In numerosi scritti abbiamo trattato il tema del mecenatismo straniero in Italia, segnatamente quello di matrice anglosassone. Vogliamo qui tornare su tale importante argomento, portando stavolta l’esempio di un museo di notevole importanza che si trova a Genova: La Wolfsoniana, frutto della generosità dell’americano Mitchell “Micky” Wolfson Jr., il quale ha inteso legare le due sponde dell’Oceano Atlantico, considerato che egli ha pure fondato la The Wolsfonian di Miami, dividendo tra la Florida e la Liguria la propria raffinata collezione privata. La scelta di donare la parte più significativa della propria raccolta a Genova, conosciuta altresì con l’appellativo di “Superba”, si deve agli anni che Wolfson ha vissuto nella città durante la sua attività di diplomatico – per la precisione nella veste di Viceconsole – grazie alla quale egli ebbe modo di apprezzarne la bellezza, enorme fascino e storia, nonché i suoi sontuosi tesori artistici.
La sezione genovese della collezione si trova nell’incantevole contesto dei Parchi di Nervi, in cui è ospitato un pregevole polo museale principalmente dedicato alle espressioni artistiche moderne, composto: dalla Galleria d’Arte Moderna e il Museo Giannettino Luxoro, le Raccolte Frugone e, va da sé, la stessa La Wolfsoniana, formando un centro culturale tanto prezioso, quanto negletto, vuoi per l’essere posizionato ai margini della città; vuoi per la sistematica incapacità del nostro Popolo e delle nostre Istituzioni di conoscere e valorizzare un Patrimonio ineguagliabile che vicende storiche benevole ci hanno regalato.
Per quanto attiene alla collezione messa assieme dal mecenate statunitense, che è poi l’argomento di cui tratta questo articolo, essa consente uno straordinario viaggio nell’arte e nel Design fra Otto e Novecento. La raccolta venne donata nel 2007 alla Fondazione Colombo (poi Fondazione Regionale per la Cultura e lo Spettacolo) e successivamente incorporata nel 2015 nella Fondazione Palazzo Ducale per la Cultura. Nel frattempo, però, nel 2005 era stata aperta la sede espositiva di Nervi, nella quale si offre ancora oggi il suggestivo racconto di alcuni eventi storici e artistici, in virtù della corposità dell’insieme di oggetti, documentando con precisione i principali stili e movimenti creativi che si sono alternati dalla seconda metà dell’800 sino agli anni ’50 del XX secolo. Invero, lo specifico di questo museo lo si deve individuare, seguendo una avveduta analisi museologica, nel segnalare e descrivere il passaggio nodale dalle arti decorative a quelle cosiddette “industriali”, con la incidenza di queste ultime sui movimenti politici e sul costume dell’Europa del tempo.
In quasi cinquanta anni di ricerca e acquisti, la “voracità” collezionistica di Wolfson gli ha permesso di accumulare una quantità sorprendente di materiale (oltre trentamila voci di inventario), il tutto alla insegna di una nobilissima finalità: sostenere e promuovere la conservazione, lo studio e la valorizzazione delle arti decorative e di propaganda sviluppatasi a cavallo di due secoli (19° e 20°), che hanno, nel contempo, regalato all’Europa cruciali correnti artistiche, intellettuali e orientamenti politici. Infatti, va tosto chiarito che per “propaganda” non si intende, nel caso del museo genovese, di una mera politica manipolatrice – oggi malauguratamente indiscussa sovrana del dibattito pubblico occidentale – bensì, le varie, e sovente raffinate, forme di espressione di una determinata ideologia, all’epoca ritenuta in buona fede latrice di miglioramenti sociali per il Popolo; il caso del Fascismo è emblematico: malgrado i drammatici risultati finali, oramai gli studi storici e sociali sono quasi tutti concordi nell’individuare nelle iniziative del Regime Mussoliniano una promozione dello sviluppo nazionale, tramite pure un forte incoraggiamento alla produzione artistica e architettonica. Nell’immaginare la sua raccolta, il connoisseur americano si auspicava di poter ricomporre, attraverso gli oggetti, in primis l’atmosfera di un lungo e intensissimo periodo che ha visto l’affermarsi di un progresso tecnologico senza precedenti (nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione) e l’alternarsi di dittature e governi democratici. In breve la nascita della modernità!
Per quanto riguarda direttamente il Museo, esso si caratterizza per un allestimento cronologico-tematico. Negli spazi de La Wolfsoniana, il visitatore avverte lo spirito della collezione nella sua complessità ed eterogeneità. Partendo dal gusto per l’esotico, diffusosi anche in Italia nel corso del XIX secolo, il percorso espositivo si snoda attraverso le principali correnti linguistiche ed espressive: Liberty, Déco, Futurismo, Razionalismo, volendo mettere a confronto movimenti artistici che dialogarono strettamente con il contesto politico, sociale, economico, tecnologico ed estetico in cui hanno visto la luce. La Collezione è in permanente crescita, e rappresenta a suo modo un unicum nel panorama museale nazionale per la assoluta “settorialità” dei temi coperti, con del materiale in prevalenza italiano, benché non manchino pezzi significativi riferibili al contesto internazionale.
La Wolfsoniana espone oggetti che documentano i cambiamenti di sensibilità e di stile nelle abitazioni private e negli edifici pubblici; sul rapporto tra arte e propaganda politica; sugli sviluppi tecnologici e sui loro riflessi nel mondo del lavoro, generando inoltre nuovi comportamenti sociali. Va da sé, che la pubblicità ha giocato in questo caso un ruolo cruciale, come si evince dal materiale cartaceo presente nelle raccolte di questa Istituzione. Tuttavia, la cifra museologica che la connota sta non solo nella immediata valenza estetica degli oggetti, ma parimenti nei significati storici che essi trasmettono, ricomponendo i caratteri salienti di una fase tuttora rilevante per la evoluzione della contemporaneità. I fattori di cambiamento di questo complesso periodo sono ricostruiti attraverso una prospettiva a tutto campo sui diversi snodi tematici: i profondi legami, come detto, intercorrenti tra arte e politica; le oscillazioni estetiche determinate dalla dialettica tra spinte avanguardistiche mescolate talora con richiami alla tradizione, nonché il fondamentale apporto fornito dalle nuove tecnologie nella evoluzione di quello che a metà del ’900 verrà identificato col termine Design, e del quale l’Italia sarà l’assoluta protagonista, come si comprende, tanto per dire, da ciò che è esposto nel Museo del Design Italiano di Milano. In sintesi, tramite: dipinti, sculture, mobili (spesso arredi completi), vetri, ceramiche, ferri battuti, argenti, tessuti, disegni di architettura, grafica, manifesti e materiali pubblicitari, libri e riviste, si celebra la nascita e lo sviluppo di una “civiltà industriale” che fu un laboratorio di sperimentalismi di enorme rilievo. È il caso del succitato esotico (col cosiddetto “stile moresco”), declinato nel caso del Museo in arredamento: uno degli ambienti maggiormente attrattivi è la monumentale stanza in stile neoegizio ideata intorno al 1890 da due pittori orientalisti bolognesi, Fabio e Alberto Fabbi, per il palazzo Gonzaga a Guastalla, provincia di Reggio Emilia. In medesima guisa, il mobiliere milanese Carlo Bugatti elabora un nuovo stile, reinterpretando l’arte propria della cultura dell’Islām. di cui un superbo esempio è il suo Stipo (1899, noce con intarsi in legni e metalli diversi, rame sbalzato, pergamena). Ciò si pone come ennesima conferma di quanto la nostra Patria abbia sempre coltivato una visione universale, palesando puntualmente una apertura verso culture oltre l’Occidente.
Quello che si ricava dallo studio de La Wolfsoniana è che il periodo in essa rappresentato segna l’inesorabile incedere verso il Design Industriale, che divenne praticamente pervasivo in tutti gli ambiti della quotidianità urbana. Si pensi al settore dei trasporti, il passaggio dall’artigianato meccanizzato alla produzione in serie, che in Italia si impose definitivamente solo con il Secondo Dopoguerra, viene espresso da alcuni esemplari emblematici: la prima bicicletta della ditta Giuseppe Bianchi (oggi Beta Motor) di Firenze, con i cerchioni delle ruote ancora in legno, la turbonave Conte di Savoia e la Littorina Fiat, orgoglio di una Italia fascista ansiosa di affermare il suo primato in ogni campo; per arrivare a tempi più recenti, con una icona del tanto, e forse troppo, decantato “Boom”, come la Vespa 125, prodotta dalla Piaggio nel 1949.
Una ampia e ricca sezione del Museo è dedicata all’Art Nouveau: stile decorativo diffusosi in Europa e negli Stati Uniti tra il 1890 e la fine della Prima Guerra Mondiale, e che mostra caratteristiche peculiari a seconda della Nazione in cui si è sviluppato (in Italia venne chiamato stile “Floreale” o Liberty, laddove in Germania era conosciuto come Jugendstil, “Stile Giovane”). In questo senso La Wolfsoniana propone una ottima testimonianza di produzione nostrana con la parziale ricostruzione del salotto realizzato intorno al 1902 dalla Ditta Luigi Fontana & C.: le linee sinuose e aggraziate del mobilio, assieme all’uso originale di vetri e specchi, indicano la vicinanza tra una sensibilità tipicamente italiana e quella dell’area franco-belga. Per quanto concerne invece la scultura, degno di menzione è il busto di Luigi Bistolfi, Margherita di Savoia. Reginae Italicorum Preces (gesso dipinto, 1900 ca.), che stilisticamente può ricordare le opere di un artista di assoluta qualità, benché stolidamente svalutato da una critica di settore perlopiù ideologizzata, come il milanese Adolfo Wildt (1868 – 1931). Bistolfi plasma il volto della Sovrana in modo quasi perfetto e con una acconciatura e una espressione che ricordano quel Medioevo mistico caro ai Preraffaelliti in Gran Bretagna. Margherita è ritratta con un incarnato levigato e diafano, e con uno sguardo algido ed enigmatico. Un ritratto, quello di Bistolfi, idealizzato e al di là di una connotazione temporale, che rivela parimenti l’adesione dello scultore di origini piemontesi ad alcune istanze del linguaggio simbolista e, nel contempo, una marcata distanza da quella scrupolosità verista presente in altri suoi lavori.
Probabilmente, la sezione più stimolante del Museo è quella rivolta al Futurismo e alla propaganda tout court. Qui vengono efficacemente illustrati i principali motivi iconografici del Periodo Fascista che si annodarono con le ricerche futuriste degli anni a cavallo tra le due guerre e in particolare con la uscita del Manifesto dell’Aeropittura (1929). Mentre la strategia politica del Ventennio vivificava modelli classici su cui impostare la sua equiparazione con l’Impero Romano, le opere degli artisti che facevano parte del Movimento Futurista, con a capo Filippo Tommaso Marinetti (1876 – 1944), rispecchiano i temi celebrativi di un’arte tesa a esaltare la cineticità della vita moderna e pervasa di inclinazioni belliciste, con un diffuso culto per la figura e la personalità del Duce; indicativo in tal senso è il dipinto di Thayaht (pseudonimo di Ernesto Michahelles) Il grande nocchiere (1939), raffigurante Mussolini come un imponente robot che impugna saldamente un timone, chiara metafora del suo essere a guida della Nazione.
Di particolare interesse è anche la parte espositiva collocata quasi al termine del percorso museale, dedicata al disegnatore Liberty Antonio Rubino (1880 – 1964), di cui è presente una stanza da lui progettata e realizzata intorno al 1924, chiamata: La cameretta del bambino, con mobili dalle forme lineari e decorazioni estremamente unitarie, ove spiccano due seggioline strutturate in forma antropomorfa come un bimbo in posizione seduta. Rubino dedicò molta della sua produzione all’infanzia, a cominciare dal 1908, quando contribuì niente di meno che alla creazione del Corriere dei Piccoli, forse il più popolare tra i giornali italiani per bambini.
Essendo questo un luogo votato alla ricerca, non poteva certo mancare una ricca biblioteca, i cui fondi sono in stretta relazione con la Collezione, riunendo circa 10.000 volumi. Tra le differenti sezioni è ancora degna di speciale attenzione quella sul Futurismo, con manifesti, manoscritti, riviste, cartoline, fotografie, brochure e libri, tra i quali: Zang Tumb Tuuum (1914) di Marinetti, con dedica autografa dell’autore; Bif§zf+18 Simultaneità e Chimismi lirici (1915) di Ardengo Soffici (1919); Guerrapittura (1915) di Carlo Carrà; le Liriche Radiofoniche (1934) di Fortunato Depero. Sono ugualmente significativi i volumi sulle arti decorative, il Design, l’Architettura e l’Urbanistica.
In Museologia, ma in generale anche nella critica artistica, non bisognerebbe confondere il significato con la testimonianza, dal momento che l’oggetto è sì testimone di un’epoca su cui però non esprime giudizi, limitandosi a raccontarne un aspetto; ovvero, il contesto che lo ha prodotto. Riprendendo le teorie del padre della Linguistica Strutturalista, il ginevrino Ferdinand de Saussure (1857 – 1913), esiste una differenza tra “significante” e “significato”. Spostando tali definizioni nell’ambito del nostro discorso, potremmo dire che il primo è ascrivibile all’oggetto; laddove il secondo si trova nel messaggio che in esso viene percepito dall’uomo, che ne coglie il persistere dei valori e delle idee che hanno portato alla nascita di quel determinato manufatto. Pertanto, la rilevanza di questa collezione sta per l’appunto nel suo preservare lo spirito e l’intelletto umano di un periodo strategico per la storia europea, incoraggiando nel contempo a non fraintendere la propaganda con l’attività collezionistica, dacché in questo museo non vengono imposte chiavi di lettura, invitando al sol pensiero, ciò che conta non è il messaggio in sé, ma la sua rappresentazione.
Concludendo, la generosità di Wolfson ha avuto come risultato quello di arricchire il Patrimonio genoano e, in più in generale, nazionale, offrendo alla collettività una serie di oggetti e documenti che hanno una doppia valenza: una prettamente artistica e un’altra, magari addirittura di maggior peso, di plastica resa della complessità culturale dell’epoca documentata dalla varietà di pezzi conservati in questo museo, col fulgido esito di fornire al pubblico di studiosi e appassionati una risposta alla contemporanea cultura della comunicazione, nel tracciarne minuziosamente lo sviluppo, giacché, riprendendo le parole dello stesso Wolfson: “[…] l’aspetto visivo è il canale principale attraverso il quale l’uomo entra in contatto con il mondo”. Quello che diversi storici sogliono definire il Secolo della Modernità, grande e convulso, generatore della industrializzazione e della società di massa, per mezzo di questo Museo è raccontato e mostrato in modo solenne per il suo enorme contributo culturale; sebbene mai ne andrebbero dimenticati i lati oscuri e le “storture” morali. La eccezionalità che contraddistingue questo angolo di Genova sta tutta nell’oggetto, il quale è acquistato non semplicisticamente perché “piace”, ma poiché amato, nell’essere a suo modo il simbolo della temperie culturale e politica che lo ha generato.
Riccardo Rosati