che un’astratta comprensione, l’amore, e che in questa ricerca il sentimento sia guida migliore della ragione. Del resto, a questa conclusione sembra inclinarci la nostra stessa esperienza.
Mortalia
Più umano di Spinoza e degli stoici è Virigilio: «sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt». Verso stupendo, variamente tradotto e forse propriamente intraducibile, in cui risuona il pianto delle cose mortali, il doloroso struggimento che l’idea della morte produce in noi. Questo ferisce l’animo umano, l’esser legato a cose periture. Ma con ciò non abbiamo ancora toccato il fondo della questione. Non proveremmo infatti alcun doloroso turbamento se non amassimo con profonda intensità ciò che inevitabilmente deve morire.
Così Achille piange la morte di Patroclo, Priamo piange quando il Pelide gli consegna il cadavere di Ettore e Ulisse piange quando Demodoco, cantandone le gesta, gli riconsegna il passato – “e Odisseo si commosse e le lacrime gli bagnavano le guance”. Gli eroi omerici piangono senza pudore la finitezza di ciò che amano, e noi sentiamo in questo pianto virile non una debolezza ma una grandezza umana. Il pianto ha ragione persino degli Dei, se il divino Apollo piange l’amico Giacinto.
E il Verbo, facendosi carne umana, ne assume la connaturata melanconia, così che Gesù piange la morte di Lazzaro. Nelle sue Confessioni anche Agostino narra l’indicibile pena di chi perde l’amico. “Da questo dolore il mio cuore fu ricoperto di tenebra, e tutto ciò che vedevo era morte”, tutto “senza di lui si era mutato in una sofferenza lacerante”. E non lo soccorre la ragione, pure in lui magnifica, né un Dio razionale, fantasma chiuso nel vestibolo della mente, assai meno reale dell’amico perduto. “Solo il pianto mi era dolce”, confessa Agostino, confermando l’ovidiano est quaedam flere voluptas, l’indicibile voluttà delle lacrime, l’estasi dolce e tormentosa dei ricordi.
Non possiamo sottrarci all’angoscia della fine con una comoda meditatio mortis o con un memento mori paradossale, dato che non possiamo ricordarci del futuro. Quando tentiamo queste facili vie il senso della morte tende a svaporare in un banale sillogismo: tutto ciò che è umano è mortale, ciò che amo è umano ecc. Ma voler superare il sensus finis filosofeggiando sulla caducità della vita è come fissare una tela nera sperando che ciò guarisca dalla paura del buio.
L’abisso
Mi pare del resto insensato voler trascendere stoicamente il dolore della finitezza, medicalizzare il pianto delle cose mortali con considerazioni intellettuali. Il limite che la natura pone ai nostri legami terreni è infatti pedagogico, è atto che approfondisce il senso reale dell’amore. Dalla ferita della perdita entra una luce che rischiara la nostra fiducia originaria in un al di là. Questa fede nell’oltre ha natura di consolazione, ma non è, non sempre almeno, mero palliativo psichico, soluzione medicamentosa. È piuttosto l’emergere di una verità, sapere latente che dorme in noi e che il dolore del distacco risveglia.
(Bisognerà qui notare, per inciso, come al pregiudizio della ‘oggettività scientifica’ si aggiunga oggi quello di una certa psicologia per cui si crede che ciò che consola debba essere falso. La verità, pare, ci si può presentare solo sub specie doloris, come tormentata presa di coscienza della realtà. Benché questo possa essere vero in molti casi, se preso come criterio generale è una sciocchezza. Dovremmo allora coerentemente rifiutare ogni aspetto consolante dell’arte, della religione, della morale, delle relazioni umane, in quanto fonte di illusione.)
Nel suo distoglierci dalla banalità del vissuto, la morte è madre della nostra metafisica. L’angoscia senza fondo ci porta nell’abisso e ce lo rivela, consuma il nostro puerile razionalismo in una tragicità illuminante. È la vertigine dolorosa che stringe il cuore al ricordo di qualcosa che non può tornare. «Il fiume che io amo è un fiume infinito» diceva Emerson. Ma questo fiume, in cui siamo immersi, è irreversibile. Non possiamo fermarne la corrente né invertirne il corso, tornare a cercare l’amico scomparso tra i flutti, inghiottito da qualche vortice misterioso. Non c’è dio, non c’è preghiera che possa questo miracolo. Allora ci prende quella disperazione che, come dice Kierkegaard, “è la malattia di cui si può dire che è sventura suprema non averla avuta mai, fortuna divina l’esserne presi”.
Chi non conosce questa crudele iniziazione? Forse i fanciulli, chi non ha ancora provato il cauterio di una definitiva separazione, chi non ha mai veramente amato. Ignari, esclusi dalla celebrazione del mistero. Il loro sguardo non s’è mai posato sul baratro del nulla. E questo lascia nell’uomo un’inconfondibile immaturità. A nessuno è lecito parlare dell’amore finché il cuore non porta le cicatrici della morte, i suoi sigilli.
La morte nutre l’amore
Scrive Guglielmo di Saint-Thierry:
«Alla scuola del fiero amore
Si apprende l’ira sublime
Che di colpo rende l’uomo sensato
Errante e vagabondo.»
Questa fierezza dell’amore nasce dalla sua conoscenza della morte. E all’insopportabile fatuità delle teorie possiamo opporre solo l’ira sublime che ci separa dalle pseudologie del mondo, affidarci a quel senso profondo e incomunicabile di un amore che ci rende solitari e vagabondi.
Non sappiamo che farcene di un galateo della morte, dei luoghi comuni, della retorica, dell’ottimismo e dell’oblio, così essenziali a un economico ‘andare avanti’. Non ci servono esperti che ci aiutino a ‘elaborare il lutto’, preti che ne correggano il sapore amaro con dolciastre omelie. Bisogna guardarsi dalle buone intenzioni di quei meccanismi psichici e sociali che cercano di esorcizzare la morte e di evacuarne il senso, di imporci una normativa morale il cui unico scopo è proteggere un ordine illusorio.
Questo diluire la morte nella futilità dei riti e delle consuetudini sociali, negli stereotipi sentimentali, ce la rende incomprensibile. “Più potente della morte è l’amore”, dice la Bibbia. Ma in realtà è la morte che impedisce all’amore di morire, che lo rende immortale. Col privarlo dei suoi attributi finiti, caduchi, gli conferisce un’aura di eternità, gli sussurra: “per sempre”.
L’Amico come universalità
La morte mette a nudo la struttura mistica del legame con l’Amico (termine con cui intendo l’oggetto di una pura profonda passione affettiva, senza curarmi se sia figlio, madre, amante, cane ecc.). Questo carattere spirituale non è prodotto artificiale del ricordo, tentativo di surrogare psichicamente una fisicità interrotta, ma affiora per il ritrarsi naturale dei caratteri sensibili della relazione. È ‘sublimazione’ in senso chimico, passaggio da uno stato solido a uno aeriforme.
Il pianto stesso esprime un prosciugamento di elementi fisiologici, da cui emerge una sedimentazione o cristallizzazione di significati preternaturali. Il dolore della perdita è simile alla percezione di un ‘arto fantasma’, ossia di una parte amputata che pure resta misteriosamente reale. Perciò la morte partorisce in noi una dimensione metafisica. Ma non è un parto immaginario, ché non potremmo concepire questo fondo incorporeo, ideale, se non fossimo già interiormente predisposti ad accogliere il senso di una trascendenza.
Questo nuovo status dell’amore, determinato dal distacco, trascende la relazione tra due esseri – in sé sempre limitata – e si trasforma nell’archetipo di una forza inesauribile e immutabile, di un quid numinoso che si confonde con la vita stessa.
«Tu sei nel vento che passa;
Ti odo dove scorrono le acque;
Tu sei nel sole che sorge
E sei bello nel sole che tramonta».
Infine, Tennyson dirà dell’amico scomparso: “in te confondo tutto l’universo”. L’amore non perde per questo il suo carattere personale, di affinità elettiva, di devozione a un Tu. Non si volatilizza nel fantasma di un sentimento ‘cosmico’, ma resta legato alle forme individuali e irripetibili dell’Amico. «E benché tu sia unito a Dio e alla Natura mi sembra d’amarti sempre più». La morte concentra l’amore come la lente fa con un raggio di Sole, non ne disperde ma ne fissa il carattere personale, le valenze erotiche, intellettuali e sentimentali.
È vero che la morte reca con sé la nozione del vuoto. Ogni qualità esperibile dell’Amico scompare, lasciando il nulla, un puro spazio. Ma questa vacuità, come un polmone, si apre e aspira dentro di sé un’altra pienezza. Si riempie di una presenza invisibile e intangibile eppure reale. «Tu sei lontano ma sempre vicino, ti ho ancora con me e ne gioisco, fiorisco se mi è attorno la tua voce». La perdita fisica dell’Amico, nella sua inaccettabilità, stimola in noi la fede in una realtà ulteriore.
Si dice che, tra le ceneri del rogo su cui fu arsa Giovanna d’Arco, rimase il suo cuore intatto. Così, quando i fumi della morte svaniscono e ogni apparenza esteriore dell’Amico è consumata, ne ritroviamo l’anima illesa. La sua immunità al fuoco dell’effimero, del transitorio, non è dedotta attraverso una serie di nessi razionali, è il divenire consapevoli di una presenza spirituale al cui interno la nascita e la morte non sono che fluttuazioni di forme.
L’Amico è un valore, non un fatto
La nostra società positivista, quindi antispirituale, ricondurrà l’Amico a una fenomenologia delle pulsioni sociali o sessuali, e la sua morte a evento biologico. Dirà che psicologicamente mi ribello al lutto, che evado liricamente dalla realtà dei fatti e la piego ai miei desideri. È vero, vorrei uscire dai fatti e vedere i valori che li sostengono, e oltre, i valori verso cui tendono. D’altro canto, non accetto neppure un certo platonismo, che riduce l’Amico a mezzo di elevazione verso il Bene e il Bello. In tal modo ne riconosce solo l’immanenza, non lo ama in sé stesso ma come piolo di una scala, per sua natura superabile e di fatto inutile una volta che si giunga all’Ideale.
Rabi’ah, mistica persiana, dice invece:
«Signore, se ti amo per timore di perdermi, fammi bruciare nel fuoco.
Signore, se ti amo per venire in Paradiso escludimi dalla tua faccia.
Ma se ti amo solo per te, non respingermi dalla contemplazione del tuo volto».
L’Amico che muore si impregna di questo Assoluto vivente che ci ama e che amiamo senza scopo. Anche nella sua assenza, rimane il custode della nostra solitudine, colui che ne ha cura. Morendo ci fa un ultimo dono, il più sublime. Ci rivela quello che restava inespresso e incompreso. Oltre la dimensione del fisiologico e dello psicologico, ci indica nell’amore la fibra inalterabile, il fondamento e l’essenziale finalismo dell’essere.
Ci è difficile comprenderlo, perché il nostro sguardo è bloccato in una prospettiva sbagliata, che rovescia la scala di grandezza delle cose. Diamo importanza ai grandi avvenimenti della geopolitica e della storia, ai macro-processi economici, alle rivoluzioni tecniche e scientifiche. Dimentichiamo che il senso ultimo della nostra vita si realizza nella relazione con l’Amico, nei gesti anche piccoli d’amore che ci legano reciprocamente.
Ce ne ricordiamo solo se l’esistenza dell’Amico è minacciata, se muore. Allora l’angoscia ci sottrae alla routine alienante dei meccanismi psico-sociali, e le illusorie grandezze del mondo si mostrano per quel che realmente sono: un nulla. Viceversa, quei piccoli gesti divengono immensi. Questo radicale e naturale cambiamento di prospettiva non è il frutto di un’evasione poetica ma un ritorno dalle grandi astrazioni collettive al concreto personale, dalla periferia al centro. Come dice Novalis, «erigere mondi non basta al senso che penetra in fondo; ma un cuore che ama sazia la mente che aspira al sublime».
Una necessità logica
Questo ci riporta all’opzione iniziale, ovvero a chiederci se nella vita sia scopo più fondamentale il capire o l’amare, l’intelligere o il diligere. Tuttavia a me pare che il capire non sia scopo ma mezzo. Se cerchiamo di comprendere è per un determinato fine. È dunque un atto di natura pragmatica e subalterna. Viceversa, non si ama per altro motivo che l’amore. Questo sembra trasmettergli carattere di fondamento. E andando a fondo nei nostri moventi, potremmo scoprire che scopo ultimo del capire è l’esser felici. Così, dato che la felicità è espressione dell’amore per qualcosa, anche la ragione si trova infine al servizio dell’amore.
Perciò “un cuore che ama” appaga più che “erigere mondi”. E se agli occhi del mondo può apparire una cosa minima, certo insignificante nell’economia generale, per noi l’Amico è una finestra aperta sull’infinito. È la trasparenza dell’essere attraverso cui possiamo riconoscere l’intrinseca bellezza della vita (“senza di lui tutto ciò che vedevo era morte”). In lui vediamo il filo che tiene insieme gli sparsi pezzi del nostro destino. Perché, come dice Aristotele: «nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, neppure se avesse tutti gli altri beni messi insieme». Non è vero dunque che l’amore renda ciechi. Al contrario, rende la vista più penetrante, ci mostra nell’essere amato la personificazione di una trascendenza.
«Io sono il tuo amico … io sono colui che ti cerca», dice Allah ad Al Niffari. Ecco la semplice verità che tortuosamente cercavamo. Non è un assioma more geometrico ma verità di natura esistenziale. Dio si fa Amico per non essere solo, per avere un Tu in cui cercarsi e riconoscersi e, per trasformare l’Io in un Noi, il Logos in dialogo. La relazione tra Amici, che noi riguardiamo da un punto di vista contingente e mutevole, è quindi radicata in una dimensione di eternità, nella quale io e l’altro ci apparteniamo da sempre e per sempre.
In una vita che ha per fondamento l’amore, in un cosmo che è riflesso creaturale di un Dio-amore, in cui l’amore “move il sole e l’altre stelle”, in un mondo teso verso l’amore come realtà escatologica, il dissolversi nel nulla di ciò che amiamo è un’impossibilità logica. Il tempo e lo spazio sono forme che l’essere assume per realizzare una comunione infinitamente perfettibile con l’Amico. Una forza ineluttabile, come quella che magneticamente porta due sostanze ad attirarsi, deve quindi necessariamente riunire coloro che si amano.
Perciò sempre ritroveremo chi abbiamo amato, o ne saremo ritrovati, perché i nostri amori durano in eterno nella mente di Dio. Non come fantasmi della memoria ma in un presente sempre vivo. Un ordine cosmico si fa mallevadore dell’immortalità degli Amici e della loro unione. Anche la nostra razionalità può capirlo, se si emancipa dall’arido intelligere, se il pianto delle cose mortali la lava dall’incredulità e dal nichilismo, se bagna in lei le radici dell’amore. Queste lacrime sono purificazione, preghiera, conforto. Ma anche una dimostrazione della verità, sub specie aeternitatis.