La destra di oggi ha perso il legame con lo spirito della vita. Quella di ieri ha avuto il torto di realizzare politiche impiegando l’autoreferenziale diritto alla forza. Entrambe nulla hanno e hanno avuto a che vedere con il cosiddetto pensiero di destra. Cosiddetto, in quanto da sempre abbinato a politiche conservatrici e prevaricatrici. Se c’è un abbinamento da fare o quantomeno da prediligere è quello con lo spirito della vita. Quello che non ha a che vedere con la narrazione progressista.
In un recente articolo, Marcello Veneziani scrive: “[…] molti autori della grande cultura di destra sono intraducibili in politica: autori come Julius Evola, Ernst Junger o Yukio Mishima non offrono sbocchi politici ma solitudini eroiche, passaggi al bosco, rifiuto della società di massa e del realismo politico”. (1)
Tutto vero, ma ad una condizione. Che l’attuale stato delle cose, la cultura del momento, squisitamente a sfondo materialista e meccanicista, venga data – o peggio, concepita – come definitivamente inamovibile. Una specie di Tina in campo culturale, o meglio esistenziale.
Capisco che non è piacevole sentirselo dire. Spero, e chiedo in merito, una lettura fenomenologica della mia affermazione.
Ma il punto non è per niente questa nota critica a Marcello Veneziani, uomo di spessore verso il quale non c’è in me alcun intento competitivo. Come potrebbe?
Il punto è che la concezione materialista e meccanicista, nonché scientista della storia, è suntzuanamente certamente da legittimare al fine di riconoscerne logica e ragioni. Ma non è la sola come pretende di essere. Peggio, come la vulgata, salvo eccezioni, intellighenzia inclusa, crede sia.
L’alternativa vedrebbe la presenza fattiva (“realismo politico”) anche dei tre intellettuali citati da Veneziani: Julius Evola, Ernst Junger, Yukio Mishima. Quantomeno del significato profondo del loro pensiero sull’uomo, la società e la vita.
La modalità meccanicista che domina i nostri pensieri, le nostre scelte e le politiche ha ragione d’essere in un tentativo razionale di organizzazione sociale. È una modalità eccellente in contesto amministrativo, ovvero per quelle situazioni nelle quali tutti sanno tutto, dalle regole, ai ruoli, alla semantica, allo scopo, alla verità. Campi chiusi insomma.
Estendere questa modalità logico-amministrativa al contesto relazionale aperto, ovvero intendere meccanicisticamente l’uomo, è all’origine di tutti gli equivoci, nonché di tutti gli attriti, malesseri, malattie, conflitti.
In ambito relazionale, come settorialmente diverse scuole psicoterapiche, didattiche, semantiche hanno già implicitamente riconosciuto, la realtà oggettiva – a sua volta figlia del dominio dell’immaginario da parte della logica e del materialismo – diviene un dannoso, inconsapevole dogma.
Secondo la formula che siamo universi diversi, in ogni persona ne vortica uno dal quale si estrae il necessario per definire la realtà. Definizione che rispetterà sempre la biografia che la elabora. A causa dell’incantesimo meccanicista, saranno tutte definizioni con tale matrice.
Emanciparsi da questo dna culturale, vederne i limiti, riconoscerne l’inopportunità se applicato in ambito relazionale, permette di riappropriarsi della vita, il cui ordine non è esauribile su un piano cartesiano, la cui infinità non può essere compressa in poche, seppure erudite, scatole logico-razionali.
Ed è qui che i tre autori e tutta la concezione sottile dell’uomo ha ragione d’essere presa in considerazione.
Quando, quanto e come sia possibile la decantazione di una concezione altra della realtà rispetto all’attuale – che accetta di buon grado di ridurre l’uomo a consumatore, a produttore, a merce, a elettore, a fenomeno economico, a replicante ideologico, pena la criminalizzazione e ghettizzazione, ad alienato, e ultimamente a futile, nonché neppure più sovrano del suo corpo, comunque sempre allineato e coperto in adunata sotto la bandiera del dirittismo e del politicamente corretto, meglio se individualista, edonista e votato all’opulenza – non è per nulla importante. Quest’uomo omologato, ormai virtuale come un videogioco, non sa cosa sia essere creativo, né che identità non corrisponde a una scelta, ma a una radice. Non sa che la sua formazione è destinata a essere funzionale a un sistema di valori che neppure sospetta possano essergli fatali. Non lo sa, ma il nichilismo con la sua carica mortificante incombe, così è contento perché va a sciare.
Che fare? Nulla che pretenda il risultato, sarebbe una modalità a sfondo produttivistico. È solo necessario essere sul pezzo. Operare per promuovere una cultura evolutiva nelle occasioni che la vita offre significa alzare al massimo il rischio di successo di una concezione umanistica della cultura, della politica, della vita. La sola idonea a superare l’obbrobrio del pil come indice del benessere di una comunità.
Come il terrazzamento di un intero versante, che avrebbe richiesto l’opera continuativa di più generazioni, non intimoriva il primo uomo che ne aveva avuto visione nonostante la fitta vegetazione, e non intimoriva neppure tutti coloro che lo avrebbero nel tempo realizzato, così, stando sul pezzo lo avevano portato a termine e la comunità ne avrebbe goduto.
Allo stesso modo, con pari dedizione e continuità, sarebbe da intendere il lavoro in corso per un cambiamento evolutivo di paradigma. Se i montanari dissodavano senza interruzione, noi lanceremo messaggi di deliberata bellezza nella bottiglia. Tra le onde, faremo semplicemente ciò che ogni naufrago dell’attuale mortifera burrasca politico-culturale non esiterebbe a fare, unendovi tutta l’energia che la sua visione di cambiamento richiede. Proprio come i montanari.
Tempestoso mare immondo, le cui paurose onde non sono che l’inerzia della vulgata non solo popolare, perché ora fanno corpo anche gli intellettuali. In cima ai marosi, spumeggianti di vuota vanità, troviamo le vaporizzate istituzioni, definitivamente separate da ciò di cui dovrebbero occuparsi. Per quanto riguarda la cosa pubblica, va riconosciuto all’arguto selettore capitalistico il nefasto merito di aver prodotto la sua razza capolavoro, non a caso ora sua cagna da guardia, chiamata Politica.
Viviamo così entro un catino di forzati guerrieri in lotta individual-civile. A pieno diritto, ci diamo da fare non nel rispetto dei vizi capitali, ma in quello del business is business che, all’opposto, li rinnega tutti. In suo nome, in nome di quel dio, possiamo arrivare a fare di tutto per la conquista della rampa che conduce al piano di sopra.
La dedizione per ascendere al palazzo di Babele può durare una vita. Non sospettiamo l’elevato rischio di finire con sorpresa dritti ad affacciarci infine al vuoto della perdizione esistenziale, sempre disponibile al di là dei cristalli.
Appena le opportunità ci offriranno la consapevolezza di aver dedicato anima e corpo – in senso stretto – ai valori effimeri, di un mondo che neanche Truman Burbank era stato bastato a dimostrarci che era fittizio, nel nero staremo precipitando.
Che altro sono le crescenti psicopatologie, bulimie e neoplasie, nonché i vari mitra scaricati a scuola, se non sintomi di quel precipitare nel vuoto di questa cultura?
Diversamente da quanto afferma Veneziani: “[…] solitudini eroiche, passaggi al bosco, rifiuto della società di massa e del realismo politico”, quei tre e molti altri, non certo ultimi né il Cristo né il Buddha, avrebbero motivo e ragione di non far parte della congrega socio-politica, per la realizzazione di un altro realismo politico. Oggi, da chi ne ha coscienza, perdentemente lasciato a nutrire l’utopia.
Se possiamo chiamare uomo compiuto la persona con le consapevolezze idonee alla sua emancipazione dalle ideologie, dai luoghi comuni, dall’attribuzione di responsabilità, dal vittimismo, dalla personalizzazione dei fenomeni, e così via, questo ha ragione di scaturire da una cultura che abbia incarnato in sé, e perciò mantenuto, il legame con il volume dal quale tutta la storia diviene. Platone lo chiamava iperuranio. In esso vi è già tutto. Soltanto l’uomo inconsapevole pensa perciò che la sua competenza logico-analitico-scientista possa portare alla verità, come la formula “in cerca della più piccola parte della materia” ben rappresenta. Quell’uomo è inetto a vedere nel suo fare il limitato campo in cui può sostenerlo e l’implicazione blasfema che comporta quando, come sempre accade, assurge a verità definitiva. Per spiegazioni, chiedere a Julius, Ernst e Yukio.
E già che siamo in tema di domande, chiediamoci anche quale tipo di politiche e di società metterebbe in essere l’uomo compiuto. Il terrazzamento non è un’utopia e se lo fosse la boscaglia sarebbe rimasta al suo posto.
Nota