8 Ottobre 2024
Arte

L’Anarchismo di Marcello Gallian – Emanuele Casalena

Vecchia piccola borghesia,
vecchia gente di casa mia
per piccina che tu sia
il vento un giorno
ti spazzerà via
(Borghesia di Claudio Lolli)

«Vedo che ad Est, in Russia, il fascismo rimonta, il fascismo immenso e rosso»
( Robert Brasillach)

Il frullar del ribelle lo doveva a quel nonno materno esiliato politico a Marsiglia dal governo pontificio, dove il meschino morì di stenti per le sue idee eversive mescolate ai colori delle tele, di fatto egli era un pittore. Anche Marcello Gallian impugnerà tra l’indice e il pollice la tavolozza sin dagli anni ’20 per copulare poi nel talamo dell’arte dagli anni ’40, preferendo i pennelli all’inchiostro, insomma era un po’ tutto suo nonno.

C’è desiderio d’appropriazione dell’anarchia italiana tirata per la giacchetta a destra, a sinistra, i rami dell’albero sono tanti, sovente contrapposti, sfidano il cielo fin su in alto, braccia di uomini votati alla torre di Babele, tra le analisi di Proudhon, il libertarismo di Bakunin, l’individualismo di Stirner, la fiaccola dell’Anarchia infiammava menti o proletari sfruttati, la radice comune era la rivoluzione, grimaldello della bieca società borghese. C’era ai primi del Novecento l’epopea romantica dell’anarchia condita da azioni cruente come l’assassinio di Re Umberto I sparato a Monza (1900) o quella precedente del Presidente della Repubblica francese Sadi Carnot del cui delitto fu accusato l’ anarchico italiano Pietro Gori, riparato in Svizzera ove compose la famosa “Addio Lugano bella” dopo l’espulsione dal suolo dei banchieri. Gli anarchici samaritani erano stimati banditi senza tregua, votati a migrare di terra in terra a predicar la pace per gli oppressi, la guerra agli oppressor. Internazionalismo d’ un movimento di liberazione volto ad un mondo senza Patrie, confini, guerre d’espansione, colonialismo con un solo vessillo: la libertà, bene irrinunciabile, ossigeno d’alta quota per la dignità umana. E gli anarchici interventisti allora? Prima di tutto non erano bakuniani, ma come Libero Tancredi, al secolo Massimo Rocca, la direttrice era Max Stirner lavato in acque d’Ausonia, anarchismo più che Anarchia, troppo rigida la seconda nel suo cappotto filosofico, liberatorio come un urlo a squarciagola il primo. L’anarchia era una religione, non declinava apostasia, era fede cieca  nei suoi teoremi come nelle sue azioni, altro invece era lo spirito di Icaro assetato di volo, di libertà, di cielo alto sopra il brulicar dei nani. quell’animo ribelle della rivolta permanente dell’uomo contro le catene, tappo della bottiglia che salta in aria, spirito che sgorga libero da costrizioni come lo spumante. Il fascismo bambino fu anarchismo tradotto in azione collettiva, fu assalto alla diligenza del Giano liberalismo-comunismo per una ragione : lo spirito contro la materia, il sangue contro l’oro. I futuristi furono questo fin dal manifesto del 1909, un cenobio di ribelli scattati in alto come rane dal putrido stagno del provincialismo piccolo borghese; altre ninfee fiorirono succhiando nella melma, l’interventismo furioso per saldare l’anello del Risorgimento e poi, tra ferite e sciacalli, venne piazza S. Sepolcro, era il 23 marzo del 1919, Marcello Gallian c’era, aveva solo 17 anni. Conviene qui ricordare le parole conclusive del discorso programmatico di Mussolini: “‘Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all’avanguardia”. Miele per giovani ribelli vocati alla rivoluzione, perché i sansepolcristi incarnavano lo spirito degli arditi, di coloro che avevano lasciato la trincea per andare all’assalto a ghermire onore e gloria. Per chiarire cos’era l’essere fascisti della prima ora, riportiamo in sintesi le affermazioni di Nicolò Accame (figlio di Giano) rilasciate, nel ’96, in un’intervista:”La destra è censura, reazione, bigotteria.[…]Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell’inizio e della fine. Quello che non conserva ma cambia […]”.

Quel giovinetto presente a S. Sepolcro non era meneghino essendo sbocciato a Roma nel 1902  farfalla d’una famiglia dal sangue blu nelle vene,  assai benestante almeno fino al 1911, anno della guerra italo-turca. Papà Angelo dovette mollare il suo incarico di console generale in Turchia per evidenti ragioni d’ inopportunità diplomatica,  furono momenti di cinghia stretta per la famiglia. Comunque Marcello, da buon aristocratico fu messo a scuola dei preti prima a Roma poi nel  collegio dei Vallombrosani a Firenze e lì gli parve d’udire una vocina che lo chiamasse al sacerdozio, tanto da prendere i voti semplici. Fu uno studente modello, immerso con avida passione nello studio dei classici greci e latini, nel contempo assorbiva il gusto dell’austera regola benedettina. La povertà come valore darà radici alla formazione della sua  personalità incline, da subito, al pensiero divergente dalla calma pianificazione borghese della vita. Coltivava la passione febbrile per autori anticonformisti da Dante Alighieri a Dostoevskij, da Giordano Bruno a Baudelaire, passando per l’irriverente Cecco Angiolieri fino a Majakoskij.

Basta però pensiero, basta con la ribollita di cervello, nel cassetto i voti, azione! Il 23 marzo è a Milano ad ascoltare il Duce, a settembre del ’19 partecipa all’occupazione di Fiume col “comandante” Gabriele D’Annunzio, è la sua iniziazione verso il  fascismo, rivoluzione anti middle class. Da squadrista il ventenne Marcello partecipa alla marcia su Roma, braccio di ferro finale tra il governicchio Facta e coloro che s’erano conquistato sul campo il diritto di prendere la barra per guidare l’Italia.

Sarebbe potuto starsene buono, buono nell’ovattata famigliola, frequentando l’alta società, pigolando nelle feste, avviandosi anche lui ad una solida carriera diplomatica con una bella raccomandazione della zia materna. Invece scese nelle osterie di Trastevere dove s’imbambolava alle chiacchiere politiche di anarchici e fascisti, fu preso a sganassoni da Errico Malatesta, non importa, s’immergeva nel brodo bollente del ribellismo collaborando  al Teatro degli Indipendentisti di Bragaglia e alla rivista Novecento di Massimo Bontempelli come al nuovo cinema di Blasetti. Un lungo rosario i suoi “pezzi” su quotidiani illustri ( Il Corriere della Sera) e nuovi prodotti editoriali come “ Spirito nuovo” da lui fondato nel ’25, “L’Impero”, “Roma fascista” e molte altre testate.

Nel 1928 uscì Il dramma nella latteria, cui seguiranno Vita di sconosciuto (1929), Nascita di un figlio, prefazione di M. Bontempelli, Il pugilatore di paese del ’31.

Già da questi primi racconti, brevi romanzi possiamo cogliere il percorso surreale, immaginifico d’uno scrittore visionario dove trame e stile della narrazione creano un espressionismo letterario al quale l’autore ancorato anticipando temi e linguaggio del neorealismo post bellum. I protagonisti sono i ribelli, gli emarginati, le vite dei border line de ghetti popolari, dove, come in Anna e Marco di Lucio Dalla, l’unica salvezza è il sogno d’un gesto di rivolta per slacciare le stringhe che li soffocano, relegandoli nel cantuccio dei nessuno. Il 28 febbraio del ’29 è in scena al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, la commedia in tre atti La casa di Lazzaro scritta da Gallian, grande il successo di pubblico, buona la critica, ma la gerarchia fascista storce parecchio il naso. Quel Lazzaro resuscitato voleva godersi la vita gustandone i frutti proibiti dalla morale comune. Sesso con le “donnine perdute”, banchetti succulenti annaffiati dal buon vino, lazzi, canti e risate a crepapelle. Ci sovvengono le regole del Club la Bohème di Giacomo Puccini a Torre del Lago. Quel Lazzaro ribelle, un apostata di quello che fu amico di Gesù, era completamente fuori strada dopo la fresca firma dei Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio del ’29. Quegli eroi di Gallian poi erano ben altro dal prototipo dei figli della lupa, erano anticonformisti impenitenti, vagabondi, calde prostitute, reietti quasi che l’autore avesse preso alla lettera la frase del Vangelo di Matteo:”In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precedono nel regno dei cieli”. Ci passa alla mente la tonaca lisa del fu  don Oreste Benzi tra le mignotte nigeriane sul lungomare di Rimini ma anche i soggetti tanto amati da un altro immenso anarco-fascista impenitente, il viareggino  Lorenzo Viani.

La produzione scritta di Marcello è immensa, molti racconti e romanzi attendono ancora un editore, noi qui citiamo solo un romanzo che lo pose all’indice del Minculpop di regime ed è “Bassofondo” pubblicato nel 1936, censurato, ripubblicato con tagli degli ultimi 4 capitoli cambiando anche il titolo del libretto in “In fondo al quartiere”. La trama è tutta nei vicoli di un rione popolare di Roma, scavando con affreschi nelle grame esistenze  dei suoi abitanti, dal profumiere al macellaio, alla merciaia Lisa vedova ancora piacente ( ricorda la tabaccaia di Amarcord) al punto che un fringuello sedicenne, Giovanni Battista Timorto Dio ( il nome è tutto un programma) preso da un raptus erotico la possiede con violenza nel suo negozietto. Tutto sommato a Lisa, da anni a stecchetto di sesso, quella congiunzione le è piaciuta, tanto da aprire la porta della sua vita a quel giovanotto di strada, irruento, ribelle. Un’anticipazione profetica di milf a caccia di  boy toy e viceversa, in un legame carnale sfacciato agli occhi bigotti della gente del rione. Ma Giovanni è un ragazzo alla Caravaggio, così finisce in gattabuia dopo l’ennesima violenta rissa da guascone in un’osteria. Saranno sbarre per sette mesi condite dal bastone, il filo spinato del ribelle così si piega, perde le sue spine aguzze, s’acqueta. Il cordone tra gli amanti sconvenienti s’ assottiglia fino a spezzarsi, si rincontreranno molto dopo ma niente sarà più come prima. La merciaia Lisa ha imparato a fare buoni affari con la sua bottega, si è ingrandita acquistando il negozio del profumiere, è diventata “qualcuno” in quel malfamato rione romano,  ha assunto persino  un vagabondo di colore armandolo di livrea per ricevere o invogliare i clienti e forse unendo l’utile al sollazzo. Giovanni s’è imborghesito diventando adulto, vive da grasso parassita sulle spalle della maitresse del bordello, mangia, beve e fa il kilo, il fuoco sovversivo s’è spento nel molle agio del non far niente. E’ lampante metafora dell’involuzione del regime, dall’anarchismo ribelle, rivoluzionario all’appiattimento sugli spartiti del pensiero borghese. Per Gallian era un tradimento dello spirito del fascismo, movimento di aggressione al grigio passatismo del quieto vivere, con un buon conto in banca, una professione rispettabile, il the delle mogli con le amiche e la Domenica a messa. Scrive nel romanzo Colpo alla borghesia:” Rari, alla fine, sono coloro che credo­no “borghesia” essere uno stato d’animo, nel quale gli uomini, tutti, sogliono cadere: si può essere leoni durante cent’anni e bor­ghesi durante un’ora sola, ma terribile ora, catastrofica, letale. La borghesia è anche il popolo, il popolo tutto” borghesia erano ormai i gerarchi del fascismo.  Per il Gallian sansepolcrista, squadrista della prima ora la meta era chiarissima, il fascismo era la pistola puntata alla tempia contro quella classe in nome dello spirito coeso di un popolo che si ribella al materialismo liberale come a quello marxista, perché anche il proletariato, chiuso nella gabbia di classe, aspira in fondo ad una comoda vita in vestaglia, pantofole e Balilla. Però quella pistola s’era inceppata, no aveva fatto BANG! o peggio era stata riposta nel cassetto assieme ai cari bastoni che tanto mancavano allo scrittore, “bombe a man e carezze col pugnal”. Il virus lento quanto infingardo aveva attaccato le cellule del partito dai gradini più bassi fino alla cima della piramide, salvo pochissime eccezioni tra cui il “suo Mussolini”. Ma c’è un’opera quasi autobiografica precedente Rivoluzione pubblicato su Quadrivio nel 1935, il titolo è già riassunto dell’odiato eterno ritorno degli avvenimenti. Vi si racconta di un giovinotto dell’alta borghesia romana, Mario, che vive da ribelle la sua condizione di privilegiato, ha coscienza che quell’agiatezza è il frutto marcio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non può non vedere le condizioni di vessazione in cui versano braccianti e contadini sottoposti alle angherie di un facoltoso latifondista, suo conoscente, il signor Antioco. Il ragazzo, dopo una violenta lite con quest’ultimo, decide d’ammazzarlo sparandogli con la pistola, quell’atto deve essere lo squillo della rivolta del proletariato contro il padrone. Per non essere arrestato fugge, facendo perdere le sue tracce, vivendo lo stato di latitante nell’emarginazione del vagabondo. Dopo anni decide, come il figliol prodigo, di tornarsene a casa. Viene accolto come un  eroe non solo dalla madre lacrimante di gioia ma da tutto il circoletto borghese del suo quartiere bene. Già perché quel colpo di pistola era stato lo start della rivoluzione fascista, l’inizio dell’onda che avrebbe travolto ogni cosa e  invece Mario osserva che tutto è ritornato uguale come nel Gattopardo.. Persino l’affamatore Antioco è vivo, è scampato alla pallottola assassina, ora ingrassa per bene nel partito facendo buoni affari. Nella sua risposta allo stupore amaro di Mario c’è il succo dell’opera: “Dovevate immaginarlo, non è sempre rivoluzione, non è possibile sem­pre la guerra: voi eravate un’eccezione, un anormale, io sono la regola, la normalità, l’orologio che segna le ore”. Il novarismo rivoluzionario aveva perduto , don Chisciotte era morto rinnegando la sua sana pazzia. D’altra parte il nemico borghese era stato frullato insieme ai duri e puri nella visione di uno Stato organico, un mosaico dove ciascuna tessera sociale era importante, anzi la classe borghese era imprenditoria vitale alla Nazione, il sindacalismo rivoluzionario s’era spento, il corporativismo di Ugo Spirito era entrato in un binario morto, Bottai aveva vinto, al rivoluzionario Farinacci resterà l’onore d’essere fucilato faccia al plotone.. Lo spirito neopositivista s’era seduto al tavolo degli squadristi corrompendone azione e pensiero, tarlandone l’animo ribelle, sedandolo con i piaceri, scrive Gallian in Colpo alla borghesia; «Il Borghese odia lo stato e cerca di tradirlo in ogni modo, con ogni mezzo, lecito o illecito; pensa alla sua pancia, alla sua casa, ai suoi mobili, ai suoi figli, alle sue donne: il resto, le donne degli altri, i figli degli altri, la casa degli altri, i mobili degli altri gli interessano quando può aspirare a conquistarli. Farli cioè suoi, di sua proprietà “ Quel germe, piano, piano aveva dato i suoi frutti anche nel fascismo. Bene, amaramente è quello che vediamo non da oggi come la metastasi riprodottasi ovunque sotto le bandiere rosse come sotto i regimi liberali, il sogno dei migranti è mangiare di quei succosi frutti, il resto sono ciance, si salvano davvero solo i liberi vagabondi.

Dovere storico sarebbe capire le ragioni vere di Gallian della sua mancata adesione alla RSI  che fu il ritorno della rivoluzione del ’19, la ripresa di un’estrema postazione per combattere la plutocrazia borghese che aveva triturato il fascismo, l’ultimo disperato colpo di coda per salvare l’onore della Patria. Il fascismo di S. Sepolcro aveva tradito l’anarchismo, al diavolo il fascismo allora!

C’è poi un Marcello Gallian pittore del quale parleremo ora, forse anche in quei colori è racchiusa la risposta.

Siamo nel dopoguerra, è fame, il sovversivo Marcello ha visto minati i ponti dell’editoria, scrive articoli con uno pseudonimo per il “Pensiero Nazionale” del giornalista sardo Stanis Ruinas, colui che coltivava l’utopia del fascio-comunismodi raccogliendo la sinistra fascista della RSI nell’alveo del partito di Togliatti.

Sul tema Paolo Buchignani ha scritto un libro, “Fascisti rossi” denso di fili storici del ragno P.C.I. nel tessere unità d’intenti  con gli ex repubblichini o i giovani delusi dal neonato M.S.I. in ragione di un terreno comune di lotta: anticapitalismo e antiatlantismo.

Come trasmutare la viltà del grigio piombo nell’oro della vita? La Terza via era interrotta da una frana, la guerra, piazzale Loreto, hanno sprofondato nell’abisso quella nazional-rivoluzione dei credenti in una Patria stretta nelle salde verghe dell’Idea, quale?  Lo Spirito Mastro Titta della materia. Sono gli anni della svolta figurativa di Gallian, abbraccia l’espressionismo della scuola romana di Scipione e Mafai, Scialoja ma il segno è duro, deformante, senza l’ironia graffiante ma trasognata dei suoi mèntori. La sua adesione all’Immaginismo riemerge nel grottesco tragico dei suoi soggetti, scelti perché anticonformisti, ribelli contro la piccola morale borghese, siano essi i crocifissi o le puttane, il Circo o gli amplessi, la tediosa vita domestica stravaccata nei pensieri o assorta sugli oggetti. Purtroppo la borghesia farisea aveva vinto, sulle croci erano inchiodati gli spartachi ribelli, mentre molti  s’erano piegati alla prostituzione intellettuale, finendo bolsi e grassi a fare il kilo, qualcuno invece aveva proseguito il cammino infilandosi il pastrano bolscevico pur di farla finita col sistema borghese. Lui restò solitario sul ramo come fosse uno stricciolo con dentro al nido moglie e sei figli, arrangiandosi a non lasciarsi soffocare dal vento del deserto intellettuale, umiliato a scrivere per altri o vendere sigarette di contrabbando alla Stazione Termini, lui che era stato  «Il più ribelle ed emancipato degli scrittori contemporanei» ( Enrico Falqui).

Fino all’ultimo Gallian restò fedele a quel ragazzo, Giovanni, armato di rivoluzione, protagonista di

La vecchia perduta. Altro accoppiamento tra un giovane ed una milf matura, il seme questa volta fa centro, lei resta miracolosamente in cinta come Elisabetta. Per la vergogna o la paura vorrebbe liberarsi dell’intruso abortendo ma il giovanotto si frappone, quel figlio ha da nascere a tutti i costi, è il figlio della rivoluzione contro il piatto sentir borghese. Lei partorirà reclusa in casa, ma il travaglio le sarà fatale, Giovanni salverà il nascituro simbolo della vittoria sulla società dei farisei.

 

                                         

     

Marcello Gallan, Sogno di battaglia
Marcello Gallian, Crocifissione

E’ consuetudine dotta cercare i geni di un artista, i cromosomi dei suoi genitori d’arte, così per Marcello Gallian sì è parlato molto di Grosz come riferimento espressionista ma l’unica semantica comune è l’astio virulento per la borghesia, tratto, colori accesi e soggetti sono diversi, con una mistica poi per le “donne perdute” da parte di Gallian che ci richiama all’antichissima prostituzione sacra. Era una prostituta l’eroina della rivolta in Trasvaal di minatori ed operai oppressi in La scoperta della terra, ce la immaginiamo armata guidando la riscossa come la spoglia Libertà che guida il popolo di E. Delacroix.

Marcello Gallian si spense nello stanzino chiuso dei “dimenticati” il 21 gennaio del 1968, ce lo immaginiamo certamente presente, con tanto di bastone in mano, nella “battaglia di Valle Giulia” del 1 marzo del ’68. Chissà, a guardar bene fra i militanti di Avanguardia c’era anche lui.

 

Emanuele Casalena

Bibliografia

Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Bonacci Editore, Roma 1984.

Paolo Buchignani, Fascisti Rossi, LE SCIE, Mondadori,Milano 1998.

Silvana Cirillo, Claudio Crescentini, Marcello Gallian. La deformazione della realtà, Roma, Ponte Sisto, 2013.

Associazione Centro studi “Marcello Gallian”.

Artnoise, Marcello Gallian (1902-1968)- La deformazione della realtà. 14 Ottobre 2013.

Silvana Cirillo, Marcello Gallian (1902.1968), uno scrittore anarco-fascista, antiborghese, espressionista e grottesco. Le reti di Deadalus. Archivio 2009.

 

 

1 Comment

  • giacinto reale 4 Luglio 2018

    Benedetto Buchignani…che ci ha un pò tutti contagiato con quel “fascista anarchico” sicuramente di grande presa, ma fuorviante: Gallian bordeggia l’anarchia, come molti fascisti, ma gli fa argine contro ogni straripamento la saldezza dell’idea, il legame indissolubile con l’esperienza squadrista, la battaglia alla borghesia come ”stile di vita”, e la fede in Mussolini. Lui stesso se ne deve essere reso conto, se, ad un successivo Convegno tenutosi a Padova nel 2008, a quarant’anni dalla morte dello scrittore, preferirà omettere, nel titolo della sua relazione, il riferimento al “fascista anarchico”, preferendogli “Il fascismo rivoluzionario di Marcello Gallian”…..ma noi ormai ci eravamo affezionati…suonava bene 🙂

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