di Mario M. Merlino
Al suono dello shamisen gli attori, rigorosamente tutti uomini (noti con il nome di onnagata che tanto impressionarono il futuro scrittore Mishima Yukio quando, ancora ragazzino, vi accompagnava la nonna), si muovono sul palcoscenico in una rappresentazione del teatro kabuki (ka il canto, bu la danza ki l’abilità). Fin dal XVI secolo. Una giovane, in kimono a fiori dai colori delicati e un vermiglio obi a stringerle la vita, suona sulle tre corde che le dita fanno vibrare emettendo suoni particolari, in apparenza con assoluta disarmonia per l’orecchio di un occidentale educato alla musica sinfonica di Bach e Beethoven.
Le complicazioni esistenziali di Amleto, le pallide ombre di sogno, sono bandite e ad Antonio si nega il sottile gioco dell’ironia indicando Bruto in un uomo d’onore per suscitare l’ira della plebe contro gli assassini di Cesare. La perfezione della forma si risolve tutta nel particolare, movenze e gesti, nella semplicità della trama, mentre le metafisiche aspirazioni non ricevono accoglienza. Francoforte sul Meno in piazza del Rathaus a metà degli anni ’60.
Ci si è chiesti se nella cultura nipponica vi siano tracce della filosofia fino a negarne la presenza perché, nella lingua originaria, non vi è traccia di un termine equivalente.
Dall’epoca Meiji, verso la fine del XIX secolo, fu introdotta, sulla spinta della politica di apertura verso l’esterno, la parola tetsugaku che, grosso modo, può tradursi come ‘amore per la saggezza’. E, ad esempio, lo studioso Giangiorgio Pasqualotto, professore all’Università di Padova, s’è adoperato per evidenziare ‘il gusto di comparare pensiero orientale e pensiero occidentale ha prodotto una vicenda curiosa, nella quale le origini vantano esponenti illustrissimi ma più o meno gravemente affetti da supponenza eurocentrica, mentre i più recenti contributi (…) non possono vantare alcun vigore teoretico’.
Tra le due guerre, come molti suoi connazionali, per anni il conte Shuzo Kuki soggiornò in Europa, interessandosi soprattutto della filosofia e divenendo attento conoscitore di Bergson e, in particolare, di Martin Heidegger di cui aveva seguito le lezioni. Nel 1953 il filosofo tedesco lo ricorda nel saggio, sotto forma di dialogo, dal titolo Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio dove i protagonisti sono proprio un giapponese e un interrogante. Dialogo che si apre in ricordo dello scomparso Shuzo Kuki, morto all’età di cinquantatre anni e sepolto nel giardino del tempio di Kyoto – ‘il giardino fu fondato, come luogo di raccoglimento e meditazione, sul finire del dodicesimo secolo, dal sacerdote Honen, sul colle che cinge ad oriente Kyoto, a quel tempo città imperiale’.
Il dialogo prende le mosse dall’opera, apparsa negli anni Trenta, dal titolo La struttura dell’Iki e che, nel 1992, l’Adelphi pubblicò in italiano (libro che, temo, sia andato disperso con il trasloco del 2009 insieme agli altri, due o trecento, finiti in varie direzioni). ‘Tutto il suo meditare era volto a ciò che i giapponesi dicono Iki. – Mai mi riuscì, nei colloqui con Kuki, di intuire il senso di questa parola, se non vagamente, come di lontano. – Il conte Kuki, dopo il suo ritorno dall’Europa, tenne in Kyoto delle lezioni sull’estetica dell’arte e della poesia giapponese. Queste sono state raccolte e pubblicate in volume. Il tentativo di Kuki è quello di indagare l’essenza dell’arte giapponese con l’ausilio dell’estetica europea’.
Abbandoniamo l’opera di Heidegger volta ad indagare sul linguaggio dopo quella che è stata definita ‘la svolta’ (die Kehre) del suo pensiero. Non più tentare di definire l’Essere, di cui il linguaggio sembra essere impedito, ma e se esso si esprime attraverso la parola (quel ‘parlare è ascoltare’)…
Come è uso con gli ideogrammi la traduzione si apre a molteplici sensi, in questo caso il più ricorrente vede l’Iki tradotto con il termine ‘stile’ (in origine presso le cortigiane imperiali). Esso si manifesta, come l’autore ce lo propone, nel triplice aspetto di seduzione inquietante – di forza interiore che preserva la distanza – di volontario abbandono alla passione come rito legato alla sensualità dei gesti. E questa triplice definizione ha un preciso rimando alla tradizione scintoista dove si narra che la divinità del sole, la dea Amaterasu, ha donato quali simboli imperiali il gioiello (o pettine), cioè la bellezza della seduzione, la spada quale simbolo del mantenere il distacco, lo specchio che equivale alla contemplazione.
Se la ricerca di Kuki è verso una definizione di estetica, essa però non si risolve nel mondo concettuale, quell’universale e necessario così tipico dell’Occidente partendo da Platone (ecco perché Heidegger può mettere in dubbio la praticabilità di tale strumento in una cultura estranea a quella europea). L’armonia delle forme si esprime all’interno del quotidiano e investe ogni forma rappresentativa (ad esempio privilegiando il bambù al legno, contrapposizione tra lievità e consistenza, oppure nella scelta di colori tenui e di linee verticali nell’abbigliamento, come pioggia lieve o fronde di salice). Ciò spiega la complessità della cerimonia del tè (cha no yu), l’arte di comporre i fiori (l’ikebana) o di piegare la carta (l’origami) e tutto un insieme di gesti in cui il segreto dell’animo si cela e al corpo si concede il disegnare la cura e la bellezza. Insomma – e, qui, esplicito è il riconoscimento da parte del pensatore ted
esco – l’Essere del filosofo si armonizza con l’essenza orientale del Vuoto. Un Vuoto tanto simile al Nulla dove entrambi possiedono una precisa consistenza. E ritrovare Nietzsche nello Zen non sarebbe poi tanto arbitrario…
esco – l’Essere del filosofo si armonizza con l’essenza orientale del Vuoto. Un Vuoto tanto simile al Nulla dove entrambi possiedono una precisa consistenza. E ritrovare Nietzsche nello Zen non sarebbe poi tanto arbitrario…