Il dialogo è un’arte difficile. Il suo scopo apparente è quello di comunicarsi qualcosa. È un interrogarsi e un rispondersi la cui natura trascende tuttavia il semplice scambio di informazioni e conoscenze. L’oggetto del dialogo è in fondo il dialogante stesso, la sua posizione nel mondo, la sua visione della vita. Perciò il dialogo vira naturalmente verso i toni del filosofico, del morale, dell’esistenziale. Nel dialogo c’è sempre un certo rivelarsi, mettere a nudo le proprie radici, un certo confessare o portar testimonianza di sé stessi.
L’arte del dialogo sembra oggi consistere nel mediare tra le diverse posizioni, prevenendo l’insorgere di conflitti e portando gli interlocutori a un’intesa pacifica. In un mondo come il nostro, segnato dalle cicatrici di infinite violenze, dialogare appare ormai un dovere, un’essenziale profilassi. Per questo si pianificano incontri interpersonali, interculturali, interreligiosi, in cui “ci si apre al dialogo”, “si ascoltano le ragioni dell’altro”, “si fa un percorso comune”, “si superano le barriere ideologiche” ecc., secondo le formule di un reciproco e indefettibile rispetto.
Ma, nonostante i reciproci sorrisi, gli abbracci e le calorose strette di mano, se giudichiamo dai risultati potremmo dedurne che i dialoganti difettino di una tecnica efficace o che il dialogo non sia che una maschera gentile posta sul conflitto. Se dunque ce ne manca il dono naturale, da chi potremo imparare un’arte tanto necessaria?
Una prima fondamentale lezione, mi pare, ci viene dai discorsi socratici. Sfortunatamente, i dialoghi di Platone hanno insegnato all’Occidente l’arte della sublime prolissità. Lo confesso, mi annoia la petulanza di Socrate, quest’arte maieutica di tirar col forcipe i pensieri per farli venir al mondo, implacabile opera di persuasione cui l’interlocutore è costretto a cedere per sfinimento.
Trovo logorante questo inerpicarsi tra i rovi di obiezioni e tortuosi ragionamenti, spinti dall’ironia socratica. Whitehead diceva che tutta la filosofia occidentale è una nota a piè di pagina del pensiero platonico. Sarà dunque colpa di Platone se non posso attardarmi sui dialoghi dei nostri grandi filosofi senza avvertire un’indigesta pesantezza.
Questo mi attirerà l’anatema di chi è imbevuto di cultura classica, di chi ama quei colti e raffinati argomenti umanistici che Lutero, con formula felice, definiva “camminare sugli spilli”. Io stesso ho cercato diletto e profitto in queste letture. Ma oggi, quando ne scorro le pagine, sento uscirne l’alito freddo del tedio, il fastidio di una pedantesca pedagogia.
Dialogare, idealmente, dovrebbe favorire l’incontro di due cuori, un’armoniosa polifonia di intelligenze. Ma, di fatto, si traduce in genere nel tentativo di esibire e imporre argomenti. Sotto il galateo della garbata dialettica s’agita una guerra tra opinioni, camuffata, come oggi è d’uso, da missione di pace. Conflitto vano, che mette l’un contro l’altro i fantasmi della mente. Logomachie che stimolano a snudare e affilare i concetti come armi, o a compaginarli perché resistano agli attacchi del nemico.
Son dunque forme del Pòlemos, della Contesa. Ma è un conflitto sterile, padre di nulla. Se le vittime di Socrate infine capitolano e si arrendono, nei nostri pseudo-dialoghi restiamo convinti solo dalle nostre ragioni. Tutto finisce in una formale patta in cui, per obbedire alla rituale tolleranza democratica, ognuno dichiara di rispettare idee che disprezza.
Del resto, se qualcuno mi contraddice, non posso sperare che i miei pensieri fraternizzino coi suoi. Anzi, trovo insensato questo rispettare a priori le ragioni dell’altro. Le rispetterei se le trovassi rispettabili. Ma dovrei allora trovar disprezzabili le mie, che son contrarie. E non mi va di conciliare “A è bianco” con “A è nero” trovando grigi compromessi o qualche illusoria coincidenza degli opposti.
La frase falsamente attribuita a Voltaire, «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire», è pura enfasi retorica, senza alcun valore. Di fatto, nessuno è disposto a sacrificarsi per una tolleranza così ipocrita e vuota. Dovrei diventare un martire della libertà d’espressione per permettere a qualcuno di dire cose false, stupide o volgari? Credo piuttosto che la censura sia in tali casi un ottimo strumento di civiltà. Peccato sia esercitata proprio da coloro che dicono cose false ecc.
Il dialogo tra ‘punti di vista’ lontani può forse tracciare una linea che geometricamente li unisce, ma non li avvicina. Alla fine, per difendersi da interferenze esterne, il nostro sistema intellettuale tende a chiudersi e a ricreare la sua omeostasi scartando tutto quello che minaccia la sua stabilità. Perché un punto di vista nuovo possa far breccia e insinuarsi in me deve possedere un’evidenza obiettiva. Ma un punto di vista non è mai obiettivo.
Se ammetto nel serraglio della mente nuove concubine, ovvero nuove idee, è perché in qualche modo mi ricordano quelle che già vi son rinchiuse e con le quali ho da tempo un’amorosa relazione. Può essere il colore degli occhi o dei capelli, un certo modo di sorridere, di muoversi, o l’accento caratteristico. Le accolgo tra le mie favorite come inseguendo un inconscio modello. Ad altre idee potrei forse trovare un impiego, non certo amarle.
Il principio dialogico caro a Buber è una teoria buona come colla per tener insieme un Io e un Tu ideali, ma non funziona, se non in casi rarissimi, tra l’io e il tu dei reali incontri quotidiani. Più che amore, fra due comuni dialoganti troverai il desiderio di piegare l’altro alle proprie idee, quel desiderio di ottener ragione che è antitesi di ogni dialogo, “modo di procedere della naturale prepotenza umana”. Del resto, in un mondo crudelmente evolutivo, in cui si sopravvive sbranandosi e lottando, perché le idee non dovrebbero fare altrettanto? Questi dialoghi ci procurano quindi un’ansia sottile, di divorare o d’esser divorati.
Tuttavia, un civile confronto esclude le aggressioni esplicite. Perciò la violenza deve ripiegare su forme simboliche. Per demolire gli argomenti altrui si usa in genere la critica costruttiva. La prontezza di spirito è qui fondamentale. Infatti capita spesso che la critica ‘giusta’, che avrebbe ridotto all’impotenza l’avversario, ci venga in mente solo il giorno dopo. Modo postumo e frustrante di godere della propria superiorità.
Da parte mia, non m’interessa aver ragione o convincere qualcuno. Anzi, son pronto ad ammettere d’aver torto, se qualcuno me ne persuade. Su questioni piccine m’è spesso toccato, ma non ancora su alcuni principi fondamentali. Non perché li ritenga infallibili. Anzi, son consapevole della futilità di ogni mia opinione. Ma vi sono alcune certezze che vengon prima delle opinioni, necessarie come il respiro e il battito del cuore.
Mi è impossibile dialogare con chi nega le mie convinzioni profonde, con chi non vede il bello e il vero dove io li vedo. Sarebbe come giocare a briscola con chi applica regole diverse dalle mie e dà alle varie carte un altro valore. Come potrebbero dialogare un buon cristiano e un ateo incallito, chi ama Bach e chi lo trova noioso? E a quale scopo? Sono dialoghi senza senso, strade che corrono parallele senza incontrarsi mai e che alienano gli uomini. Due voci registrate e riprodotte da due nastri diversi avrebbero le stesse probabilità di capirsi.
Questi pseudo-dialoghi li lascio ai politici e ai ruffiani. Per come la vedo io, l’unico vero dialogo è tra chi la pensa in modo simile. Superficialmente può sembrare un pleonastico riflettersi nell’altro. Ma se guardi bene è un contrappunto armonioso, il ritrovarsi in un pensiero simile al tuo ma che ti mostra sfumature diverse, illumina angoli riposti, offre correzioni, integrazioni e maggior profondità.
Quindi, è assurdo fare del dialogo un altro dovere morale, aggiungendolo ai compiti già numerosi e ingrati che la società ci infligge. Il dialogo è co-spirazione di spiriti, cioè il loro respirare insieme con ritmo uguale. È complicità tra anime dotate di una medesima sensibilità e di una comune visione della vita. La cornacchia non fa cra cra per essere capita da un usignolo, ma sperando che un’altra cornacchia le risponda. Il dialogo è sollievo allo spaesamento, ovvero trovare in un paese straniero qualcuno che parla la tua lingua. È quella storia zen dove si narra di due amici. Uno suona l’arpa cercando di evocare i vari suoni della natura e l’altro li riconosce con immediata empatia. Quando il secondo muore, il primo strappa le corde alla sua arpa e ammutolisce.
Dialogare è scambiarsi battute di spirito. In fondo, condividere il nostro sense of life è difficile quanto condividere il nostro sense of humor. Stai per raccontare una storiella e c’è chi ti raggela, “ah, la conosco già”. C’è chi ti ascolta e ride, fingendo d’aver capito, e ride ancora raccontando la tua battuta ad altri, senza capirla mai. C’è chi resta serio e perplesso: “nec ridere, nec lugere, sed intelligere”. Forse analizzerà la tua battuta cercandone il significato, vi aggiungerà illuminanti commenti, e leggendoli nessuno riderà.
Quando Buddha sollevò il fiore solo Mahākāśyapa comprese e sorrise. Forse gli altri vi ragionarono sopra. Così è il senso della vita. Ti deve prender di sorpresa. Questo è l’errore di chi riflette troppo. Non vuol essere stupito, colto alla sprovvista. Non lo diverte l’incantesimo del mago, ma cerca di scoprirne il trucco. Così smarrisce ogni meraviglia. Si priva di quel piacere castamente erotico che solo un vero dialogo può dare.
Il dialogo è lo stupore di trovarsi tra anime gemelle, unite da una comprensione immediata. Questo ne fa una danza, pas de deux che è una piccola estasi e spesso rende inutili le parole. I discorsi non dicono più di un caldo e pacificato silenzio. Tra anime dissimili, ogni sforzo per capirsi scava invece un solco sempre più profondo, rende goffi e affettati i movimenti, crea una dolorosa aritmia dei cuori.
Secondo un frusto luogo comune il dialogo è occasione di accrescimento reciproco. Questa è mentalità da bottegai, che in ogni cosa cercano il loro tornaconto. Il vero dialogo non cerca alcun profitto, neppure spirituale. Non vuole imparare o insegnare, non ha uno scopo. L’idea d’esser costruttivo non lo sfiora nemmeno. Chi dialoga condivide spontaneamente una ricchezza inutile e preziosa. Una sorta di reciproca e involontaria auto-chiarificazione.
Nel dialogo è racchiuso il segreto della vita. Lo spirito si manifesta a sé stesso, si cerca, gode nell’esprimersi e nel capirsi. Perciò tende a creare circoli ermeneutici in cui specchiarsi e comprendersi. Il custode dei luoghi comuni vi vedrà una sorta di narcisismo autoreferenziale, cui opporrà il confronto che arricchisce, la prassi dell’illusione dialogica, quei miti dell’illimitata apertura e ospitalità che portano in realtà all’omologazione e all’indifferenza.
È vero invece che proprio questo essere specchi, vuoto accogliente di immagini, è l’essenza del dialogo. Il Sé si ritira e lascia spazio al Noi. Questo ritirarsi non è un arrendersi agli argomenti dell’altro ma un reciproco e fiducioso lasciarsi andare. Si crea una risonanza simpatica, una reciproca attrazione tra pensieri. Non è l’accordo forzoso delle voci di un dialogo volontario, ma una Stimmung naturale, confluire di idee e sentimenti nell’esperienza dell’intendersi. Il resto è predica, polemica, chiacchiericcio.
Si potrebbe obiettare che limitando lo spazio del dialogo ai propri simili viene a mancare quell’impulso che nasce dalla tensione dei contrari e trae nuova fiamma dal loro attrito. Ma, da un lato, la vita stessa ci impedisce di fuggire gli scontri. Dall’altro, l’autenticità e la profondità di un dialogo può a volte turbarci e sconvolgerci più di un conflitto, smuovere forze sepolte, rivelandoci a noi stessi. Nel vero dialogo si supera quel bisogno di mentire che è tanto potente nell’uomo.
Se esiste un’arte del dialogo sta quindi nel parlare solo con chi ha idee intonate alle nostre. È un’arte senza artifici, che richiede solo un sicuro istinto nel discriminare i propri interlocutori. Arte quindi aristocratica, nobilmente razzista e settaria, anti-ecumenica e anti-democratica. Lo straniero, il diverso, ne sono rigorosamente esclusi. Ma anche arte autenticamente liberale, che non tollera alcun pensiero dominante.
È l’arte di chi sa tollerare la sua solitudine e non vi applica come rimedio l’impiastro di dialoghi fittizi, di amicizie e intimità apparenti. Di chi sa aspettare che sbocci da sé, come una grazia, il fiore di un vero dialogo. Chi cerca il dialogo, lo vuole, ne fa un obiettivo, lo uccide. A questa regola non vi sono eccezioni.
Dialogare rivela l’essenza dell’uomo. Mostra il suo bisogno di dimorare in un luogo dell’essere, come in una casa. Ma non possiamo restare aggrappati alla tela di ragno dei nostri pensieri. Dobbiamo intrecciare con altri i nostri i fili. Il dialogo è questo abitare insieme, anche se per poco, aprire ad altri la propria casa.
Il vero dialogo è disarmante. Sentendosi tra amici l’anima placa i suoi conflitti, si alleggerisce e liberamente s’invola. Con-versare diventa allora versare insieme qualcosa in questo vuoto incolmabile che è la vita. Perciò l’arte del dialogo ricorda quell’arte d’amare di cui pochissimi conoscono il segreto.
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