di Mario M. Merlino
A piazza Fontanella Borghese i libri si affastellano sulle bancarelle. Basta avere pazienza, innamorarsi della carta ingiallita, dei fogli che frusciano correndo il rischio di sbriciolarsi ai bordi sotto le tue dita maldestre. Sedici anni, 1960. Chi avrebbe detto quanto mi furono importanti tre avvenimenti, difformi tra loro, in quell’anno. Il 15 ottobre, dopo aver partecipato agli scioperi studenteschi organizzati dalla Giovane Italia, vado in via Quattro Fontane ad iscrivermi. Sono con me Roberto e Girolamo, conosciuti mentre si scappa dalla celere con il fiato grosso e la prima adrenalina che annuncia ‘una vita spericolata’. Roberto l’ho rincontrato di recente, quando la vecchia guardia s’è ritrovata al teatro Anfitrione per la presentazione del libro del piccolo grande capo. Contro un’impietosa anagrafe, con la giovinezza dentro e un senso radicato del cameratismo pur nella diaspora imposta dagli anni. Girolamo, dopo aver guardato la morte in faccia nelle foreste del Congo e chissà in quante altre parti del mondo, ha stabilito per l’ultima volta che dovesse avere il proprio volto, il sorriso scanzonato, la sigaretta tra i denti. Quel 15 ottobre fu il primo atto formale di oltre cinquant’anni di militanza senza rimpianti rinnegamenti rancori…
A scuola il professor Morelli spiega la nascita della tragedia greca, disvelando un universo di raccordi raffronti assonanze spazio e tempo immarcescenti; il dio Dioniso ebbro e folle abbisogna del dio Apollo dalle belle forme; alle divinità delle fonti e dei boschi si offrono le interiora degli animali cacciati e i frutti della terra; con il coltello di ossidiana i sacerdoti aztechi levano al cielo il cuore dei prigionieri sacrificati affinché il sole non muoia. Ti guarda di storto, con la sigaretta eternamente accesa, fregandosene dei divieti, insultando la tua giovanile stupidità ma sulla quale getta un lastricato di autentica curiosità. Torno a casa e, a tavola, annuncio la decisione presa: se è possibile dietro la cattedra mostrare lo straordinario dispiegarsi di uomini e cose, bene, farò il professore. Anche in questo la vita mi ha accontentato e a quella decisione sono restato fedele. Nella suoneria del cellulare Violetta Parra canta Gracias de la Vida…
Risparmio sul biglietto dell’autobus – cinquanta lire – andando al liceo a piedi. E sono soldi ben spesi in libri, i primi della mia torre di Babele, come direbbe Jorge Luis Borges. I primi tre della mia interrogante, inquieta adolescenza. I Proscritti di Ernst von Salomon prima edizione primavera del 1943 voluta da Giaime Pintor. Dei tre l’unico che si è preservato dall’incuria del tempo e dalla ragnatela delle circostanze. Il Così parlò Zarathustra in una edizione poetica, forse filologicamente poco corretta secondo i parametri – anch’essi discutibili, del resto – di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Lo prestai ad un anarchico, Giovanni, poco prima di venire arrestato. Una sera, mentre armeggiava alla portiera della macchina, dopo essere stato con la ragazza a mangiare una pizza a Trastevere, venne ammazzato dagli agenti di una volante. Dissero d’averlo scambiato per un ladruncolo d’auto. Quanti modi di morire strani e stupidi… Dopo oltre vent’anni ho ritrovato la medesima edizione in una libreria di Trieste per dare al libro un più alto significato come lo stesso Nietzsche ammoniva: ‘Scrivi col sangue e scoprirai che il sangue è spirito’…
Hanno fucilato un poeta, raccolta di poesie, autore Robert Brasillach: una edizione di modesta fattura e in edizione latomica. Non ricordo perché ne fui attratto – coincidenza o destino? -; non ricordo perché l’acquistai; ricordo come andò perduto all’ultimo piano dell’Ulmstrasse, perdutosi come colei a cui l’avevo donato… E l’identificai con la libertà tanto che, pur avendone una nuova edizione in casa, non volli che mia madre lo portasse al colloquio del martedì. Trent’anni dopo, più o meno, convinsi l’editore del Settimo Sigillo a ristamparlo con mia introduzione e la correzione di diversi errori di traduzione. Il debito pagato a quel fratello che, allora, mi apparve più grande e che, reso immortale e immobile nella morte, sarebbe diventato il mio fratello più giovane. Sempre il più caro.
Nel libro di Paul Sérant Romanticismo fascista – edito nel 1971 e, a conferma della data, trovo in prima pagina il visto del direttore di Regina Coeli – viene riportato un episodio degli ultimi giorni della Parigi prima della liberazione. Un giovane della Milizia, deluso dal fallimento della Rivoluzione Nazionale di Vichy,
incontrando Robert Brasillach in un parco, ebbe a confidargli: ‘In fondo noi siamo degli anarco-fascisti’. Episodio questo che piacque tanto allo scrittore, deciso a restare nella capitale per poi consegnarsi, subire un ridicolo ed infame processo e finire al palo dei condannati a morte il 6 febbraio 1945, fotografia della madre sul cuore e sciarpa rossa al collo. Giovanissima promessa delle ‘lettere’ francesi egli esprime nei suoi romanzi, nei saggi, nelle opere di teatro così come nella gran parte degli articoli apparsi sulle riviste della collaborazione un senso profondo e immediato verso la giovinezza, l’amicizia, la gioia di vivere e la ricerca della felicità possibile. Sono queste ragioni inalienabili che il fascismo rappresenta proprio ai suoi occhi in una partecipazione ed esaltazione collettive. Non a caso Giano Accame lo definirà ‘il poeta dei balilla’. Ne La ruota del tempo, a mio parere superiore a I sette colori, il più noto e citato, forse anche perché nel terzo episodio, La notte di Toledo, vi ho ritrovato momenti magici vissuti intensamente nella carne e nel sentire, egli traduce così quanto la giovinezza consente, prima che la maturità s’imponga con i suoi riti i tanti compromessi e un certo grigiore di fondo: ‘Noi viviamo in quell’eminente dignità del provvisorio, che è così contraria alla concezione borghese della vita’. Se questo è fascismo – ed è fascismo -, non si tinge di un modo irridente e scanzonato che lo rende, nei modi e nei gesti, simile all’anarchismo?
incontrando Robert Brasillach in un parco, ebbe a confidargli: ‘In fondo noi siamo degli anarco-fascisti’. Episodio questo che piacque tanto allo scrittore, deciso a restare nella capitale per poi consegnarsi, subire un ridicolo ed infame processo e finire al palo dei condannati a morte il 6 febbraio 1945, fotografia della madre sul cuore e sciarpa rossa al collo. Giovanissima promessa delle ‘lettere’ francesi egli esprime nei suoi romanzi, nei saggi, nelle opere di teatro così come nella gran parte degli articoli apparsi sulle riviste della collaborazione un senso profondo e immediato verso la giovinezza, l’amicizia, la gioia di vivere e la ricerca della felicità possibile. Sono queste ragioni inalienabili che il fascismo rappresenta proprio ai suoi occhi in una partecipazione ed esaltazione collettive. Non a caso Giano Accame lo definirà ‘il poeta dei balilla’. Ne La ruota del tempo, a mio parere superiore a I sette colori, il più noto e citato, forse anche perché nel terzo episodio, La notte di Toledo, vi ho ritrovato momenti magici vissuti intensamente nella carne e nel sentire, egli traduce così quanto la giovinezza consente, prima che la maturità s’imponga con i suoi riti i tanti compromessi e un certo grigiore di fondo: ‘Noi viviamo in quell’eminente dignità del provvisorio, che è così contraria alla concezione borghese della vita’. Se questo è fascismo – ed è fascismo -, non si tinge di un modo irridente e scanzonato che lo rende, nei modi e nei gesti, simile all’anarchismo?
D’altronde basterà rileggersi Il nostro anteguerra, una sorta di riesame di quanto vissuto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, quando ha trent’anni, lo spartiacque tra la giovinezza e l’inizio dell’età adulta, come rileva in una parte de I sette colori. Da studente del prestigioso liceo Luigi il grande, rammenta, ‘leggevamo volentieri sia Le canard enchainé che L’Action Française… nutrivamo un grande disgusto per il mondo moderno – e qualche innata inclinazione per l’anarchia’. Nel giugno del ’39 esce Storia della guerra di Spagna, scritto con l’amico e cognato Maurice Bardéche, dove è evidente la scelta di campo dei due autori, ma Brasillach stima troppo il coraggio per non rendere omaggio anche a coloro che si collocano nella parte avversa. Ad esempio, a Barcellona, quando ‘gli anarco-sindacalisti catalani hanno raccolto gli operai e si sono riversati nelle strade’, facendo fallire il sollevamento delle truppe franchiste. E aggiunge: ‘…rappresenta una delle pagine più belle d’eroismo nella storia rivoluzionaria di tutti i tempi’.
Bene. Ancora una volta mi trovo a confidare nella bontà e pazienza di Ereticamente. Una terza parte non riesce ad essere conclusione. Non potevo, però, negare al ‘fascismo immenso e rosso’ il suo dovuto spazio e, con lui, a quel volto da adolescente troppo cresciuto e mai diventato adulto, incorniciato dagli occhiali dalla montatura rotonda e spessa, da quel sorriso con un fondo di tristezza quasi presago del tragico destino che l’avrebbe accolto al forte di Montrouge, con il plotone d’esecuzione composto da dodici bocche da fuoco avide del suo sangue. I cinque petali di rosa rossa… Alcuni anni fa mi fu chiesto di pensare ad una frase da imprimere sulla maglietta di giovani militanti. E mi venne a mente, senza esitazione, come definiva Brasillach i giovani che, fra le due guerre, avevano sposato ‘questo male del secolo: il fascismo’… Egli scriveva: ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’. Più icasticamente, ma in linea, amo dire ‘faccia al sole e in culo al mondo!’. E con questo vi saluto in attesa, vostra e mia, di quel Céline da cui saremmo dovuti procedere e circoscrivere…