11 Ottobre 2024
Attualità Calamità

L’altro terremoto: l’abbandono dei paesi – Roberto Pecchioli

 

Non è ancora terminato il pietoso lavoro del recupero delle vittime del terremoto e completata la loro sepoltura, ma già il peggio degli istinti nazionali è in azione: per un verso, la ricerca spasmodica e un po’ ridicola dei responsabili, dal momento che l’uomo postmoderno non ammette di essere più debole delle forze della natura, dall’altra lo stucchevole teatrino politico tra governo e opposizioni sulla ricostruzione.

Noi vogliamo evitare di partecipare a futili dibattiti di questa specie, poiché, davanti ai drammi, le chiacchiere stanno sempre a zero, ed è assai meglio fare la propria parte in silenzio: chi può, doni sangue, denaro, o quel che serve a chi ha perso tutto, oppure offra un po’ del proprio tempo e delle proprie abilità professionali.

Su un punto, tuttavia, vorremmo avviare una riflessione che è insieme politica, civile e nazionale nel senso più nobile del termine. Occorre evitare un secondo terremoto, davvero definitivo nelle conseguenze, quello dell’abbandono dei paesi colpiti e, più in generale, di tanta parte del nostro martoriato territorio. Si resta sconcertati dalle incredibili dichiarazioni del vescovo di Rieti, che ha affermato, dinanzi alle bare dei poveri morti di Amatrice, che non i terremoti uccidono, ma le opere dell’uomo. Povera Chiesa, se i suoi pastori pronunciano frasi tanto folli per non dover tentare impervie spiegazioni sul male del mondo pronunciando la parola Dio!

Amatrice, paese di antica tradizione, ha pagato un terribile tributo di sangue: oltre duecentoventi morti, su una popolazione del comune di soli 2.650. Ad Arquata del Tronto, cinquanta vittime su una popolazione di 1.166 persone. Ad Accumoli danni e morti, in tanti altri piccoli centri tra Marche, Lazio, Umbria ed Abruzzo, migliaia di persone con case lesionate. Un tributo di sangue superiore, in percentuale, a quelli, drammatici, del Friuli del 1976, dell’Irpinia e della Basilicata del 1980 e dell’Aquila nel 2009. Torneranno in piedi i paesi? Domanda errata: sopravvivranno ai tempi, necessariamente lunghi, della ricostruzione? I precedenti non sono incoraggianti, a parte quelli relativi al Friuli. I ricorrenti terremoti nell’area dell’appennino centrale hanno ulteriormente svuotato i tanti piccoli centri colpiti, il cui progressivo spopolamento iniziò negli anni 50 del novecento, all’alba della grande trasformazione industriale dell’Italia e dell’abbandono dell’agricoltura.

Uno dei drammi italiani è lo spopolamento di vaste aree della nazione, non solo di montagna, che ha determinato la fine di centinaia di comunità, la triste agonia di interi distretti e vallate, e l’interruzione di quella multisecolare cura del territorio da parte dei suoi abitanti il cui esito è il dissesto idrogeologico che provoca continui disastri. I dati demografici relativi ai piccoli centri terremotati erano già sconfortanti prima della presente tragedia. Amatrice aveva la rispettabile popolazione di 6.600 abitanti al primo censimento del dopoguerra, e, di calo in calo, aveva appena tamponato un’emorragia drammatica, mantenendo nell’ultimo quinquennio, presumibilmente per l’arrivo di stranieri, i 2.650 cittadini censiti nel 2011. Arquata del Tronto, paese piceno dove fu girato il film Serafino sulla vita campagnola con cui Adriano Celentano esordì nel cinema, conosce un destino ancora più cupo, giacché gli oltre cinquemila arquatesi del 1951 sono diventati i 1166 di quest’anno, con una perdita di cento cittadini dal 2011.

Il terremoto darà probabilmente il colpo di grazia a queste comunità, come a molte di quelle di cui non ci occupiamo perché non hanno subito lutti, ma “solo” danni materiali ed hanno un numero di sfollati uguale a quello dei tre centri martiri. Per quanto la ricostruzione possa essere rapida e bene organizzata, ciò di cui è lecito dubitare, durante i prossimi anni molti anziani tenderanno a trasferirsi presso figli o nipoti in case più sicure ed in zone dotate dei servizi essenziali. Le coppie giovani con figli cercheranno di stabilirsi là dove le scuole non sono dentro containers o tendoni. Chi svolge attività commerciali, professionali o artigianali emigreranno dove realizzare reddito. Insomma, una catena di problemi, cui seguirà la chiusura di molti uffici postali (Ente Poste è privatizzato e non svolge più la funzione di presidio sociale che ha assolto per oltre un secolo) e l’esaurimento dei piccoli commerci. In breve, al di là della buona volontà dei governi e della generosità degli italiani, un triste deserto potrebbe sostituire le macerie.

Esistono prove del passato, remoto e recente; in Liguria, un terribile sisma devastò la Liguria occidentale verso la fine dell’800, da Diano Marina alla Costa Azzurra, con devastazioni terribili e moltissime vittime. Il piccolo centro di Bussana, nell’entroterra di Sanremo, fu ricostruito più a valle, il vecchio paese è abbandonato in macerie da oltre un secolo, e rivive da qualche decennio, tra pericoli di crolli, cause da parte degli eredi e polemiche burocratiche per l’occupazione da parte di una comunità di artisti tipo hippy. Numerose frazioni e paesi sono morte di inedia negli anni successivi al terremoto, poiché la ricostruzione organizzata dal Depretis privilegiò i centri della costa. Analoga impressione di spopolamento la danno i paesini tra le Marche e l’Umbria colpiti all’inizio degli anni Duemila, per la scelta di andarsene, sostanzialmente obbligata, di molti abitanti.

Non solo terremoto, dunque, ma la fine di un mondo, delle sue tradizioni, la sua cultura materiale, i modi di essere, vivere, parlare, che ha sfigurato e ancora più sfigurerà il paesaggio della nostra terra. Si rende necessario quindi un cambio di passo, la radicale mutazione di paradigma, di valori, di idee condivise per mutare rotta, rovesciare una tendenza che, disastri a parte, ha cambiato in profondità, ed in peggio, l’anima ed il volto dell’Italia.

Uno scrittore piemontese, Nuto Revelli, dedicò la sua attività letteraria a cantare e difendere quello che chiamò il mondo dei vinti. Un’opera, la sua, appesantita da un livore antinazionale di ascendenza “azionista” (Revelli fece parte dei reparti di Giustizia e Libertà durante la guerra civile del 1943/1945 ), ma attraversata da un amore sincero per le sue valli cuneesi, la cui vita si è in gran parte fermata dagli anni della guerra. I giovani non sono tornati a casa, morti soprattutto nella campagna di Russia, interrompendo il ciclo della povera agricoltura e pastorizia di montagna per mancanza di braccia. Le ragazze sono andate in città, ed i pochi rimasti in età attiva sono accorsi a fornire la prima manodopera all’intensa industrializzazione di Torino e della sua nascente “cintura”. Questi vinti, la cui civiltà morente è diventata grande letteratura con Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, sono adesso fantasmi, testimoni di un cruciale passaggio epocale. I loro paesi, in gran parte, non vivono più, se non in qualche zona adatta al turismo invernale e con loro se ne è andato un mondo, quello delle valli occitane.

In Toscana, le zone minerarie dell’Amiata hanno visto la fine di una cultura di uomini duri che hanno dato ricchezza all’Italia e vissuto duramente, come diverse regioni storiche della Sardegna, in cui la fine dell’industria estrattiva ha svuotato persino una delle città fondate dal fascismo, quella Carbonia che ha oggi la metà degli abitanti di meno di 50 anni fa, quando superava i 50 mila cittadini e fu la meta di una vasta immigrazione interna. Il Sulcis-Iglesiente è ora la provincia più povera d’Italia. Non diverso fu ed è il destino delle zone interne della dorsale appenninica meridionale, da cui provenne la massa degli immigrati che hanno formato il nerbo operaio dell’industria del Nord e di tanta parte d’Europa. La tragedia mineraria belga di Marcinelle del 1956 fu l’olocausto dei minatori abruzzesi.

Un ultimo esempio ci viene da aree assai sviluppate della nostra patria, come la Toscana. La bellissima Montagna Pistoiese ha perduto il quaranta per cento circa dei suoi abitanti per la fine di una grande industria, la Società Metallurgica Italiana, che ebbe quasi duemila dipendenti, ed il turismo regge solo nella zona dell’Abetone, a causa del cambiamento di gusti delle popolazioni cittadine, che una volta affollavano i numerosi alberghi e che adesso preferiscono le Alpi o le mete esotiche. Gli alberghi sono ancora lì, abbandonati tristemente, o si sono trasformati in ospizi per anziani.

Ognuno può descrivere situazioni analoghe o peggiori in ognuna delle regioni d’Italia, tranne forse la valle d’Aosta ed il Trentino Adige, i cui statuti di autonomia hanno lasciato sul territorio i centri decisionali, pompato denaro speso mediamente meglio che nel resto d’Italia e bloccato, quando non invertito, lo spopolamento delle vallate e della montagna. Anzi, le due province atesine, le più settentrionali, sono quelle dove è meno sconfortante il tasso di natalità, per le buone politiche sociali, fiscali ed infrastrutturali che lo sostengono.

Che fare, dunque? Nell’immediato, e con riferimento ad Amatrice ed alle altre zone terremotate, ricostruire con testardaggine là dove i paesi hanno vissuto da sempre, privilegiando la ripresa di scuole, ospedali, infrastrutture, stalle, silos, negozi, officine, tutto quanto costituisce la vita quotidiana delle comunità. Per l’Italia intera, il cambio deve essere di mentalità; chi ha almeno 50 anni ed ha assistito al travolgente cammino della modernità e del cosiddetto progresso ricorda il disprezzo e l’ironia di cui era circondato il contadino, il “paesano”. Si doveva studiare obbligatoriamente, non per acquisire il sapere, ma per poter evitare i lavori agricoli, quelli artigianali, la stessa condizione operaia di tantissimi inurbati di recente. Erano svalutate le conoscenze, la cultura materiale, le specifiche tradizioni, i modi di vivere di chi viveva lontano dalle città. E’ stato favorito in ogni modo l’esodo dalle campagne e dalle vallate, abolendo progressivamente piccole ferrovie locali, trasferendo le attività economiche a ridosso delle autostrade che venivano costruite, chiudendo tanti ospedali di prossimità edificati con il sacrificio delle generazioni precedenti, soprattutto, ripetiamo, deridendo e svalutando come cittadini di serie B coloro che decidevano di rimanere là dove erano nate e cresciute le generazioni passate.

Tutto questo deve cessare, e non solo perché è giusto, ma anche perché conviene. Chi tiene puliti i boschi, come avviene in Trentino, e non in regioni che stipendiano legioni di forestali, se non chi vive in prossimità, e trae parte del reddito da quei beni comuni che hanno sfamato per secoli, legnatico, pascoli liberi ed altro ancora? Chi darà da mangiare alla popolazione delle città, a meno di non continuare con la follia globalista, per cui importiamo da Cina e Terzo Mondo pomodori, latte, grano, frutta che sappiamo produrre almeno altrettanto bene di qualunque altro popolo?

Negli ultimi anni, segnati dalla crisi strutturale scoppiata nel 2007/2008, l’unico settore che ha visto un sia pur lieve incremento è stato quello delle imprese agricole. Accanto a loro, c’è un immenso ventaglio di attività, non necessariamente piccole o antiquate, nel commercio, nell’artigianato di ogni genere, nella trasformazione dei prodotti, nella produzione di beni associati alla vita dei paesi, nel turismo diverso da quello della masse dei viaggi organizzati, nei servizi alla persona, che troverebbero nei piccoli e medi centri il loro miglior terreno. Ma non ci sono più le scuole professionali, è stato trascurato l’apprendistato, tutti noi abbiamo impartito ai nostri figli la lezione del tutto e subito, del diploma e della laurea (99, 5% di maturi nell’anno corrente. Assurdo, todos caballeros, ma i cavalli?) del posto fisso pubblico, così splendidamente descritto da un comico intelligente e dalle antenne sensibili come Checco Zalone, importiamo manodopera inutile o utilizzabile solo in un sistema di volgare sfruttamento.

Intanto, ci siamo deindustrializzati, e gran parte di ciò che resta non è controllato da imprese radicate in Italia. Non c’è che cambiare strada, ed accettare il consiglio di Albert Einstein: i problemi provocati dal vecchio modo di pensare devono essere risolti con un nuovo modo di pensare. I terremoti, lo sappiamo, sono una costante di questo nostro territorio prezioso come un diamante, ma delicato come un cristallo. Reinventare i paesi distrutti può mettere in pista intelligenze, idee, scoperte di un popolo che sa ancora esprimere eccellenze straordinarie. Salvare, ripopolare i mille e mille paesi abbandonati o morenti dovrebbe essere considerata un’emergenza nazionale, un programma di governo, un punto d’onore. In Francia, moltissimi dipartimenti e municipi, ad esempio, mettono a disposizione di chi vi trasferisce negozi di vicinato o attività artigianali, casa e integrazione del reddito. Non di rado, la chiusura di una rivendita di alimentari, di un ufficio postale, la dismissione di una linea di trasporti uccide una comunità.

In un piccolo centro dell’entroterra di Ventimiglia, sono arrivati ad offrire la casa gratis (enorme è, ovunque, il patrimonio edilizio non utilizzato) a chi si trasferisce con figli, per evitare la chiusura della scuola, un atto che, a medio termine, significa la morte del paese per mancanza di nuovi abitanti. Innovare, inventare, immaginare cose nuove, non è mai stato un problema per il nostro popolo, che ha le “start up” nel sangue da ben prima che le nuove aziende si chiamassero così. E’ sin troppo evidente che riprendere in modi nuovi luoghi e modi di vivere e lavorare del passato produce reddito, restituisce vita, ci rende meno vulnerabili ai capricci del Gran Maestro Mercato.

Se si inizierà a cambiare mentalità, anche una tragedia come il terremoto potrà diventare, per chi è sopravvissuto e per tutti noi, un nuovo inizio, un punto di partenza da ricordare elaborando prima, superando poi, il giusto lutto. Forse anche il vescovo di Ascoli eviterà di chiedersi dov’era Dio, se, insieme con i paesini nel cuore degli appennini, ridaremo vita ad un’Italia dimenticata, minore solo perché lontana dai grandi centri e dalle principali vie di comunicazione.

Tutti, tutti noi, siamo figli o nipoti di quell’Italia bellissima e strapaesana: salvarla, rianimarla, ripopolarla è il più grande atto d’amore verso la terra dei padri, verso noi stessi, verso le generazioni a cui consegneremo questa nostra terra.

 

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