Posseduto da un’ira furibonda che lo fa sragionare, rendendolo un po’ tonto, il Minotauro domina il XII canto dell’Inferno dantesco. Come la guerra questo ibrido ha trascorso la vita nutrendosi di carne umana, mentre adesso odia l’universo intero. Si scaglia persino contro Dante scambiandolo per Teseo, il suo assassino, e quando Virgilio gli dice che si sta sbagliando viene assalito da un attacco di furore bestiale ancora più violento dei precedenti, prontamente colto dai due poeti per svignarsela: “vid’io lo Minotauro far cotale; / e quello accorto gridò: «Corri al varco: / mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale” (Inferno, canto XII, 25-27).
Simbolo della furia omicida che infesta il mondo, il Minotauro è il guardiano ideale dell’eterna rovina dell’umanità, cioè dell’aspetto multiforme della guerra. Guerre di una notte, di una settimana, di cento anni, tutte punteggiate di vittorie e sconfitte, propaganda ed esaltazione, massacri e ricostruzioni. Le guerre sono per gli uomini come i topi di Camus che ogni tanto si appisolano, ma basta un fruscio per risvegliarli e rimetterli in marcia con il loro strascico di topi morti, preludio dell’ennesima rovina.
Eppure non c’è stato nella Storia dell’Umanità un solo guerriero che non abbia rivendicato la legittimità della propria azione, dettata dalla necessità inderogabile di sconfiggere il Male, autoproclamandosi un combattente in nome del «giusto» e del «sacro». O almeno, così è stato fino alla comparsa sul palcoscenico mondiale dei soldati del “Battaglione degli Unicorni Lgbtq+”, ispirati invece dai «diritti» e dalla «democrazia», immagine patinata di un’Era bugiarda e profondamente anti-eroica sottoposta al monopolio del potere laico che ha seppellito il Sacro.
Scendendo verso la parte inferiore dell’Inferno i due pellegrini s’imbattono in una rupe scoscesa che Virgilio non ricorda di avere visto la volta precedente che era passato da quelle parti, probabilmente perché il terremoto d’amore provocato dalla venuta di Cristo sulla Terra ancora non aveva sconquassato l’imbuto infernale, provocando danni in questo girone e altrove (nella bolgia degli ipocriti, ad esempio; Inferno XXI, 106-108).
Il settimo cerchio è dominato da un largo fossato circolare attorno al quale i centauri armati di archi e frecce “vanno a mille a mille, / saettando qual anima si svelle / del sangue più che sua colpa sortille” (Inferno, canto XII, 73-75). Uno di essi chiede ai nuovi arrivati verso quale pena si stanno dirigendo, intimando loro di rispondere a distanza, se non vogliono che tenda l’arco. Virgilio lo riconosce, è Nesso, il focoso traghettatore che perse la vita per amore la bella Deianira, moglie di Ercole, e vendicò in modo atroce la propria morte.
Ma il Maestro parlerà solo con Chirone, il capo della schiera. Soltanto a lui, “ingens Centaurus“, “nutritor… ingens” di Achille, Giasone, Asclepio e altri, egli chiederà un aiuto concreto per trasportare Dante oltre il calderone fumante. Il suo protetto è vivo, non può volare. Il venerando barbuto accoglie la richiesta; oltre che un istintivo impenitente è stato anche un uomo di valore, un educatore che praticava la musica, l’astronomia, la medicina, la magia e le scienze in generale.
Nesso viene dunque incaricato di prendere in groppa il poeta e di trasportarlo al di là del Flegetonte, il bollente fiume di sangue dentro cui i dannati sono immersi in misura diversa a seconda del peccato commesso: i tiranni fino agli occhi, gli assassini fino al collo, i predoni e i ladroni da strada fino al petto, altri fino ai piedi.
Ed ecco che Dante vede di nuovo il cielo stellato stando sottoterra, per quanto assurda possa apparire la circostanza. D’altra parte nell’economia della scrittura i riferimenti astronomici sono importanti, servono ad aggiornare il diario di viaggio coinvolgendo i lettori con “li ‘ntelletti sani”, e qui sembra di capire che la discesa verso sud sia arrivata a buon punto. Altrimenti l’autore non avrebbe evocato la più grande e ricca costellazione australe, il Centauro, visibile solo per metà dalle nostre latitudini durante le sere di aprile.
Non sfugge il suo rapporto con la data di partenza del Fiorentino, avvenuta all’alba del giorno in cui il sole sorge insieme alla piccola costellazione dell’Ariete, il segno che un tempo inaugurava l’anno zodiacale, finché la precessione degli equinozi non lo ha spostato nei Pesci. Dunque i conti tornano, e i Centauri sono perfetti per rappresentare la bestialità umana che viene eccitata dalla violenza, alimentandosi di sangue. Ma non è forse questa la doppia natura dell’uomo, la sua condanna, ciò che da milioni di anni lo spinge a passare da una guerra all’altra?
E dire che al termine delle due guerre mondiali del Novecento gli Europei si erano illusi che il peggio fosse passato. Presi dall’euforia del momento non avevano fatto caso al nome in codice dello sbarco alleato del 6 giugno del 1944: «Overlord!», cioè «Signore Sovrano!», preludio dell’infausta relazione di tipo feudale che si sarebbe creata tra il nuovo sovrano (gli Stati Uniti d’America) e i suoi vassalli (gli Stati divisi d’Europa).
In realtà la società europea non si è mai scollata dalla piramide gerarchica dei re, dei vassalli, dei valvassori, dei valvassini e dei servi della gleba. Per esempio Roma dipende da Bruxelles, che dipende da Washington, che dipende dalla combriccola di Davos, che dipende dal Deep State gestito dalla finanza apolide. Ultimamente la parola «sovranismo» è diventata una specie di bestemmia, tuttavia il potere del sovrano cresce con il passare del tempo. Né potrebbe essere altrimenti perché se io non sono il sovrano di me stesso, è chiaro che qualcun altro è il mio sovrano.
Comunque la si giri, il sovrano è un dato di fatto. E quando il suo prestigio vacilla basta inventarsi un nemico da abbattere, cioè scatenare una o più guerre, per prolungare di qualche tempo la sopravvivenza dell’intera corte. E’ cambiato invece il modo di fare la guerra, che nel XXI secolo non è più «la continuazione della politica con altri mezzi» descritta dal prussiano Karl von Clausewitz (1780 – 1831) bensì un colossale giro d’affari gestito in prima persona dalle multinazionali belliche, chimiche e tecnologiche.
Incapace e corrotta la classe politica sta due o tre gradini sotto la talassocrazia globale, che in un’ottica di stupefacente terrapiattismo geopolitico pensa davvero di poter vincere una guerra nucleare. Mentre i servi della gleba credono per comodità alla favoletta delle mini-atomiche di ultima generazione che in quanto «bombe umanitarie» servirebbero a prevenire una vera guerra mondiale. Bombe contro bombe? Non è un controsenso? Com’è possibile che in una società già di suo completamente luciferina, essendo dominata dal luciferismo elitario, vi sia la «bomba buona» che combatte la «bomba cattiva»?
In tempi non sospetti René Guénon si era già soffermato su questa contraddizione, sottolineando come il luciferismo consapevole di un gruppo ristretto di persone riuscisse ad essere addirittura meno dannoso del luciferismo inconsapevole (il bigottismo di corte e la fedeltà dei servi) di chi credendo di avere una missione da compiere per conto di dio iniettava continuamente acqua sporca negli strati inferiori dell’essere, con tutte le conseguenze del caso.
Il grado d’ira non si abbassa se al posto di colpire un avversario, vero o presunto che sia, l’iracondo prende di mira il doppio di se stesso. La violenza parla una lingua universale e l’atto insensato di chi si toglie la vita, secondo Dante, è perfino peggiore di quello che spinge ad uccidere un’altra persona. I lettori lo apprendono oltre il guado, nel settimo cerchio, non appena Dante e Virgilio entrano in una delle più spaventose opere della giustizia divina: la selva dei suicidi, una terrificante boscaglia capace di incutere lo stesso terrore della selva del canto iniziale.
Qui le anime nemiche di se stesse sono incarcerate nei tronchi degli alberi di “color fosco”, con i rami “nodosi e ‘nvolti”, senza più un corpo perché non si può commettere un peccato mortale così grave (infischiandosene del volere di dio) e sperare di farla franca, ovvero riavere indietro ciò di cui ci si è volontariamente privati.
Immobilizzati in una mortificante condizione lignea i dannati sono continuamente bersagliati dal fuoco eterno, che cadendo senza sosta arroventa la sabbia sottostante, raddoppiando le loro sofferenze. E come se ciò non bastasse tra gli “aspri sterpi” di spine velenose fanno i nidi le Arpie, affamate di orrende fronde e perciò fonte di nuovi dolori.
Gli accademici non hanno ancora smesso d’interrogarsi sulla provenienza di questi esseri demoniaci, descritti come grandi uccelli rapaci dal volto di donna apportatori di distruzione e morte. Ancora più problematico appare il legame tra queste figure e il suicidio, a meno che non si faccia appello al tema iniziale dell’insensatezza: come il suicida compie l’insano gesto in un impeto di deplorevole irragionevolezza, così le Arpie rendono inutilizzabili le cose per il semplice gusto di imbrattarle e distruggerle.
Non possiamo escludere che la fonte d’ispirazione di questo canto sia il mito (forse di provenienza indoeuropea, se non addirittura più antico) delle «furie guerriere» associate al fato, alla morte, alla guerra. E’ quasi impossibile leggere questi versi senza pensare alla nordica Mórrígan, la triplice dea suprema dei Túatha Dé Dánann che in sembianze di corvo, o di cornacchia, sorvolava minacciosa i campi di battaglia nell’attesa di potersi nutrire della carne dei soldati morti.
Si raccontava qualcosa di simile anche a sud, dove una razza di demoni con il corpo umanoide e il volto del corvo generata da Tiamat, la Signora degli dèi eterna rivale di Marduk, seminava terrore e morte tra le popolazioni mesopotamiche. Come un qualunque esercito lo stormo appariva all’improvviso in una nuvola nera carica di elettricità, massacrava i malcapitati e si cibava delle loro carni.
Le narrazioni di questo genere, nella letteratura tradizionale ce ne sono parecchie, possono essere ricondotte agli antichi rituali sciamanici legati al culto della Madre Avvoltoio, originariamente collegato alla pratica della scarnificazione dei cadaveri e diffuso in tutto l’emisfero settentrionale, dall’Antico Egitto al Nordamerica. Migliaia di anni sono passati da quei giorni lontani e ancora oggi, in piena Era tecnologica, l’aquila calva rappresenta il «destino manifesto» degli Stati Uniti d’America (per usare un’espressione coniata nel XIX dall’imprenditore John O’Sullivan), quello di «civilizzare» il pianeta, ovvero di «ripulirlo» dalle sozzure che lo sporcano. A tale proposito vale la pena di notare che gli animali-totem della Russia e della Cina sono invece due orsi, rispettivamente l’orso bruno e l’orso panda, e l’orso è l’animale più prossimo all’uomo.
Nella Commedia la parola «guerra» ricorre in prevalenza nelle citazioni mitiche e storiche, come ad esempio la guerra di Tebe (canto XX, 34), dei Romagnoli (canto XXVII, 28), di Bonifacio VIII e i Colonna (v. 86), di Roma e Cartagine (canto XXVIII, 10), dei Giganti contro Giove (canto XXXI, 19). Vi è inoltre il ricorso poetico alle perturbazioni atmosferiche, come per esempio nella bolgia dei ladri, dove il guelfo nero Vanni Fucci infierendo su Dante gli predice malignamente le future sciagure dei guelfi bianchi dovute all’azione risolutiva del “vapor di Val di Magra” Moroello di Giovagallo che guiderà i fuoriusciti Neri alla presa di Pistoia (1302), sconfiggendo i Bianchi della città. “Tragge Marte vapor di Val di Magra / ch’è di torbidi nuvoli involuto; / e con tempesta impetuosa e agra / sovra Campo Picen fia combattuto; / ond’ei repente spezzerà la nebbia, / sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto. / E detto l’ho perché doler ti debbia!” (Inferno, canto XXIV, 145-151).
L’immagine di Marte che attira dalla Lunigiana un fulmine avvolto da nubi nere è un’opera d’arte di rara bellezza. L’opposto delle tetre istantanee che ritraggono i nostri funghi radioattivi, comprensibilmente fonte di ansia e terrore in quanto il loro effetto non sempre è immediato ma spesso consuma lentamente i corpi tra indicibili tormenti.
D’altra parte l’oscura Età del Ferro Arrugginito è iniziata da Hiroshima e Nagasaki, il più grande crimine contro l’umanità finora conosciuto; cos’altro potevamo aspettarci? In un tempo degradato come il presente, dove la sfida quotidiana della distruzione nucleare s’accompagna alla realtà di popolazioni sempre più povere e affamate, la cosa più saggia da fare è non angustiarsi. Occupiamoci piuttosto del governo delle nostre anime al fine di mantenerci esseri umani: l’immagine del guerriero del Terzo Millennio non è quella dell’eroe bensì quella del resistente.
Non serve appassionarsi agli illusionismi dei reucci 4.0, intanto uno vale l’altro e come il Minotauro sono tutti un po’ tonti. Basti dire che quelli occidentali hanno creduto di impaurire colossi come la Russia, la Cina e l’India alzando la voce, cioè con il solito giochetto delle sanzioni economiche, che invece hanno consolidato il sinergico partenariato strategico Russia-Cina, allargando la cerchia delle relazioni a numerosi altri Paesi e gettando l’Europa sul lastrico.
E’ sempre controproducente agire come le Arpie in modo rozzo e sconsiderato. Se l’Imperatore fosse davvero imbattibile, come dice di essere, che bisogno avrebbe di continuare a imporre divieti, o di stringere le maglie del controllo con l’introduzione di nuovi criteri di censura per i social, i video di YouTube, le informazioni di Wikipedia, e via dicendo?
Evidentemente la corte imperiale è più debole di come appare. Dubita che l’umanità abbia davvero intenzione di farla finita con l’uomo, cioè con il meraviglioso impasto di empatia, simpatia, compassione, stima, amicizia, amore, affetto, sentimento, tenerezza, emozione, integrità, dignità, gioia di vivere. Teme che l’uomo non voglia diventare un ibrido e renda inutile l’avere annientato e distrutto mezzo mondo in nome di una superiorità morale in realtà mai esistita.
Anche per questi soggetti si apriranno le porte dell’Inferno, probabilmente. Ad attenderli troveranno Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, fulminato da Giove dopo averlo sfidato apertamente con una pubblica dimostrazione di disprezzo. A quelli come lui, cioè ai violenti contro dio, ai bestemmiatori che si sentono superiori alle Leggi supreme, Dante infligge una pena atroce: ardono da morti allo stesso modo in cui l’istinto distruttivo e autodistruttivo li ha bruciati da vivi. “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito: / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito” (Inferno, Canto XIV, 63-66).
Stando bene attenti a mettere i piedi sul suolo boschivo anziché sul sabbione infuocato, i due pellegrini dell’Aldilà abbandonano Capaneo all’autocombustione senza provare per lui alcuna pietà. Procedendo in silenzio arrivano nei pressi di un fiumicello arrossato dal sangue al cui solo ricordo il Fiorentino ancora rabbrividisce: “Tacendo divenimmo là ’ve spiccia / fuor de la selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia” (Inferno, canto XIV, 76-78).
In veste di istrionico presentatore poetico, il Maestro spiega al discepolo che nulla di ciò che ha visto finora è importante “com’è ‘l presente rio, / che sovra sé tutte fiammelle ammorta”. Il motivo è presto detto: sta per entrare in scena la leggenda del «veglio di Creta» narrata nel passo biblico che riporta il sogno di Nabucodonosor (Dan., II, 31-45), se si esclude la licenza poetica delle lacrime, un particolare aggiunto da Dante.
Il vecchio è un’allegoria delle Quattro Età dell’uomo in quanto ha la testa fatta d’oro zecchino, le braccia e il petto in puro argento, fino all’inguine è tutto di rame, gli arti inferiori sono di ferro come pure il piede sinistro (l’Impero), mentre il destro (la Chiesa) è in terracotta ad indicare la fragilità del potere spirituale rispetto alla durezza del potere temporale. Non per niente volge le spalle a Damiata, in Egitto, e guarda Roma, caput mundi.
Ad eccezione della testa d’oro (l’Età di Saturno) tutte le parti della statua hanno delle fessure da cui sgorgano le lacrime che vanno a formare i fiumi dell’Inferno (Acheronte, Stige e Flegetonte), i quali precipitando verso la parte più stretta dell’imbuto sotterraneo s’impaludano infine nel Cocito. Come si vede la geografia dantesca assimila il cuore del mondo all’isola di Creta, dove si sarebbe formata la prima stirpe umana. In fase di amnesia, il Medioevo europeo aveva dimenticato l’Artico.
La presenza nel testo del «veglio» dà modo al poeta di tracciare una sintesi impietosa del cammino umano da Oriente a Occidente. La statua è un monumento alla progressiva decadenza dell’uomo, in bilico sul piede d’argilla, non si sa bene per quanto. Orwell nel suo celeberrimo 1984 aveva proposto il 2050 come orizzonte temporale per la realizzazione del programma imperiale di asservimento delle masse e distruzione della civiltà, ma poiché l’agenda dei Signori del Caos sta subendo una forte accelerazione, è probabile che i tempi saranno più brevi del previsto.
Inutile dire che l’imposizione su larga scala della tecnologia accompagnata dall’eliminazione del legame che unisce l’uomo alla Natura renderà necessario nei prossimi anni il pugno di ferro, cioè la guerra continua. Le armi che ufficialmente dovrebbero esportare in ogni angolo del mondo «la democrazia» (?), di fatto cercheranno di affermare l’egemonia planetaria della cultura pop di matrice statunitense per aumentare i profitti dei soliti noti. Nell’Età Oscura le linee guida sono tracciate dalle merci, dagli strumenti digitali, dalle libertà intese come nichilismo. In pratica: zero kultur in cambio di tanta redditizia zivilisation, per dirla con Thomas Mann e Oswald Spengler.
In molti cominciano però ad averne abbastanza della vita scialba proiettata da remoto in perfetto stile caverna di Platone. Sempre meno convincenti appaiono inoltre le rassicurazioni sui nuovi ordigni iper-tecnologici che causerebbero danni territorialmente circoscritti, esplodendo sottoterra anziché sulle teste dei civili. Ma se anche fosse, come la mettiamo con le conseguenze a medio e lungo termine? L’ambiente non era la priorità del futuro? Che ne sarà dell’aria, dell’acqua, della terra?
Bisogna reagire al «colpo di stato cognitivo» prima che sia troppo tardi. Allacciamo dunque le cinture di sicurezza e prepariamoci a un atterraggio di fortuna. Durante la caduta è probabile che qualcuno muoia di paura; ma nemmeno nella Peste di Camus la reazione degli abitanti del paese colpito dall’infezione è unica. C’è chi fugge, chi si nasconde, chi si abbandona ai bassi istinti e alla violenza gratuita. Pochi colgono l’insegnamento celato fra le pieghe della nuova rovina e capiscono che per uscire dalla pestilenza bisogna battere il sentiero della fratellanza.
L’unione fa la forza e genera eserciti capaci di condurre una guerra. Non la solita guerra, né una pace armata come tutte le altre. Per uscire dal pozzo nero in cui siamo finiti serve una guerra che distrugga la guerra, cioè una «guerra delle idee», la guerra esistenziale che si combatte adottando uno stile di vita contrario al progetto totalitario. Se teniamo duro, comportandoci da tenaci resistenti, anche il tempo lavorerà per noi. Nessun Impero, inclusi quelli che sembravano indistruttibili, è mai durato a lungo. E tra quelli visti fino a qui, questo è il più debole.
(il viaggio continua)
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