di Mario M. Merlino
Vicolo della Campanella, a ridosso di via dei Coronari, la strada di Roma degli antiquari, fra piazza Navona e il lungotevere. Un portoncino reso nuovo da una pennellata di vernice, le scale ripide a chiocciola e un ampio, unico stanzone con il palco in legno e il pianoforte a parete, il bancone del bar, tavolini e scomode poltroncine. Odore di sugo all’arrabbiata, specialità della casa a mezzanotte. E’ l’anno 1965, il luogo il Bagaglino, il cabaret pronto a divenire famoso, ideato e realizzato da un gruppo di amici autodefinitisi ‘anarchici di destra’. Fra tutti spicca Mario Castellacci con i baffi spioventi e il cranio lucido sotto i riflettori. E’ stato nella Repubblica Sociale, alla scuola di Orvieto per ufficiali della G.N.R.. Una sera, tornando in caserma con in corpo più di un bicchiere di buon vino, ha composto ‘le donne non ci vogliono più bene’. Definita da Giorgio Bocca la più bella canzone della guerra civile. Una canzone ‘strafottente’, che poi è il suo titolo originario. Ne ho scritto in Atmosfere in nero (mi faccio pubblicità,un libro di cinque racconti ove sperimento la narrativa innestando storie raccolte dalla viva voce della testimonianza diretta), ricordando come vi conobbi Mila Bernardini di Gubbio, il padre fucilato a Lecco dai partigiani che volle divenire moglie di Emilio, milite del btg. Leonessa, che aveva assistito alla sua morte.
Molti anni dopo, mi sembra nel 1995, Mario Castellacci venne al liceo dove tenevo un corso, ‘l’un contro l’altro armati’, che mi consentiva di far parlare, forse per la prima volta, dei combattenti ‘repubblichini’ in una scuola della repubblica. Si presentò con un gran barbone sale e pepe, la camicia a quadrettoni bianchi e rossi modello tovaglia da cucina. Si accattivò subito la simpatia degli studenti con: ‘Fatemi delle domande cattive se no non mi diverto…’. E volle invitarmi al salone Margherita alla presentazione del suo libro La memoria bruciata. Parlando dell’8 settembre, ‘su tutte le cose aleggia il colore grigio della vergogna’, che mi ricorda quanto scrive Mishima ne La voce degli spiriti eroici: ‘Il governo dell’Imperatore fu tinto da rosso sangue fino al termine della guerra; successivamente iniziò l’epoca del grigio cenere’…
Nel 1968 esce una raccolta di articoli, più esattamente brevi ed incisivi saggi, di Julius Evola dal titolo L’Arco e la Clava. Dovrei raccontare del mio incontro, tragicomico, con Evola – l’ho già fatto in Ritratti in piedi, in verità -: dell’importanza di Cavalcare la tigre nel contesto di quanto vado scrivendo; del poeta tedesco Gottfried Benn di cui si riporta a conclusione un breve saggio del 1935 in occasione della edizione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno… dovrei, ma – ahi, povera Ereticamente! – finirebbe per divenire una sorta di cassonetto differenziato (guarda caso, termine caro ad Evola) dove gettare l’irrefrenabile bla-bla-bla di un Io preda della vanità, atto a trasformare, oltre e comunque, il tutto in un feuilleton fine ‘800… Nel libro c’è un saggio dal titolo La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Non entrerò nel merito, ma mi sembrava indicativo farne cenno. Dimostrazione che vi fu e c’è una cultura, composita e complessa, a cui l’ignavia la malafede l’arroganza hanno tentato di soffocarne la voce ed, oggi, si cerca di estraniarla dal contesto di accadimenti uomini e battaglie di cui fu espressione.
Nella libreria City Lights Bookstore di San Francisco di Lawrence Ferlinghetti, il poeta-editore della beat generation, spicca alla parete una fotografia di Pound giovane con dedica. Ne I Vagabondi del Dharma, che io preferisco al più conosciuto On the Road, Kerouac introduce questo breve dialogo: ‘Alvah: che sono tutti questi libri? Ehm, Pound, ti piace Pound? – Japhy: se si eccettua il fatto che quella vecchia faccia di stronzo ha storpiato il nome di Li Po chiamandolo con il suo nome giapponese e altre simili enormi fesserie, era un buon diavolo, anzi è il mio poeta preferito. – Ray: Pound? Chi è che vuol fare di quel matto presuntuoso il suo poeta preferito?’. E le citazioni potrebbero continuare, accompagnate, che è ben più essenziale, dalle immagini mediate, i concetti raccolti, le proposte implicite… Ed anche qui dovrei aprire uno spazio sulle posizioni, del resto ampiamente note, poetiche ed anti-usurocratiche dell’opera di Ezra Pound ( ulteriore pubblicità, rimando a Inquieto Novecento, scritto con l’amico Rodolfo Sideri).
Ora l’influenza che Evola ha esercitato in più generazioni dal dopo-guerra in poi non può essere denegata, anche se nei primi giorni del ’68 molti di noi fecero una scelta di partecipazione che egli ci contestò. Ricordo il 1 marzo del ’68, scalinata di piazza di Spagna, prima di muoverci in corteo – rossi e neri – per scontrarci con la celere a Valle Giulia. Fino all’ultimo Adriano Romualdi, a cui unico Evola dava del ‘tu’, cercò di dissuaderci, temendo la deriva ‘plebea’ della contestazione. Si potrebbe affermare che le due voci di una rivolta annunciata, Herbert Marcuse e appunto Julius Evola, furono due profeti inascoltati. Inascoltati, ma pur sempre fondamentali…
Bene. Che mi si crocefigga e mi si dia dello spergiuro. Parlare di Céline, però, implica uno spazio che allungherebbe a dismisura questo intervento. Mi ospitate per una quinta volta? C
onfidenza… dell’autore del Voyage ho già a mente qualcosa di diverso da proporre… sono certo(!?) che non vi deluderò. A prestissimo!
onfidenza… dell’autore del Voyage ho già a mente qualcosa di diverso da proporre… sono certo(!?) che non vi deluderò. A prestissimo!
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