10 Ottobre 2024
Economia liberismo

L’assassino della proprieta privata è il liberismo mondialista – Roberto Pecchioli (Parte II)

L’umanità in affitto. La fine dell’ “habeas corpus”

 

Michel Foucault coniò il termine “biopolitica” per definire il potere di chi si impadronisce anche della vita, del corpo delle persone. Siamo in affitto, a tariffa stabilita da lorsignori, che decidono tutto di noi, e tutto sanno: dove ci troviamo in questo preciso momento, come la pensiamo su tutto (glielo diciamo spontaneamente attraverso le reti sociali), quali sono i nostri gusti e propensioni (basta consultare la carta di credito, i padroni sono sempre loro), possono staccare la spina quando vogliono (clic, e non siamo più connessi e clienti, la morte civile).

Nel medioevo inglese, istituirono l’ ”habeas corpus”, la garanzia giuridica di essere proprietari di noi stessi, del nostro corpo di fronte alla legge. Dopo secoli di “progresso”, la proprietà è passata di mano, da noi a loro. La legge viene continuamente adattata ai rapporti di forze, che vedono perdenti persone e popoli, nazioni e Stati. I mezzi di produzione sono concentrati in sempre meno mani, forse sarà la manona invisibile teorizzata da Adam Smith, ma è ogni giorno di più quella dei potentati finanziari, che controllano i pacchetti azionari delle cinque-seimila multinazionali dominatrici dei mercati, anzi che costituiscono i mercati. Il sistema mondo prospera sul paradigma della scarsità, provoca ad arte una crisi generale la quale induce una spietata competizione per le risorse globali e livella le opportunità di valorizzazione del capitale. Unici attori sulla scena coloro che possono costruire e dominare economie di scala. Nessun libero mercato, ma campo libero alle grandi compagnie, companies. Per ogni altro, dipendenza completa: produttori forzati, lavoratori precari, consumatori, debitori sino alla morte, schiavi espropriati di se stessi.

L’efficacia delle legislazioni anti trust (quando ci sono) è nulla. Le norme sono dettate da coloro contro cui dovrebbero essere dirette. Negli Stati Uniti, gran bazar ideologico del liberismo, due colossi della telecomunicazione, dell’informazione e dell’intrattenimento, AT&T e Warner si stanno fondendo, in barba a tutto e senza che la politica, loro servitrice, possa o voglia agire.

Insieme, distruggeranno migliaia di aziende dei loro settori, getteranno sul lastrico imprenditori e lavoratori dipendenti, e, naturalmente, orienteranno ancora meglio la beneamata opinione pubblica.

Chi ha studiato, tra mille difficoltà, gli intrecci azionari tra i giganti, ha concluso che il mondo intero è in mano ad un numero eccezionalmente basso di compagnie, dietro le quali si vede sempre più l’ombra immensa di alcune dinastie familiari. Ci hanno intrappolato con il debito: debitori noi, debitori gli Stati, ma è il capitale finanziario a possedere tutto il denaro, divenuto l’unico, il mezzo di produzione per eccellenza. Pare che il debito pubblico e privato totale sia almeno il doppio dell’intera ricchezza mondiale. Dunque, è un inganno, un nonsenso logico. Non siamo più padroni di nulla, e non sono stati Marx, Lenin o Mussolini ad espropriarci.

Ciò che sconcerta è l’incomprensione di molti schierati a difesa del sistema. Lo stupore ha due lati, per così dire. Di quello sinistro lascia a bocca aperta l’avere scambiato senza battere ciglio diritti sociali concreti, frutto di battaglie secolari, con la mistica dei nuovi diritti, o capricci, individuali, specie in materia sessuale e familiare. Il lato destro continua, con bovina imperturbabilità associabile a deficit intellettivo, a non comprendere che le libertà liberali conclamate valgono per l’uno, ad esagerare per il cinque per cento degli esseri umani, e che tutti i principi civici della destra classica, dal sentimento patriottico all’apertura religiosa sino al senso della famiglia e della comunità sono estranei, anzi vengono avversati dalla monocultura mercatista e mondialista.

Gli imperativi morali che hanno mosso contro il comunismo valgono ancor più oggi contro chi ci espropria di tutto, anche della dignità di dissidenti, “populisti” derisi, neppure chiamati per nome. Sottouomini, untermenschen del nuovo razzismo antropologico liberale. Alexsandr Solzhenitzyn, nel famoso discorso all’Università del Vermont che gli costò l’ostracismo del ceto politico intellettuale occidentale, lo disse chiaramente: in Unione Sovietica le mie idee mi hanno portato in carcere, qui in Occidente posso parlare, ma nessuno è disposto ad ascoltare. Da quegli anni, invero, la libertà di parola è in rapido declino, tra omofobia, xenofobia, revisionismo storico, “politicamente corretto” e chiusura progressiva degli spazi di discussione pubblica.

Intanto, quasi nessuno ha più accesso ai “mezzi di produzione”, la crescita, dogma indimostrato ed assurdo, poiché le risorse non sono infinite per evidenti limiti fisici, si realizza attraverso l’esproprio. Dall’URSS all’Impero Unico Sovietico Oligarchico. La comunità non c’è più, sostituita dalle reti sociali virtuali, finisce la convivialità e la vita “vernacolare”, nel senso di attività, relazioni, scambi non basati sul movente economico ed il contratto. Un monopolio globale in cui la forma estrema dello sviluppo è l’amministrazione del sottosviluppo. Warren Buffett, probabilmente l’uomo più ricco del mondo, avrebbe dovuto essere ascoltato, quando affermò, con la sincerità di chi ha in mano tutte le carte del mazzo, che si è combattuta, nell’ultimo trentennio, una dura lotta di classe, e l’avevano vinta quelli come lui. Proletari siamo ridiventati un po’ tutti, non ci resta che reagire uniti, accettando anche un certo grado di contaminazione ideale, quanto meno accogliendo scampoli, lacerti di verità, qualunque ne sia la provenienza.

Il primo ad intuire i tempi nuovi, già negli anni 40 del Novecento, fu l’americano James Burnham. Autore della “Rivoluzione dei tecnici”, comprese che la società industriale andava nella direzione dell’egemonia della nuova classe dei manager, i tecnici “organizzatori”, nel linguaggio di Burnham, il cui potere crescente non si fondava più, già ai suoi tempi, sulla proprietà, ma sulla direzione ed il coordinamento del processo economico. Oggi, la proprietà tende a nascondersi dietro lo schermo dei pacchetti azionari e delle partecipazioni incrociate, che passano di mano molto spesso per la speculazione di breve periodo, rendendo centrale la figura dei dirigenti, i Marchionne della situazione. Il loro reddito è intollerabilmente alto, guadagnano in un giorno quanto un dipendente di medio livello in un anno, non sono legati da alcun sentimento di appartenenza all’azienda, tanto meno ai collaboratori, ed hanno l’imperativo di presentarsi dinanzi al consiglio d’amministrazione distribuendo dividendi e ostentando l’aumentato valore azionario. Lavorano sul breve periodo, desertificando tutto ciò che si frappone alla redditività immediata. I risultati si vedono, e determinano un capitalismo in cui non si ha più neppure la possibilità di vedere in faccia i veri padroni, trasformati in famelici azionisti, anch’essi ben poco attaccati all’impresa.

Dunque, nessun ostacolo territoriale, morale, nazionale, normativo deve essere opposto alla massimizzazione del profitto. Il campo di gioco è esteso quanto il pianeta e deve essere livellato, ripulito da qualsiasi barriera che si opponga al monoteismo del profitto. La priorità diventa l’interesse delle grandi companies, cui tutto deve essere sacrificato, a partire dai concorrenti e dalle persone umane. La menzogna ripetuta ossessivamente, e, spiace riconoscerlo, creduta da troppi, è che il loro interesse si traduca nel benessere generale. Una follia che risale a Mandeville, alla sua Favola delle api, per cui i vizi privati si convertono in pubbliche virtù, allo stesso Smith ed a David Ricardo, il primo e più coerente teorizzatore della globalizzazione.

Principio non discutibile in nome del quale importiamo agrumi riso e tanto altro dagli antipodi, facendolo viaggiare su navi sempre più grandi e costose, che richiedono energia e carburanti in quantità esorbitante, ed attraccano in porti i cui fondali sono dragati continuamente per renderli più profondi, con immensi danni all’ecosistema. Un meccanismo enorme, per cui ogni crisi regionale diventa globale e le cui interconnessioni producono conseguenze immense. Assomiglia un po’ al fenomeno dell’ “entanglement”, l’intreccio o attorcigliamento scoperto dalla fisica quantistica, il legame che si mantiene anche quando le particelle sono a distanze molto grandi, con conseguenze sorprendenti e non intuitive, per cui la misurazione delle proprietà e della posizione di una particella influenza anche la misurazione dell’altra.

Quando poi la crisi, come l’attuale, lunga e curata con dosi ancora più massicce dei farmaci che l’hanno prodotta, non può essere contrastata con misure, come le chiamano, anticicliche, crolla tutto, a partire dai noli dei trasporti marittimi, il cui prezzo è risibile, e la soluzione è una nuova stretta di dumping sociale. Salari più bassi, tagli di spesa pubblica, distruzione mirata di altre centinaia di migliaia di aziende, accentramento della proprietà in poche, pochissime mani, definite sicure, quelle di chi controlla i pacchetti azionari dell’apparato industriale, tecnologico e finanziario. Dalla malriuscita dittatura del proletariato (in realtà dei vertici burocratici comunisti) all’attuale scientifica, dilagante dittatura degli azionisti, dei tecnocrati e della cupola finanziaria.

Dalla proprietà dei “mezzi di produzione”, ancora concreti e tangibili, si passa a quella dei servizi. Pensiamo alla sanità, all’istruzione, alla previdenza, addirittura all’acqua. La Costituzione italiana, o quel che ne resta, afferma che la proprietà può essere privata o pubblica. Dimentica una terza possibilità, ovvero che la proprietà sia comune. Proprio dai beni comuni, crediamo, è necessario ripartire per organizzare una resistenza contro il monopolio della società anonima.

Maurizio Pallante ha teorizzato in maniera esemplare la distinzione tra “beni” e “merci”. I primi, materiali ed immateriali, sono tutto ciò che davvero serve e fa bene alla vita, personale e comunitaria, le seconde sono le cose. La cultura di un popolo, i suoi usi e costumi, sono beni, esattamente quanto l’acqua, la volontà di aiuto reciproco, la sanità, il capitale di conoscenza accumulato, che già Friedrich List pose al centro del suo sistema di economia politica. Il monopolio integrale ha in corso un attacco durissimo ai beni comuni: vuole non privatizzare, ma espropriare i popoli di ciò che hanno: le risorse idriche e quelle energetiche innanzitutto. Si assiste alla cessione della “res publica” nelle leggi e nella pratica quotidiana. Non si può vivere senz’acqua e non si può organizzare una comunità senza controllare le fonti di energia, le reti di comunicazione, il credito, non può esservi assenza di intervento pubblico nell’istruzione, nella sanità e nella previdenza. Karl August Von Wittfogel scrisse la sua opera principale, Il dispotismo orientale, esponendo i caratteri della cosiddetta teoria idraulica sulla nascita delle società statuali asiatiche, a suo dire sorte per porre sotto controllo le risorse idriche.

Di un poeta immenso come Goethe, che fu peraltro anche filosofo e persino scienziato (la teoria dei colori) abbiamo accennato, e la sensibilità dell’artista non poteva essere più chiara, indicando come libero scambio, pirateria e guerra siano legati inseparabilmente. Si potrebbero citare le scoperte della geopolitica circa il carattere piratesco delle potenze di mare (Gran Bretagna, Usa); limitiamoci a prendere atto che, rovesciando Von Clausewitz, oggi le guerre sono la continuazione dell’economia con altri mezzi. Sconfitta è la politica, ovvero la decisione consapevole sul proprio destino. La logica perversa delle multinazionali, finanziarie, industriali o tecnologiche non fa differenza, giacché ognuna è ormai un poderoso kombinat con vari reparti, o ministeri, protagonista di un neo mercantilismo totalitario, in cui ogni risorsa, tutti i mercati, i vecchi mezzi (e modi) di produzione, i diritti legali, ergo il potere, appartengono solo alle grandi compagnie.

Siamo al punto in cui diviene un crimine sottolineare la crisi. Da populisti da screditare a terroristi da perseguire “legalmente” il passo è breve. I cosiddetti piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale sono stati il braccio secolare dei nemici dei popoli e delle nazioni, e sono invariabilmente culminati nell’esproprio delle risorse comuni. Vengono istituite nuove forme di proprietà oligarchica (privata è termine nobile!) che includono nella logica del profitto dell’iperclasse l’istruzione, la sanità, le forniture energetiche, l’approvvigionamento idrico, i nuovi spazi virtuali creati dalle tecnologie informatiche, a partire dalle reti di connessione. Quelli citati sono i più importanti beni comuni: la reazione non può che partire da essi, e deve essere anzitutto una rivolta ideale e morale. Alcuni anni fa, il comandante della navicella spaziale Shuttle comunicò a terra che il centro dell’Africa stava bruciando: era l’immensa foresta pluviale del Congo, il cui sfruttamento intensivo farà sì che non si formino più le nuvole della pioggia sopra le sorgenti del Nilo. Il disastro è la folle distruzione progressiva dell’unica Terra che abbiamo, ma che importa, di fronte al profitto delle multinazionali e del sistema finanziario.

Il fondamentalismo del mercato fa paura per la sua natura totalizzante, la sua incapacità di ragionare al di fuori dei modelli matematici di accumulo e profitto, eleganti, algidi algoritmi che ignorano la natura, l’uomo, i fatti, contro cui, lo sapevano già i Romani, “non valet argumentum”. Intanto, è diventato antieconomico coltivare cereali e riso, allevare pecore, produrre latte, raccogliere agrumi. Non solo intere filiere economiche vengono azzerate, ma con loro, conoscenze millenarie, paesaggi costruiti pazientemente durante secoli nel rispetto della natura. Decidono lorsignori i monopolisti radicali: cominciamo a definirli con il loro nome: nemici.

Sono così avanti nella dominazione che affermano, a termini di legge, che il poco denaro che abbiamo in tasca è, in realtà, di loro proprietà. Anche gli indiani d’America, che non conoscevano la scrittura ed il diritto formale, furono depredati a termini di trattato prima di essere sterminati a colpi di Winchester ed abbrutiti con la vendita di pessimo whisky. E’ immagine antica e veritiera che il denaro sia, per i sistemi economici, come il sangue nel nostro organismo: ne deve circolare abbastanza per irrorare l’intero organismo e mantenerci forti e sani. Il nemico adesso ci dice senza mezzi termini: quel sangue non è tuo, è mio, perché così dice la legge fatta dai tuoi rappresentanti pagati da me. E’ il vecchio dogma della scarsità declinato in salsa monetarista. Oggi lo chiamiamo deflazione, ma la realtà è che il sangue è stato trasfuso da miliardi di organismi umani e centinaia di compagini statali al gigantesco Dracula finanziario e multinazionale. Non c’è più la proprietà privata, ma solo la “cosa loro”.

Si tratta di criminalità, sofisticata, in giacca scura, cravatta regimental e computer portatile connesso h.24 ad alta velocità, ma sempre criminalità. In questi anni, stanno chiudendo il cerchio, come dicevamo all’inizio: non vendono più, noleggiano, danno in licenza. Questo vale per i prodotti della nuova economia tecnologica, per cui noi crediamo di aver comprato il pacchetto dell’ultimo sistema operativo o il nuovo videogioco per cui milioni di servi sciocchi si sono messi in fila davanti ai (loro) centri commerciali, ma non è così. Tutto è ancora, e sempre, cosa loro. Ma poiché ci hanno impoveriti, sanno che il nostro potere d’acquisto è limitato: dopo il credito al consumo, con cui ci ricattano a vita in quanto debitori, adesso pensano al noleggio generalizzato, il leasing planetario. Pare che i giganti dell’automobile e di quelli che un tempo si chiamavano beni durevoli si stiano attrezzando per affittarci gentilmente qualsiasi prodotto industriale. Noi pagheremo “comode” rate, controllate da un sistema bancario che, guarda caso, è anch’esso “cosa loro”, e potremo disporre anche di beni di lusso che non avremmo potuto permetterci.

In caso di insolvenza, il centro trasfusionale di lorsignori è pronto. Il nostro sangue, che ci consentivano di tenere nelle nostre vene, viene trasferito nelle immense sacche del loro sistema. Quanto alle merci, alla faccia del vecchio concetto di bene durevole, per risparmiare e fare altro profitto basterà produrne di più scadenti, di quelle che diventano inservibili nei tempi brevi rigorosamente programmati dall’apposito modello matematico.

Non è un caso che da alcuni decenni, da quando cioè il sistema è diventato l’Unico, l’Indiscutibile, quello a cui non c’è alternativa, quel che resta del potere pubblico è impegnato a difendere con tutte le forze la “proprietà intellettuale”. Poliziotti privati del sistema con divisa e stipendio pubblico devono perseguire senza sosta chiunque violi brevetti, privative industriali, licenze d’uso, marchi che hanno lo scopo di farci pagare cinque, dieci volte tanto merci provviste di quel magico segno che ci rende alla moda e ci fa accettare in società. I diritti di proprietà intellettuali in linea di principio vanno riconosciuti e tutelati. Chi ha investito il proprio denaro e usato la propria intelligenza per costruire qualcosa deve poterne godere i frutti. Non è tuttavia accettabile che i diritti d’autore durino la bellezza di 75 anni dalla morte del titolare, che diventano ottanta per Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, vincitrici della seconda guerra mondiale si sono riservate questo delicato privilegio. Non è giusto che un disegno, un logo, un ologramma, addirittura una fragranza di profumeria o il principio attivo di un farmaco salvavita siano una proprietà privata dei detentori – stranamente si vede l’ombra della solita, ferrea manona di quelli che possiedono tutto.

Il bene per eccellenza, la casa di abitazione, diventa ogni giorno di più un sogno. Precari, lavoratori flessibili, figli del jobs act, devono possedere solo la valigia per trasferirsi dovunque al fischio del caporale, campiere e gabellotto dei superpadroni, per lavorare oggi qui, domani là. Come si può chiedere il sospirato mutuo, quali sono i suoi collaterali (recente, novella denominazione delle antiquate garanzie, le parole nuove creano un trasbordo inavvertito dei significati a pro della nostra schiavitù) ? E poi perché formarsi una famiglia, tutto è precario, fungibile, noleggiabile, anche i nostri corpi, niente responsabilità. Se proprio vuoi il mutuo, te lo daranno, attraverso qualche società finanziaria legata al loro carro, e lavoreranno, legalmente s’intende, a metterti i bastoni tra le ruote affinché non paghi, ed il gioco è fatto. La tua casa non è più tua. In Unione Sovietica costringevano alla convivenza forzata, gli affitti però erano bassi ed un tetto, pur se pessimo, lo assicuravano a tutti. Dovremo rimpiangere i barbari comunisti, dopo avere visto all’opera i Barberini capitalisti ed usurai ?

E’ l’epoca della “società anonima”, degli azionisti, e già cinquant’anni fa un Giacinto Auriti aveva messo in guardia tutti dal potere che la società anonima stava assumendo sulle nostre vite, a partire dal fatto che si attribuisce non solo l’uso, ma la proprietà delle quote. Negli stessi anni, uno storico ed economista americano come Carroll Quigley, non sospettabile di bolscevismo o di pulsioni reazionarie, ammise e dimostrò l’esistenza di una rete di potere globale la cui piramide individuava nella Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, la banca centrale delle banche centrali. Temiamo che sbagliasse per difetto: il sistema finanziario è, a sua volta, un meccanismo, il più importante, di quel Nuovo Ordine Mondiale in avanzatissima fase di realizzazione, il cui dominus è un pugno di colossi senz’anima ma con volti che di anno in anno siamo in grado di distinguere sempre meglio, che possiedono tutto e tutti.

L’”inimica vis” non è, purtroppo, una fantasia malata di complottisti paranoici, ma una drammatica realtà. Nel passato, almeno le religioni, specie la cattolica, si ergevano contro di essa: pensiamo a Leone XIII o all’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI. Da tempo, anche il Vaticano si è convertito in pedina del nuovo ordine mondiale. Lo conferma il magistero dell’ultimo mezzo secolo e la drammatica accelerazione impressa da Bergoglio, la cui elezione fu salutata con entusiasmo dal coro mondialista ed a cui è stato assegnato in sede europea il premio Kalergi, intitolato al massimo teorico della dissoluzione dei popoli.

Non vi è che una strada: capire, smascherare e restare saldi non nella semplice opposizione a chi ci ha espropriato di tutto, ma nel rigetto morale, esistenziale e pratico del progetto nemico. Tornare padroni, innanzitutto del proprio cervello e della capacità di giudicare ed indignarsi, iniziare ciascuno una personale marcia del sale, come quella che portò dietro Gandhi un popolo intero, contro i modi di vita, le mode, le imposizioni e le iniziative dei padroni di tutto. Non ci faranno passare dall’internazionalismo proletario al mondialismo proprietario, ma sempre da schiavi, se, per davvero, pronunceremo milioni di no definitivi.

Diventiamo come Bartleby lo scrivano del racconto di Herman Melville, l’omino che lavorava in uno studio d’affari di Wall Street. In principio il povero Bartleby, di cui nessuno sapeva donde veniva e chi fosse, (forse non aveva aperto un profilo su Facebook…) eseguiva diligentemente il lavoro di copista, ma poi rifiutò di svolgere ogni compito, sconcertando il suo principale con la risposta, ripetuta con disarmante fermezza, “preferirei di no”.

Come il personaggio letterario, preferiamo di no. Nell’ originale, “I would prefer not to”: magari in inglese capiranno meglio.

Roberto Pecchioli (2-fine)

2 Comments

  • Giorgio Andretta 13 Novembre 2016

    Esilarante la citazione di Alexsandr Solzhenitzyn, sembra che l’autore Russo stia parlando di lei, egr. Roberto.

  • Giorgio Andretta 13 Novembre 2016

    Esilarante la citazione di Alexsandr Solzhenitzyn, sembra che l’autore Russo stia parlando di lei, egr. Roberto.

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