10 Ottobre 2024
Onore ottosettembre Rsi

L’Aquila nel cuore

Dare voce a chi scelse dopo l’8 settembre di andare a combattere dalla “parte sbagliata”. Così concludevo la volta precedente il pezzo  che vuole essere un tributo a  persone che ho amato, Tommaso e Costanza appunto, ma non solo.  Dare voce a chi non cambiò casacca al cambiare del vento, non è cosa facile. O quanto meno non lo è cercare di far capire a chi legge che, per comprendere veramente,  bisogna superare  dei tabù culturali oltre che ideologici. Questo perché per anni ci è stato insegnato a scuola e abbiamo letto nei libri di storia che i giovani che si unirono a Mussolini nell’estremo tentativo di salvare l’onore d’Italia erano degli esaltati o vi furono costretti. Tommaso e Costanza, semplicemente due giovani innamorati, sposarono  la  causa del loro Paese e  non si arresero davanti alle difficoltà di quei giorni tristi.

Scrive Renzo De Felice:

“Molti di coloro che aderirono al Pfr e alla Rsi lo fecero mossi dal patriottismo, dal “senso dell’onore”, dal desiderio di riscattare l’Italia dal “tradimento” consumato dal re e da Badoglio, dal “rispetto” verso se stessi. […] Sentimenti che oggi possono apparire incomprensibili, assurdi, sbagliati, ma che allora furono condivisi da molti italiani. Da giovani cresciuti nel clima fascista e della guerra (e persino in famiglie non fasciste o antifasciste), ma anche da più anziani

Ci è stato inculcato negli anni  che l’Italia in quei giorni fu invasa dai Tedeschi. E’ un equivoco che va chiarito:i Tedeschi non invasero il nostro territorio, c’erano già. Dopo la caduta di Mussolini,  il governo Badoglio aveva chiesto aiuto all’alleata Germania per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e i tedeschi avevano combattuto  spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43 e, quando poi, con estrema disinvoltura il Re e Badoglio, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenarono l’ira di Hitler. Il maresciallo Badoglio, non solo aveva cambiato bandiera, ma non avendo ancora dichiarato guerra alla Germania, lo fece più di un mese dopo, aveva  trasformato i suoi uomini in traditori, agli occhi dell’alleato tedesco. Il feldmaresciallo Kesserling, interpretando un sentimento diffuso, si espresse in tal modo  con i suoi soldati: “il governo italiano, nel concludere alle nostre spalle l’armistizio con il nemico, ha commesso il più infame dei tradimenti… Le truppe italiane dovranno essere invitate a proseguire la lotta al nostro fianco appellandosi al loro onore, altrimenti dovranno essere disarmate senza alcun riguardo… Non vi è clemenza per i traditori!”

Il disarmo dei militari italiani avvenne all’insegna del tradimento. Ci furono coloro che scelsero di non scegliere, e solo di attendere senza agire la fine della guerra, cercando di sopravvivere e basta. Una zona grigia che non è riconducibile all’antifascismo e neppure alla resistenza. Si parla di circa 800.000 soldati che non accettando di combattere a fianco dei tedeschi, vennero fatti prigionieri, trasferiti via mare e via treno in Germania, in campi di lavoro, dove fu riservato loro un trattamento duramente punitivo. Internati Militari Italiani (italienische Militär-Internierte – IMI) fu il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati.

Apro una piccola parentesi per ricordare che il generale Borghese riuscì in quel terribile frangente, a sottrarre alla deportazione centinaia di uomini, fermandoli per la coscrizione nella X MAS. Arrivati in sede a chi non voleva realmente arruolarsi, venne consegnato regolare congedo e lasciapassare affinché potesse raggiungere la sua famiglia. Nel suo battaglione, il più eroico, combatterono solo volontari!

Gli IMI non sono stati, non tutti, un esempio di ignavia e di opportunismo, ma nemmeno un modello di resistenza e di consapevole antifascismo da  prendere a esempio. Più semplicemente, sono stati lo specchio del paese, nelle ore drammatiche del tradimento, lo specchio della crisi di una generazione, delle sue lacerazioni, del difficile e tormentato trapasso. Per questo motivo, di fronte alle giustificazioni che si vogliono  trovare a chi mancò il coraggio, cresce il valore di coloro che, al contrario, pur potendo aspettare che la tempesta passasse, non lo fecero e preferirono continuare a combattere a volto scoperto, in nome di quel senso di onore che oggi si fatica a comprendere, spesso consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni.

In quei giorni avvenimenti sconvolgenti si susseguivano senza sosta, il 17 settembre Mussolini, liberato dai tedeschi e condotto in Baviera,  proclamò attraverso Radio Monaco (un’emittente captata in buona parte dell’Italia settentrionale) la prossima costituzione del nuovo Stato fascista, che riprendeva il programma dei Fasci italiani di combattimento del 1919, richiamandosi a Mazzini e cercando nelle  origini i contenuti repubblicani e socialisti.  La Repubblica Sociale Italiana, fu formalizzata il giorno 23, con la  riunione del primo Governo a Roma. La nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito “lealista” cui aderirono in 600.000, secondo uno studio di Silvio Bertoldi, frenò i propositi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale e la deportazione di tutto l’esercito italiano.

Tommaso e Costanza avevano vissuto con ansia le vicende dell’arresto di Mussolini, della sua prigionia, quando fu loro annunciata l’avvenuta liberazione da Campo Imperatore a opera degli alleati tedeschi per loro si rianimarono le speranze e aderirono con fermezza alla nuova Repubblica Sociale fondata dall’uomo in cui credevano e di cui si fidavano. Costanza amava raccontare come un’avventura quello che fu il suo primo viaggio fuori dalle mura romane. Ricordava con occhi velati di nostalgia la sosta che, durante il viaggio, fecero a Perugia. La sua prima volta in una stanza di albergo, e chissà (ce lo siamo sempre chiesto) la prima volta sola col suo uomo.

Francesco Maria Barracu, già presidente del Fascio della Sardegna (PNF), dopo l’8 settembre rimase  fedele a  Mussolini e partecipò alla fondazione della Repubblica Sociale Italiana. Nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ebbe notevole ruolo sul trasferimento al nord dei funzionari dei ministeri e nell’organizzazione dell’amministrazione repubblicana.  Materialmente fu un funzionario del Comando tedesco della comunicazione, il direttore generale delle ferrovie germaniche Huber, a coordinare da Roma, nell’ottobre 1943, il trasferimento al nord dei ministeri fascisti.  A piazza della Croce Rossa, presso il Ministero delle Comunicazioni, Huber, assistito da un funzionario per ogni ministero, predispose i treni-passeggeri sui quali sarebbero saliti i funzionari con le loro famiglie  e soprattutto allestì i vagoni-merci per il trasporto degli archivi. Ogni funzionario fu invitato a portare con sé l’essenziale: un solo bagaglio a mano per 8 giorni e viveri per 48 ore. Il resto sarebbe seguito sui treni merci. Si lavorò alacremente perché le disposizioni erano che l’operazione – ministeri ed enti – andava conclusa entro il 15 ottobre. Meticolosa cura fu dedicata al trasferimento degli archivi, impresa che richiese energie particolari di precisione e competenza. Funzionari esperti furono inviati in ricognizione al Nord per selezionare le sedi e rendersi conto delle difficoltà logistiche per le nuove sistemazioni all’arrivo.

Edoardo Moroni, già Presidente della Federazione Italiana Consorzi Agrari a Roma, fu il Ministro dell’Agricoltura e Foreste della RSI che, col suo trasferimento condusse  Tommaso e Costanza al nord. Il suo dicastero ebbe sede inizialmente a Treviso, loro insieme ad altri dipendenti presero casa a Oderzo, un paese vicino alla città veneta. In seguito al  grande bombardamento  avvenuto nell’aprile del 1944, da parte degli aerei americani che distrusse buona parte degli edifici cittadini e fece circa 1000 vittime fra i civili,  il Ministero venne spostato a San Pellegrino Terme, in provincia di Bergamo. Ne conseguì che  alcuni fra i  dipendenti si trasferirono a Tagliuno, frazione di Castelli Calepio. Dopo una frugale cerimonia, Tommaso e Costanza iniziarono qui la loro vita comune, da coppia finalmente sposata. Erano felici nonostante tutto, nonostante la guerra, la lontananza dalle loro case, la difficoltà della vita di ogni giorno e il pericolo che aumentava col passare dei mesi di cadere in qualche imboscata o di rimanere sotto le macerie dei sempre più frequenti bombardamenti. Tommaso, nella sua caserma della Milizia Forestale, fu milite addetto alla mensa, in maniera specifica incaricato degli approvvigionamenti. Ogni giorno usciva  e doveva convincere i contadini delle campagne e delle colline circostanti   a vendergli qualcosa che servisse a sfamare la truppa.  Il suo carattere allegro e “compagnone” fece sì che si creasse buone amicizie fra gli introversi e ostili abitanti del luogo,  riuscì a vincere la diffidenza di molti  che li vedevano  proprio loro, i più italiani di tutti, come estranei e invasori. Lui chiedeva, senza pretendere, pagava bene e spesso raccoglieva le confidenze dei contadini che gli raccontavano di essere vittime delle razzie che “gli sbandati” compivano nelle loro stalle e nei loro pollai. Così chi si dichiarava disposto a fornire i suoi prodotti all’esercito, veniva, per sua iniziativa, in qualche modo protetto. Dopo la guerra, ricordando quel periodo, raccontava ridendo che lui stesso rimaneva,  a volte, a far di guardia la notte a un  pollaio con “dentro il suo pranzo del giorno dopo”. Questo rapporto privilegiato, in special modo  con alcuni coloni  del bergamasco gli servì in seguito per salvare se stesso e la sua famiglia dalla furia cieca dei partigiani. Costanza invece continuava a lavorare all’ufficio ministeriale, raggiungendone  ogni mattina la sede con la sua sgangherata bicicletta, lo fece per mesi, fino al giorno in cui si accorse di aspettare il suo primo figlio. Potè usufruire in quel periodo delle garanzie  previste da una delle Leggi sociali più all’avanguardia  la “tutela della maternità” legge n. 1347 del 5 luglio 1934. Godendo, fin dai primi mesi, causa la sede disagiata e il pericolo oggettivo che correva per recarsi al lavoro, di assentarsi  fin dalla sesta settimana. In realtà i sacrifici affrontati in quel periodo furono più dettati dalle conseguenze della guerra, dai bombardamenti, dalla mancanza di materie prime,   che non dallo scontro coi movimenti “di liberazione” come si  vorrebbe far credere.

“Guerra non significa solo combattimento, significa anche una lunga serie, a volte massacrante, a volte spossante, di rinunce silenziose, di sacrifici quotidiani privi di importanza. Dunque la virtù si forgia nel medesimo modo. Le privazioni, l’attesa umile e sterile di fronte alla morte, il servizio durante il quale, lontano da ogni clamore, si gioca la vita in mezzo a campi e boschi sconosciuti… uomini che non conosceranno la gloria strepitosa e che, se non moriranno, torneranno nei loro paesi col volto chiuso, le labbra serrate, perché non verrebbe compreso di quanti strazi e di quante rinunzie si sia composto il loro oscuro eroismo…” Lèon Degrelle.

Gli Italiani sono stati ubriacati di bugie in merito  alla “resistenza”, ma chi era sul posto, chi ha vissuto personalmente quelle ore sapeva  perfettamente che fino alla primavera del ’45, le  unità partigiane (almeno lontano dalla linea gotica) erano sparute e poco attive, soprattutto durante il freddo e lungo inverno del 1944. Il numero dei partigiani scesi in armi, solo a liberazione avvenuta, aumentò fino a quattro o cinque volte rispetto a  quelli realmente operanti nel territorio. La favola degli antifascisti autentici che si opposero al regime prima e alla repubblica sociale poi si è arricchita negli anni di episodi di eroismo e di stoica resistenza, ma furono pochi coloro che nella realtà,  si batterono armi in pugno per la libertà e la democrazia di cui tutti si sono riempiti la bocca negli anni a venire.

Nel gennaio del 1945 in pieno inverno, vide la luce il primo figlio di Tommaso e Costanza, la loro gioia, toccò il culmine e battezzarono il  bambino Roberto, Romano, Italo. Tre nomi che testimoniavano la loro incrollabile fede nell’idea e nella scelta fatta fino a morire, se necessario, per i loro ideali, nelle ultime Termopili d’Italia.

(continua)

Franca Poli

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