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25 Marzo 2025
Storia delle scienze

L’ansia per la scoperta – Gianfranco V. Strazzanti

L’idea di un uomo, di un ricercatore scientifico e fisico puro, quale ad esempio Ettore Majorana, che decide di sottrarsi alla dimensione civile per entrare in incognito e da lì condurre ricerche alternative e poco remunerative rappresenta di per sé un’eccezione rispetto alla mentalità e logica più diffusa.

Ancora oggi, sono innumerevoli e più che mai operosi i camici bianchi disposti a dedicare la loro esistenza alle particelle atomiche, all’innesco di collisioni sub-atomiche, a condurre esperimenti al fine di ricreare le condizioni del big bang sulla terra. Si vedano le reazioni innescate nei sotterranei del CERN di Ginevra.

E le platee, ora reali ora mediatiche, seguono estasiate le loro imprese.

Molti sarebbero persino felici di saltare in aria pur di vedere riusciti gli esperimenti più audaci e la “scienza” finalmente trionfare sugli scettici, sui critici, su chiunque si ostini a negare le verità scaturite dal microscopio e le rivelazioni dell’ennesimo gran sacerdote della scienza, l’ennesimo incantatore di semplici.

La ragione ultima di tutto questo lavorio tecnico-scientifico rimane piuttosto fuligginosa.

I vantaggi pratici, almeno per le collettività e soprattutto per i poveri, difficilmente se non mai risultano chiari o dimostrati. Gli utili economici e la brama di visibilità di molti scienziati, invece, sono sempre più evidenti.

Un tempo, l’uomo di scienza si schermiva dietro un ostentato riserbo, prediligeva il confronto tra colleghi nelle aule universitarie oppure nei salotti ben riscaldati di esclusive società. Lo scienziato di oggi è invece sempre più spesso un piazzista. Non di rado lo si trova a berciare e mischiarsi in zuffe pubbliche per difendere ora quello ora quell’altro punto di vista.

Sempre più scienziati sono infatti parte in causa di operazioni ad un tempo commerciali e propagandistiche, che con la ricerca propriamente detta nulla hanno a che vedere.

In tale dinamica, la dinamica di operazioni condotte a scopi di manipolazione e lucro, le masse sono ormai completamente succubi di una divulgazione scientifica fatta di slogan, statistiche e, ovviamente, discriminazione e delegittimazione di chiunque osi dissentire, di quei pochi che si sforzano ancora di intuire e distinguere la ciancia dalla sostanza.

Nel Satyricon, si legge: «cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos» ovvero «quando è il momento di entrare nel foro, credono di essere piombati in un altro luogo del mondo»[1]. Nel capolavoro di Petronio, il riferimento è agli studenti che «si lasciano rimbecillire» dagli sproloqui degli oratori e sofisti del foro.

La situazione, oggi, non è molto diversa da quella descritta da Petronio.

Il foro si è fatto tele-visivo, digitale, interattivo, ma coloro che seguono estasiati i prodigi della scienza sembrano abbindolati alla stessa maniera degli studenti dei fori della Roma decadente.

****

Il normale rapporto tra ricerca e scoperta si è ormai invertito.

Le scoperte non vengono più presentate alla fine della ricerca; all’opposto, esse vengono spesso annunciate all’avvio della stessa, con gli immancabili giornalisti a suonare fanfare e cantare inni alla gioia per il radioso futuro, sempre promesso e mai avverato.

È dagli anni Settanta dello scorso secolo che si sente sproloquiare ai quattro venti di “primi insediamenti umani sulla luna”, “panacee contro qualsiasi malattia”, “energia nucleare a disposizione di tutti” etc.; eppure, passati cinquant’anni suonati, non solo non si vede traccia di quanto promesso, ma a nessuno viene in mente di chiedere conto di tutte le promesse fatte e mai mantenute.

Non che la scienza non abbia raggiunto esiti strabilianti; anzi, il mondo diventa sempre più “il suo” luna park privato, con le masse in balìa di macchine divenute troppo potenti e comode per farne a meno.

Anche questo è un dato di fatto.

Ma a quale costo? Per quanto impressionanti possano essere le scoperte scientifiche non si è ancora riusciti a sganciare la ricerca dagli interessi particolari degli stati, delle lobby, dei singoli.

La chimera non consiste tanto nel prodigio, che pure è sempre meno prodigioso di quanto ci si aspettava, quanto piuttosto nel beneficio collettivo, che non è mai tale.

In tutto ciò, le popolazioni spesso ignare di quanto si muove dietro le telecamere sono costrette a sorbirsi un profluvio mediatico di incessanti statistiche, dati, possibili risvolti, percentuali, sempre più spesso tese a nascondere l’unica e concreta percentuale che potrebbe veramente interessare loro, ovvero la percentuale di pericolosità connessa ai ritrovati scientifici.

È proprio in ciò che consiste l’aspetto losco delle attività sperimentali.

Chi potrebbe infatti mai pensare di modificare agenti virali, farne armi batteriologiche e strumenti di ricatto, se non individui completamente avulsi rispetto al resto dell’umanità? Soggetti avidi e dissociati dal contorno che li ospita, completamente irresponsabili rispetto alle conseguenze delle loro sperimentazioni?

Per nascondere questa realtà, sempre più sommersa e sempre più influente, i rappresentanti degli ambienti scientifici sono soliti, almeno in pubblico, assumere quel tono “oracolare” che ormai da tempo è il loro tratto distintivo; quell’inflessione nasale e saputa di molti ministri e agenti della ricerca scientifica, che appaiono solo per snocciolare qualche slogan che finge sapere tecnico e controllo assoluto della situazione.

Nel mentre, ai “profani”, agli «stranieri», come li chiamava Bacone nella Nuova Atlantide, non è concesso muovere dubbi, porre domande scomode.

Per sottrarre tali “oracoli” al chiarore rivelatorio di cui vengono ammantate certe scoperte scientifiche basta però comprendere la semplice dinamica sottesa alla loro pervasiva promozione. L’agente scientifico, il “celebrante” di ogni ricerca di laboratorio è infatti ormai da tempo dispensato dall’obbligo di scoprire qualcosa di utile. La sua primaria funzione è quella di accendere delle esigenze, dei desideri collettivi per poi fornire, a tempo debito, il prodotto capace di soddisfare gli stessi desideri instillati ad arte nella società.

Tale dinamica ruotante tra l’instillazione e la soddisfazione del desiderio è forse il congegno psicologico più potente tra quelli atti a ingabbiare le moltitudini.

Le nuove tirannie non fanno altro in effetti che mettere in pratica una sorta di rudimentale e deviata pedagogia, ma su larga scala.

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Una scienza che protegge, che garantisce e che preserva è dunque la scienza di successo.

Quanti sapranno mai capire che, a porte chiuse, quelli che lavorano agli antidoti, ammesso che siano tali, sono molto spesso gli stessi che lavorano a potenziare gli agenti virali?

La gran maggioranza delle persone «non sa il perché di tutto questo», come scrive Conrad, «ma è ormai convinta della sua importanza: perché la scienza è e resta il feticcio sacrosanto del giorno d’oggi»[2].

Quest’ansia per l’ennesima esilarante scoperta scientifica si è propagata nei secoli, ha conquistato cuori e menti, ha travalicato i confini delle proporzioni oggettive, per scoprire e inaugurare le nuove e allettanti Indie che si stagliano oltre il confine, reale o immaginato: oltre i nuclei atomici, oltre le allucinazioni digitali, nella commistione tra carni umane e sistemi informatici, nell’indistinzione tra generi sessuali, nella manipolazione delle materie prime e degli agenti climatici.

Ovunque è stata individuata una nuova frontiera da valicare, un più estremo occidente, un nuovo abominio da compiere.

Tale ansia, il credulo entusiasmo che essa produce, rappresenta di fatto l’anticamera psicologica per condurre mansuete le masse verso lo sterminio; sterminio delle loro anime, prima ancora che dei loro corpi.

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Le “conquiste” del sapere scientifico, le Americhe nascoste tra le particelle atomiche, sono la meta dei nuovi ammiragli in camice bianco pronti ad attraversare voraci e tempestosi oceani di elettroni e neutrini pur di giungere alla nuova grande rivelazione: ecco l’instabile e imprevedibile continente nel quale tutte le impossibilità divengono infine possibili.

Finora, però, i “miracoli” atomici hanno portato a ben altro.

Quand’era ancora oggetto di studio per fisici teorici e matematici puri, si poteva ricostruire il funzionamento dell’atomo e lasciarne inalterata l’armonia sottesa al suo nucleo e alle sue irradiazioni. Nella peggiore delle ipotesi, vi si poteva localizzare quella “potenza pensante” insita nella materia («Denkkraft der Materie») tramite la quale Weishaupt intese “illuminare gli illuminati”.

Ma l’uomo, sia pure un mostro d’intelligenza, è mediamente incapace di un tale proficuo distacco, di una tale estasiata contemplazione.

Infatti, per comprendere l’armonia atomica, egli ha percorso la via opposta, quella della reazione e della deflagrazione. L’ostinato ritorno alla ricerca della potenza esplosiva quindi dell’abominio è il contrassegno tipico dell’evo scientista. Un contrassegno evidentemente luciferino, quando non del tutto satanico.

Lo stesso Enrico Fermi intese scientemente sviluppare la radioattività in direzione della deflagrazione, dell’annientamento della realtà circostante. Per questo, si può facilmente riconoscere in lui il carattere tipico del mago nero, ovvero un’intelligenza e un intuito limitati, ma sufficienti a mettere in pratica i desiderata degli assassini al potere.

Perché brutale e assassino è colui che permette alle armi di agire oltre la soglia della stanza in cui dormono i bambini.

L’uomo è pronto a dannare la propria anima pur di risvegliare in fondo ad ogni cosa il demone della disintegrazione. Questo, sì, è ormai pienamente dimostrato.

Il potere, infatti, non vuole affatto alternative «senza pericoli». A ben vedere, le varie figure che si succedono al potere non chiedono altro che pericoli, perché è proprio ai rischi bellici che devono la loro capacità di ricatto, contro le proprie stesse popolazioni.

È facendo leva su tale potere, infatti, che il vigliacco prevale sull’indifeso.

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Pare che durante la missione lunare Apollo 17 del 1972, l’equipaggio del Saturn V prima di fare ritorno verso la terra, abbia sganciato il suo ultimo modulo contro la luna, e ciò allo scopo di provocarvi un sisma.

Un modulo dal peso di centinaia di tonnellate, lanciato a una velocità superiore ai 900 km orari sull’unico satellite della terra.

Che queste missioni sulla luna abbiano avuto luogo o meno è cosa del tutto irrilevante. Ciò che conta è che qualcuno, un ingegnere aerospaziale, uno scienziato oracolare, un astronomo egocentrico, abbia avuto l’idea, sia anche per una simulazione da trasmettere su milioni di televisori, di bombardare la luna.

Se c’è una costante insita nell’avanzamento tecnico-scientifico degli ultimi secoli, è che le fregole e le bizzarrie un tempo tipiche degli squilibrati siano divenute sempre più appannaggio dei saggi di una Casa di Salomone sempre più inquieta e delirante.

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Anche l’evo contemporaneo, che si vanta di aver concesso la conoscenza a tutti, ha le sue Indie nascoste. Tali Indie non sono più continenti o isole dalle alte scogliere e litorali corallini, ma si celano nell’atomico, nel subatomico, nel genotipo.

Ogni scienziato di fama si crede, almeno in potenza, un Colombo destinato ad aprire una nuova rotta.

Tale metafora, abusata e logora, viene solitamente intesa in senso ottimistico, migliorativo. All’opposto, le nuove rotte scientifiche hanno portato a stragi nucleari, a terrori virologici, a deliri genetici.

Le sofisticate caracche della scienza sembrano aver virato, irrimediabilmente, verso delle Indie viste in negativo. Non già lussureggianti litorali ricolmi di ricchezze e bellezze e varietà naturali mai viste prima, bensì terre erose e sterili, perché brutalizzate da abominevoli sperimentazioni scientifiche e belliche.

Le masse non sono al corrente della sotterranea guerra che si combatte per il predominio sulla manipolazione biologica. Esse sono stata indotte a pensare che ogni cosa venga fatta “per il loro bene”, che i prodigi delle scienze applicate elimineranno un giorno la malattia, la fame, la sofferenza e forse persino la morte.

Ma quanto più minuscole sono le entità studiate tanto più la massa è costretta a fidarsi a occhi chiusi della scienza che le studia.

La cosiddetta scienza ha infatti operato un inesorabile restringimento degli orizzonti del sapere, incanalando ogni energia e ogni attenzione verso l’osservabile, il tangibile, il manipolabile, e incidendo su tutto ciò che è astratto o intellettuale lo stigma dell’infamia e del sospetto.

Esistono forse gli enzimi del dubbio? il DNA delle intelligenze angeliche? gli atomi dell’intuito?

No, non esistono.

E, per lo zeitgeist contemporaneo, tutto ciò che non è tangibile in quanto manipolabile deve essere misconosciuto, ridicolizzato, criminalizzato, e così tutto ciò che non si pone “al servizio della scienza”.

Per questa via, una via delirante, il mondo è stato trasformato in un laboratorio nel quale né le sofferenze degli innocenti né i dubbi dagli accorti possono ricevere ascolto.

Lo si può ormai dire con certezza: non c’è nulla che la scienza non sia disposta a sacrificare sull’altare del “suo” progresso.

In questo senso, essa appare come la perfetta esecutrice di quei sacrifici umani che i contemporanei sono soliti attribuire a chissà quale civiltà antidiluviana.

Il vero scienziato, lo scienziato ben accetto dal proprio ordine e dalla propria comunità, crede fermamente che la scienza possa ogni cosa; che la scienza, più o meno sperimentale e comunque sempre remunerativa, sia inizio e fine di ogni sapere.

La stessa scienza moderna, cresciuta pervicacemente contro ogni idea tradizionale di Paradiso terrestre, vuole a sua volta imporre i propri “dogmi”. Quella dello scienziato di regime è infatti una nuova forma di sacerdozio: il laboratorio è il suo tempio; il microscopio, il suo tabernacolo; i fedeli, il pane del sacrificio.

Oltre il microscopio, si profilano già le nuove Indie, le Americhe, una nuova Atlantide, nella quale gli oppositori della scienza ufficiale, con i loro argomenti fondati, e quindi intollerabili, con il fastidioso chiarore delle loro coscienze orientate al bene, vengono perseguitati come indigeni inadatti alla nuova tirannia. Il genotipo finalmente trionfa incontrastato e tutto si tramuta in materiale da laboratorio: le remore etiche, gli slanci di empatia tra individui della stessa specie possono essere tramutati in fervore scientista.

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Quando gli scienziati iniziarono a sperimentare la fissione dell’atomo, la loro maggiore preoccupazione era quella di tenere sotto controllo la dinamica stessa della reazione; prendere dunque le dovute precauzioni affinché la scissione, con la sua reazione a catena, non debordasse dai limiti imposti all’esperimento, per coinvolgere l’intero laboratorio in una conflagrazione capace di frammentare come una zolla secca l’intero pianeta terra.

Se, come dice Verloc, «una bomba nella matematica pura»[3] è un’impossibilità, una bomba scaturita dalla matematica impura è invece non solo una possibilità, ma anche la più feroce delle armi che mano d’uomo potrà mai confezionare.

Da lì i moderatori, la grafite, l’acqua pesante e tutte le varie componenti immesse nelle prime pile atomiche.

La sperimentazione atomica è chiara dimostrazione del fine ultimo e reale della scienza ruotante sul polo cronometrico di Greenwich: sprigionare potenza, distorcere, frammentare, privare tutto della propria integrità.

Potenza che non si esprime solo in termini sperimentali e che non scaturisce solo dall’ambizione umana e personale. Nient’affatto. Si tratta di una potenza destinata a servire il potere; perché il potere la reclama per imporre un ricatto, una sopraffazione, una gerarchia.

In questo senso, scienza e potere sono tutt’uno.

Anzi, questa scienza non è altro che il braccio efferato del potere, il braccio che chiunque può afferrare per il collo, sbattere contro un muro e minacciare, con parole che non ammettono appello.

Basta ascoltare il discorso alla nazione di Harry Truman – quello proferito dopo lo sterminio di Hiroshima e Nagasaki – per averne una prova inequivocabile.

Truman delirava della «potenza che sta alla base dell’universo», una potenza sulla quale, molto modestamente, egli sembrava vantare una qualche esclusiva; nel mentre, lungo le banchine del Tamigi, George Orwell e i passanti suoi confidenti, iniziavano convintamente a pensare che sì, in fin dei conti, «si può anche parlare di un’arma che mette fine a una guerra in due giorni»[4].

Un’arma cioè capace di un eccidio che nulla ebbe di propriamente bellico e tutto di effettivamente criminale.

Tanto slancio, tanto entusiasmo per l’indiscriminato sterminio nucleare non era però immune da qualche scocciatura. Dopo Hiroshima e Nagasaki, sull’onda emotiva del discorso alla nazione del ben pettinato frammassone, la famigerata “comunità scientifica” si prodigò, infatti, per mettere in guardia le potenze mondiali, su tutte Stati Uniti e Unione Sovietica, dagli esiti nefasti a cui una corsa agli armamenti avrebbe portato.

Pare infatti che la vista degli effetti dell’esplosione atomica su due popolose città dell’Estremo Oriente abbia urtato le sensibilità di alcuni sacerdoti delle scienze applicate.

Ancora nel giugno del 1945, un gruppo di scienziati, tra cui il famoso Leo Szilard, scriveva un rapporto diretto al Ministro della Guerra statunitense. Alcuni passi di tale rapporto sono notevoli e almeno uno di essi va sotratto alla polvere dei libri dimenticati:

«Mentre, in passato, la scienza aveva fornito molti sistemi di protezione contro le nuove armi offensive da essa stessa create, oggi invece non può più garantire una protezione altrettanto efficace contro il potere distruttivo dell’energia atomica, poiché una tale protezione può essere assicurata soltanto da una nuova struttura politica del mondo»[5].

Prima dell’era atomica, la scienza si era dunque preoccupata di fornire «sistemi di protezione contro le nuove armi offensive da essa stessa create».

Basterebbe questo a far sospettare che una parte della cosiddetta comunità scientifica, quella più consapevole della propria efferatezza, si fosse per tempo assicurata un ruolo egemonico, offrendo non solo i pesi ma anche i contrappesi alle contrapposte brame di potere.

L’avvento della fissione atomica non scalfiva certo lo strapotere della scienza sperimentale; esso anzi lo aumentava; eppure, alcuni scienziati si sentivano in dovere di far presente alle autorità che, stavolta, al male dissepolto dalla sfera delle possibilità scientifiche non c’era un altro male da opporre.

Il male scatenato stavolta non conosceva (e non conosce) ostacoli.

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Da sempre, vi è un sottile equilibrio tra osservare e manipolare.

L’uomo può anche giungere all’osservazione della base elementare di ogni composto e rimanerne ammirato. Ma non appena intraprende la via del mago nero, cioè appena si propone di mettere ogni ritrovato al servizio della sua personale potenza e di coloro che lo foraggiano, ecco che gli elementi rispondono, rivelando la terribile possibilità del crimine, la brutale cancellazione di ogni innocenza.

****

Da quando gli scienziati lavorano sul nucleo molte cose sono cambiate.

La scienza, come la religione, vuole vantare “profeti”.

Albert Einstein, scienziato da tempo canonizzato, ebbe un certo peso sulla politica prima di ricevere gli onori del culto scientista. Fu lui, insieme all’amico Leo Szilard, a consigliare a Roosevelt, tramite una lettera, di intraprendere la strada dell’atomica.[6] Con quei baffoni bonari, dietro ai quali l’universo si riduceva a materia, energia e costanti, si sarebbe però pentito di aver auspicato una tale sperimentazione.

Nell’incantata Bensalem della teoria fisica, tutte le reazioni sono fascinose e avvincenti; quando però le stesse reazioni si producono nella realtà e mostrano il volto dell’abominio, ecco che sostenerne lo sguardo diviene molto più difficile.

Pochi sanno che Einstein si pentì e di cosa si pentì; ma quasi tutti sanno invece che si fece missionario della pace nel mondo.

Deve comunque fare un effetto piuttosto cocente: prima, auspicare la costruzione di un ordigno da rivolgere contro la Germania e, dopo, vederlo esplodere in Giappone. Dieci fusi orari e quasi novemila chilometri più a oriente.

Ma, frattanto, a Roosevelt era succeduto Truman, che meglio di Einstein conosceva la costante che sta alla base dell’universo: «A harnessing of the basic power of the universe», come disse nel suo delirante discorso alla nazione, dopo i boati apocalittici di Hiroshima e Nagasaki.

Gorgoglianti bambini dagli occhi a mandorla, donne solitarie nelle loro piccole capanne, anziani chini sulle spiagge spazzati via da un’esplosione inaudita, un’esplosione che rivelava al mondo un’intenzione diversa, un grado di brutalità ulteriore.

Ma il frammassone, puntiglioso fino all’irresponsabilità, conosceva bene «la potenza che sta alla base dell’universo», al punto di non necessitare alcuna formula matematica per esprimerla. Tale potenza gli apparve infatti nelle sembianze di un boia schizofrenico.

Un boia incappucciato, ovviamente.

Ecco a cosa giunsero le élite occidentali, in quel torno di tempo, pur di assicurarsi i loro sporchi privilegi e le loro sputacchianti vanaglorie: falsificare persino “la potenza” dell’universo, farla passare per una feroce deflagrazione senza proporzioni, distanze e misure.

Loro che di proporzioni, distanze e misure dovrebbero saperne più di tutti.

Ma si sa, ai sacrificatori spettano grandi onori, qui in basso. Propagatori di bombe e pesti varie che dopo, quando tutto è finito, assumono quell’aria costernata tipica di chi non avrebbe voluto ma ha dovuto

E che potevano fare, dopotutto?

Dopotutto eseguivano ordini, anche mentre credevano di darli…

Che amaro in bocca dev’essere. Eminenze grigie, preclari pontefici dell’impostura, per ritrovarsi poi un giorno rotti dalla vecchiaia, malaticci, smarriti per le strade di un paese di ombra e afflizione.

Passando, chi si accorge di loro?

 

NOTE

 

[1] Petronio, Satyricon I, 1, traduzione di G. A. Cibotto.

[2] Joseph Conrad, L’agente segreto, BUR, Milano, 1994, traduzione di B. Maffi, pp. 41-43 (originale: The Secret Agent, 1907).

[3] Ivi.

[4] George Orwell, Quattordicesima London Letter, «Partisan Review», Vol. XII, n.4, Autunno 1945, pp. 467-472 (472). Nella corrispondenza di guerra prodotta da Orwell per la rivista americana radicale «Partisan Review», emergono chiari elementi per comprendere il ruolo dell’autore di 1984 nel quadro dei servizi informativi inglesi durante gli anni della Seconda guerra mondiale; nonché la sua forte tendenza ad un certo maccartismo ante litteram (ma non troppo). Pare però che, in Italia, non ci sia molta voglia di mettere in discussione l’operato e il profilo di Orwell, neanche negli ambienti della cultura alternativa e complottista, che ne hanno fatto una sorta di mostro sacro e intoccabile. Chi scrive ha tradotto in italiano tutte le quindici London Letters ancora inedite in Italia in versione integrale, ma nessuno editore si è detto seriamente interessato. Per un’indagine approfondita del ruolo di Orwell nei servizi d’informazione inglesi tra gli anni Quaranta e Cinquanta, cfr. Gianfranco Vittorio Strazzanti, Distopia orwelliana e propaganda, pubblicato su questo sito il 2 dicembre 2023.

[5] M. Grodzins, E. Rabinowitch, L’età atomica, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 38.

[6] Lettera in realtà scritta con Leo Szilard del 2 agosto 1939 inviata a F. D. Roosevelt, in L’età atomica, cit., pp. 29-30.

 

 

In copertina: 16 luglio 1945: il fungo atomico del Trinity Test, in New Mexico.

 

L’ansia per la scoperta è tratto da Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.

L’opera integrale è gratuitamente disponibile al seguente link:

https://www.academia.edu/126814164/geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo

oppure

Geografia medievale e smarrimento contemporaneo

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