Il presente articolo non vuole affrontare il labirintico tema dell’augurato nel mondo antico da un punto di vista strettamente e convenzionalmente storico – accademico, né tanto meno può sfuggire alla necessità di limitarsi, nell’analisi del fenomeno, al circoscritto seppur eterno orizzonte della Civiltà Romana, del suo mito e della sua storia. Un’arte augurale indossante questo o quel vestito, intesa come arte di comprendere il linguaggio e le forze della natura in generale, o con particolare riferimento all’interpretazione del volo degli uccelli, del loro canto o di altri segni da essi inviatici, è possibile registrarla nelle più svariate culture di tutto il mondo, antico e contemporaneo, dai Celti alle civiltà dell’America Precolombiana, dall’antica Grecia alla Polinesia, dalle tradizioni popolari della nostra Terra Italia, che ancora conserva la memoria e la pratica dei costumi antichi, a tutte quelle realtà sparse per il globo che ancora riconoscono e nutrono un vitale, diretto e più o meno consapevole rapporto con quello specchio del numinoso che è la natura, specchio che non manchiamo mai, specialmente nel nostro progredito Occidente, di lordare ed opacizzare, perdendo la capacità di vedervi il divino, magari anche solo per riflesso, di riconoscerlo, di riconoscerci. Il proposito di questo intervento è invece quello di descrivere il fenomeno augurale contestualizzandolo infine in una organica ed a noi lontana visione della vita, propria dell’uomo romano nel particolare e delle culture tradizionali passate e presenti in generale.
Importanza della pratica augurale per l’uomo Romano
In Età Rinascimentale Enrico Cornelio Agrippa, discutendo nei libri della sua Filosofia Occulta degli Auspicii e degli Auguri, ci comunica come Aristotele si diffondesse ampiamente in proposito, ricordandoci che: “gli auspicii e gli auguri erano tanto stimati dai Romani, da non intraprendere essi cosa alcuna, pubblica o privata, senza averli in precedenza consultati”. Nel sesto libro della Storia di Roma di Tito Livio il senatore Appio Claudio Crasso interroga:
“Chi è che non sa che questa città è stata fondata con gli auspici,
che ogni cosa, in pace e in guerra, in patria e sotto le
armi, si fa con gli auspici?”
Come ben si intende da queste brevi testimonianze, la pratica del trarre gli auspici, fosse essa affidata al Collegio pubblico degli Auguri od agli auspicia privata del singolo cittadino, capace di appellarsi a Giove in merito ai suoi affari, rivestiva una indiscussa centralità nella vita pubblica e privata del cives Romano, alla luce della visione del mondo che questo aveva, come più in là sarà posto in evidenza, e dell’Autorità stessa che l’augurato possedeva in virtù del ruolo fondante ricoperto all’Origine dell’Urbe medesima. A suggello ed ulteriore supporto di quel che abbiamo detto è utile leggere quel che era chiaramente enunciato dalle Dodici Tavole:
“Gli àuguri pubblici, interpreti di Giove Ottimo Massimo,
badino ai segni (divini) e agli auspici; vigilino sulla disciplina
e sui sacerdoti; interroghino in proposito la volontà degli dèi
allorché si tratta di piantare vigne e boschetti di salici, o riguardo
al benessere del popolo romano; preannuncino il significato
del volo degli uccelli a quanti conducono una
guerra o siano impegnati nel governare il popolo, e questi
obbediscano a loro; riescano a presentire l’ira degli dèi; se
in determinate zone del cielo guizzano i fulmini, ne moderino
la violenza; consacrino e delimitino la città, i campi,i
templi. Tutto ciò che l’augure avrà fissato che non è giusto,
infausto, difettoso e funesto, sia considerato nullo, come se
non esistesse; chi non obbedisca a tale disposizione, venga
condannato a morte”.
Letta questa legge comprendiamo benissimo il peso che il collegio augurale esercitava sulla vita stessa della città e dei suoi cittadini, sulla possibilità di creare ossessioni e suscitare la tentazione dei potenti a corromperne i costumi, elementi che insieme porteranno ad una progressiva perdita di autorità ed influenza del collegio augurale stesso, sospettiamo con gravi conseguenze per la sopravvivenza della stessa Roma, per motivi che presto chiariremo. Alla luce di quanto detto una domanda sorge spontanea: ma da cosa traeva la figura dell’augure questo suo essere, platonicamente parlando, venerando e terribile? Per rispondere a tale quesito è necessario innanzi tutto risalire all’origine stessa della Città Eterna.
All’origine dell’Urbe l’origine dell’augurato romano
Conosciamo tutti la storia mitica della fondazione dell’Urbe, in un lontano aprile di circa 2761 anni fa, per mano del marziale Romolo, e dell’importanza rivestita in tale occasione di quello che il Del Ponte , cui siamo sinceramente debitori di molto di quel che è stato e sarà detto, ha chiamato l’Augusto Augurio. L’arte augurale era, secondo quanto ci riporta la tradizione, nota e diffusa sul nostro suolo molto prima che i due gemelli nascessero. Nelle Tavole Eugubine è sottolineata l’importanza di osservare il comportamento del picchio, antico oracolo di Marte, soccorritore dei gemelli insieme alla lupa presso il ficus ruminalis ed identificato con Picus, dio oracolare, discendente di Saturno ed avo della stirpe latina, già descritto da Virgilio nell’Eneide:
“Esso, col quirinal lituo, di breve trabea mantellato e con
l’ancile nella man sinistra, si sedea Pico domator di cavalli”,
recante, come vediamo, lituo e purpurea trabea, proprio i segni distintivi dell’augure romano. Sono poi tramandate diverse figure di Re-augure, Latini, Umbri, Siculi di cui il sovrano mitico Italus, come ci dice Servio, pare fosse un augure, primo ad inaugurare la regione dopo di lui detta Italia. Infine ricordiamo la città latina di ascendenza sicula Gabii, che Varrone ci dice essere famosa per la disciplina augurale e la tradizione il luogo dove Romolo e Remo crebbero divenendo auguri esperti. Chiudiamo così il cerchio e ritorniamo all’Augusto augurio. Terminate le contese con Alba Longa e liberato il nonno, i due gemelli divini decisero di costruire una città laddove avevano trovato salvezza ed erano stati inizialmente nutriti. Sorta una discordia su dove e su chi avrebbe effettivamente fondato la città, i due decisero di rimettersi alla saggezza di Numitore che suggerì, come ci tramanda Dionisio d’Alicarnasso:
“di lasciar giudicare agli dèi chi avrebbe designato col proprio
nome la colonia e avrebbe regnato su essa. Stabilì un giorno,
all’alba del quale entrambi si sarebbero dovuti collocare in
luoghi diversi, in sedi che fossero di loro piacimento; qui,
dopo aver reso agli dèi i sacrifici di rito, avrebbero spiato la
comparsa di uccelli augurali. Avrebbe regnato sulla colonia
chi avesse visto per primo gli uccelli più favorevoli”.
Seppur fu Remo a ricevere per primo i segni favorevoli, postosi sull’Aventino che alcune vecchie etimologie vogliono derivi il suo nome proprio da aves, uccelli, fu Romolo ad essere favorito dagli dèi con auspici maggiori, secondo una gerarchia tra segni rimasta nella successiva pratica augurale. Ci riporta Ennio:
“Frattanto il bianco sole uscì fuori dai recessi della notte;
quindi la candida luce, spinta fuori dai raggi, si mostrò e contemporaneamente
dall’alto del cielo uno stormo bellissimo
e fausto volò da sinistra; sorge l’aureo sole e insieme scendono
dall’alto dodici santi corpi di uccelli, planando su luoghi
fausti e belli. Da lì Romolo comprende che a lui è stata
data la priorità, a lui per mezzo dell’auspicio è stato fissato
il seggio del regno ed il territorio”.
Avuti così i fausti segni:“con quel lituo Romolo ‘tracciò le regioni’ allorché fondò la città”, come Cicerone ci comunica, rendendoci nota una caratteristica dell’arte augurale stessa, il tracciare col bastone sacro la linea celeste e quella terrestre delimitante la regio, lo spazio, sacro anch’esso, reso idoneo ad esser luogo propizio in cui ricevere gli auspici, costruire un tempio od appunto una città. Regalmente inaugurato, potremmo anzi dire auto-inaugurato, Romolo può ora essere regalmente consacrato da Numitore, ultimo saturnio discendente della catena albana, acquisire tutti i poteri legali di sovranità ed auspicium, divenendo concretamente primo Re-Augure della Roma Eterna, modello ed origine di tutte le successive istituzioni sacrali e giuridico-politiche della città ed incarnare quella numinosità sovrannaturale ricevuta mediante l’augurio stesso. Possiamo dunque comprendere benissimo il timoroso rispetto con cui i Padri redassero la Legge delle Dodici Tavole che prima abbiamo riportato, legge che, lo ricordiamo, minacciava addirittura la pena di morte per chi non avesse rispettato le disposizioni augurali. L’inaugurazione di Romolo è il primo atto, necessario, che dona autorità e legittima l’operato, le istituzioni tutte, la storia stessa di Roma. E’ facile intendere il potere esercitato dagli interpreti di Giove, specialmente con l’affermarsi del Collegio pubblico Augurale, sulla vita del’Urbe e dei suoi cittadini.
Breve storia del collegio augurale
La tradizione ci riporta come ad istituire il collegio augurale fu il re sabino Numa Pompilio che, inaugurato egli stesso sulla rocca Capitolina, designò il collegio come publicum perpetuumque sacerdotium. Ma lasciamo al parola all’autorevole voce di Livio:
“Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo
dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne
aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo
caso, venissero consultati gli dèi. Quindi, preceduto da un
augure, a cui poi in segno d’onore quel sacerdozio rimase
pubblico e perpetuo, Numa fu condotto sulla rocca e fatto
sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L’augure,
a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo
e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla
sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo
la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e delimitò le
‘regioni’ celesti, da oriente a occidente, con una linea ideale,
specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali
e quelle di sinistra le settentrionali. Poi fissò mentalmente,
nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano
a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare
il lituus nella mano sinistra e posta la destra sul capo di
Numa, rivolse questa preghiera: “O Giove padre, se è fas,
volontà divina, che Numa Pompilio, qui presente e del quale
io sto toccando il capo, sia re di Roma, dacci qualche segno
sicuro entro i limiti che io ho or ora tracciato.” Poi specificò
gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi apparvero,
Numa fu dichiarato re e potè scendere giù dall’area
consacrata.”
Seppur gli studiosi abbiano tentato di attribuire a questa od a quella comunità etnica una fonte certa dell’arte augurale; seppur è indiscutibile l’importanza che i sabini ricoprirono in merito, basta pensare che ad istituire il collegio stesso ed i principali sacerdozi romani, pontificato massimo compreso, fu proprio il sabino Numa Pompilio; che a porre l’auguraculum, cioè il luogo elevato da cui osservare il volo degli uccelli, sulla rocca Capitolina fu il re sabino Tito Tazio; o tener presente il rarissimo ritrovamento di un lituo e di uno scettro conservati in una tomba pertinente ad una famiglia gentilizia, il lituo molto simile a quello impugnato dagli auguri raffigurati in alcuni bronzetti, come quello del Lapis Niger, nel Foro Romano o a quello proveniente dalla stipe di Gabii, venuti alla luce durante la campagna di scavo nella necropoli di Eretum a Colle del Forno in sabina; pur considerando tutto questo, la tradizione ci tramanda che lo stesso Numa scelse i primi componenti del collegio augurale, che all’origine furono tre, selezionandone uno per ognuna delle tre tribù fondanti l’Urbe, quasi ad indicare un sostrato sapienziale dalle varie etnie presenti anticamente condiviso. Il collegio, retto dall’augure anziano, per accedere al quale era necessario essere cooptati, vide il numero dei suoi componenti crescere col passare dei secoli. Divennero sei all’epoca forse dei Tarquini, nove in seguito alla Lex Ogulnia del 300 a.c., legge che permise ai plebei l’ingresso nel collegio, sacerdozio augurale che in antico era stato esclusivo appannaggio dei patrizi, basta ricordare il principio di epoca regale che stabiliva, alla morte del re, come il potere auspicale dovesse tornare ai padri. Silla porterà il numero degli auguri a quindici, divenuti sedici con la restaurazione augustea del collegio stesso, seppur questo era ormai sulla strada della perdita progressiva, con l’affermarsi di diverse concezioni dello stato e del mondo, di ogni peso sacrale e politico.(? Si potrebbe imputare il tragico epilogo della gloriosa civiltà Romana, proprio alla rinuncia di una guida divina comunicante attraverso i sacri segni, in favore di una azione problematicamente ed esclusivamente umana? Limitiamoci al difficile interrogativo.
Sintesi della pratica augurale
L’aver affidato tutto quanto è stato descritto finora a dirette citazioni delle fonti più autorevoli, ci ha permesso di conoscere già per sommi capi le linee essenziali dell’operato del collegio e della pratica augurale, di cui è il caso, prima di affrontare la parte conclusiva dell’esposizione presente, fare una veloce sintesi. Gli auguri sono gli interpreti del volere degli dèi e nello specifico di Giove Ottimo Massimo, Optimus, secondo Cicerone, per i suoi benefici e Maximus per la sua forza. Nume sommo per i romani e dio della sovranità, che trasmette per mezzo delle aves, degli uccelli che gli auguri osservano fornendo gli auspicia, conferendo l’imperium. L’atto di trarre gli auspici deriva proprio da aves spicere, “osservare gli uccelli”. Pur se la disciplina augurale restava sigillata all’interno del collegio, essendone la trasmissione affidata all’oralità e vista l’indipendenza che il collegio stesso gelosamente manteneva, perfino rispetto a quello Pontificale, esistevano dei commentari pubblici che hanno consentito agli autori antichi di trasmettercene qualche frammento. Pur avendo l’osservazione del volo delle aves il posto d’onore, Festo ci descrive cinque specie di segni passibili di augurale lettura: signa ex caelo: tuoni e fulmini, che tanto peso politico avevano nella obnuntiatio, nell’annuncio di segno negativo manifestatosi durante un comizio, il conferimento di una nomina o la partenza per una guerra; signa ex quadrupedibus: il comportamento di un animale come il cane, il cavallo o la volpe; signa ex diris: inciampare, starnutire, tutti i presagi minacciosi in genere; signa ex tripudiis: il comportamento dei polli sacri, inizialmente riservati ai generali in guerra che ricevevano segni favorevoli se i polli, una volta liberati, mangiavano ingordamente fino a far cadere il cibo dal becco, sfavorevoli se i polli si rifiutavano di mangiare; tale metodo auspicatorio ebbe sempre più diffusione, vista anche la facilità nel viziarlo abusandone per fini politici, cosa che suscitò le critiche dell’augure Cicerone che dipinse i signa ex tripudiis e quelli ex caelo parodie di auspici; signa ex avibus: forniti dal comportamento degli uccelli, più precisamente dal loro volo, quello ad esempio dell’aquila reale o dell’avvoltoio, o dal loro canto, quello del corvo, del gufo o del picchio. Quando un magistrato possessore dello ius auspicii necessitava di richiedere auspici, gli “auspicia impetrativa”, si faceva assistere dall’augure che lo accompagnava, rispettando il silenzio e facendo attenzione ai dira, al templum. I romani possedevano due auguraculum ufficiali, uno sulla rocca Capitolina e l’altro sulla cittadella di Veio. Giunti su uno di questi od in qualunque altro luogo sacro inaugurato allo scopo, seguendo la prassi che abbiamo già incontrato a proposito dell’inaugurazione di re Numa e che quindi non ripetiamo, l’augure praticamente chiedeva al sommo Giove se fosse fas, cioè conforme a volontà divina, quel che il magistrato aveva deciso di compiere. Quindi osservava la regione precedentemente delimitata e, una volta ricevuti i segni richiesti, generalmente ritenuti fausti se provenienti da sinistra od oriente e nefasti se da destra, li annunciava al magistrato che, reale possessore dello ius auspicii come abbiamo prima ricordato, avrebbe deciso se accettarli o rifiutarli, secondo un formulario augurale-giuridico ben preciso.
Una diversa visione del mondo: aspetti esoterici dell’Augurato
Dopo aver discusso dell’importanza della pratica augurale per l’uomo romano, dell’origine dell’augurato in relazione alla fondazione dell’Urbe, aver fatto una breve storia del collegio augurale e descrittane sinteticamente l’arte nelle sue linee essenziali, non è difficile intuire l’idea che l’uomo contemporaneo può crearsi del mondo romano in generale e del romano cittadino in particolare: un mondo in balia della superstizione, un uomo governato dall’irrazionale, irresponsabile, capace di affidare la presa di una decisione importante al canto del primo passero posatosi su un pero selvatico a sud-est, un mondo ed un uomo afflitti dall’ossessione dei segni e così via. La difficoltà che l’uomo dei nostri tempi sperimenta nell’accingersi alla comprensione del mondo culturale antico o di società a noi alternative reggentesi ancora su principi tradizionali, deriva da un filtro interpretativo costruito su categorie mentali forgiate da quel dualismo gnostico di cui la cultura occidentale e gli stessi nostri più intimi pensieri sono intrisi. (? Come può colui che separa irriducibilmente corpo e spirito, materia e pensiero, comprendere la vita mentale e fisica di chi vive o è vissuto in un mondo “tutto pieno di dèi”, in un tutto vivo ed armonico, di chi considera o ha considerato ogni suo passo su questa terra come una preghiera e non un semplice atto meccanico finalizzato al movimento su una inanimata superficie da un metro ben misurata? Avviandoci così a concludere ed a rispettare il proposito di questo intervento, come enunciato al principio, deve dunque esser chiaro che, per comprendere pienamente il ruolo centralissimo rivestito dall’augurato nel mondo antico, è necessario contestualizzarlo in una diversa concezione del mondo e della vita, che cercheremo di penetrare grazie a qualche ultima considerazione sull’augurato stesso e su alcuni aspetti esoterici della vita dell’uomo Gentile in rapporto col suo mondo. Senza voler attribuire la piena consapevolezza di quello che si sta per dire all’uomo antico in generale, e senza andare alla ricerca di avvenute speculazioni intellettuali in merito, attenendoci all’osservazione del suo vivere concreto, sottolineiamo come quello dei nostri Padri fosse un mondo pieno di dèi, percepito anzi come una vera e propria manifestazione del divino stesso, un mondo trasudante il numinoso, un mondo con cui cercare di armonizzarsi, un mondo da comprendere nel suo ordine, nei suoi ritmi, nella chiara, cosciente od incosciente, intuizione di esser con esso un tuttuno organico. L’uomo Romano, organizzando il suo vivere pubblico e privato in base al Kalendarium e dunque nel rispetto di tutti i dì festivi dedicati alle patrie divinità in base alle ritmiche naturali dei cicli solare e lunare, altro non faceva, parlando in termini ermetici, che compiere un processo di armonizzazione tra microcosmo e macrocosmo, tra umano e divino, tendendo alla perpetua realizzazione di quella Pax Deorum necessaria alla salute dello Stato Romano e del singolo cittadino. Il garante di quest’ordine divino, di questa Pax armonica che sola consente il libero fluire del numinoso è il sovrano Padre Cielo, quel Giove Ottimo Massimo di cui proprio gli auguri erano interpreti. Il termine stesso Augur pare si possa collegare alla radice indoeuropea *aug-, “aumentare” ed al suo derivato *auges-, “pieno di forza”. L’augure era dunque il sacerdote che incarnava questo “pieno di forza”, il numinoso nella concezione arcaica, e lo comunicava per mezzo dell’augurium. Alla stessa etimologia si può far risalire il termine Augustus, designante i futuri imperatori. Ovidio ci dice nei Fasti che:
“I Padri chiamano auguste le cose investite dal favore divino, augusti sono detti
i templi dedicati ritualmente dalla mano dei sacerdoti: anche augurio deriva da
questa parola e tutto quanto con la sua potenza Iuppiter auget”.
La figura dell’augure si delinea sempre più come quella di un iniziato ermeticamente inteso, indagatore ed incarnatore del divino che comunica con gli uomini proprio attraverso il suo volto, la natura medesima e gli esseri che la popolano, comunicazione possibile in quanto l’augure ne è depositario del secreto linguaggio. La sua dignità sacerdotale è ribadita da Plutarco che, interrogandosi sulla irrevocabilità della sua carica, anche quand’egli sia riconosciuto colpevole dei reati più gravi, ci dice che ciò avviene:
“perché augure non è un titolo di onore né di carica ma di conoscenza e abilità.
Perciò impedire ad un indovino di essere un indovino equivale a decidere che
un musicista non è un musicista e un medico non è un medico, non essendo
possibile togliergli la capacità anche se gli si toglie il titolo”.
L’augure si avvia di notte alla luce di una lampada senza coperchio, contempla il cielo in silenzio, silenzio del mondo e silenzio dei suoi pensieri necessario per poter udire la voce dei Numi. Contemplando il Padre Cielo si armonizza con l’intelligenza che governa l’ordine del tutto e mostra agli uomini come poter condurre una vita eccellente, improntata alle virtù, in sintonia con la volontà divina che è la manifestazione della gioviana intelligenza stessa, nel pieno rispetto della libertà individuale in quanto, seppur l’augure svela l’avvenire, non lo determina, consapevole nel suo diritto augurale che tutto può mutare, nell’icontro delle forze che liberamente fluiscono nell’onnicomprensivo ciclo della vicissitudine universale. Che ognuno tragga in sé le salutari conseguenze di una riassunzione di tali concezioni della vita e del mondo, da parte di un uomo contemporaneo che vive sempre più in un’astratta e viziosa realtà separata, purtroppo di non castanediana memoria. VALETE!
(Pubblicato in Pietas numero 0)