8 Ottobre 2024
Tradizione

L’autopsia di una civiltà – Andrea Scarabelli

Quasi un secolo fa veniva pubblicato Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, libro che più di molti altri descriveva la situazione catastrofica in cui viveva – e vive tuttora, ché la situazione è semmai peggiorata – il mondo moderno. Una realtà decadente, materialista e cosmopolita che avrebbe finito per seppellire se stessa. Più di dieci anni dopo la pubblicazione del monumentale studio, Spengler torna sulla decadenza delle civiltà in un libro più agile, ma non meno profondo. È Anni della decisione, tradotto in Italia da Vittorio Beonio-Brocchieri e Julius Evola su impulso di Mussolini, come quest’ultimo rivelò a quello che avrebbe dovuto essere il suo biografo, Yvon de Begnac. Qui il morfologo delle civiltà formula una profezia: l’Occidente sarà preda di due rivoluzioni, l’una bianca, l’altra di colore. La prima avrà luogo in seno all’Occidente stesso, ad opera di tutte le forze che ne hanno favorito il declino. La seconda, invece, verrà messa in atto dai popoli extraeuropei, i quali – bombe demografiche – segneranno la caduta della nostra civiltà, rivolgendosi contro di essa e impugnando le sue stesse armi.

Spengler parla di noi, ahimé, di quel che sta accadendo nei primi anni del nuovo millennio. Un tempo che solamente può essere definito volgare, appestato da deculturazione e basic english, passioni tristi e Internet, confiteor e tagliagole, pontefici su twitter e maitre-à-penser politicamente corretti che sbraitano in prima serata contro l’Occidente. Un’epoca che ha fluidificato tutto: i valori, i confini nazionali, le civiltà, finanche la sessualità, in nome della promozione dell’Individuo senza Identità, organico al capitale finanziario apolide che svuota gli Stati nazionali per favorire una libera circolazione di merci e uomini. Questo il diorama di quel che siamo diventati, l’autopsia di una civiltà. Che fare per sopravvivere a questo tempo, a questa fase storica, a noi stessi?

Prova a rispondere a queste domande Gianfranco de Turris, in un volumetto appena pubblicato da Idrovolante, casa editrice giovanissima ma assai promettente diretta da Roberto Alfatti Appetiti. Il sottotitolo di Come sopravvivere alla modernità (pp. 166, € 14,00) è Manualetto di autodifesa per il XXI secolo. Parole che contengono la quintessenza del libro, breviario indispensabile per chi voglia affrontare attivamente e lucidamente il mondo moderno.

I compagni di questo viaggio nel cuore notturno della Storia sono Julius Evola ed Ernst Jünger, accanto a intellettualità ereticali come Yukio Mishima e Adriano Tilgher. Al di là delle differenze reciproche, tutti concordano su un aspetto: non si può eludere la profonda necessità che caratterizza il nostro tempo. La situazione in cui ci troviamo, per quanto disperata, è il prodotto di una lunga serie di fattori, ineludibili. La crisi che attanaglia la nostra civiltà va riconosciuta, chiamata per nome e affrontata: non fuggire da essa, ma esporsi alle domande che ci pone. Addirittura, può essere assunta come prova, come un mezzo per saggiare il proprio carattere, in mezzo alla catastrofe, al cedimento di tutti i valori. Certo, è necessario mutare il proprio sguardo sulle cose.

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Da qui l’attualità delle preziose indicazioni di questo manualetto, versione aggiornata dello jüngeriano Trattato del ribelle e di Cavalcare la tigre. Libri che non hanno timore di prendere di petto la crisi del mondo moderno, in tutte le sue sfaccettature, in modo, tuttavia, radicalmente alternativo. Sulla scorta della migliore filosofia della storia novecentesca, queste pagine non si lasciano ammaliare da movimenti e fenomeni di massa che vorrebbero farci uscire dalla crisi: sono tutti fratelli gemelli, che recano stendardi di una stessa ideologia, trasmettendo le stesse parole d’ordine. Global e no global, materialisti e spiritualisti, antagonisti dell’ultima ora pronti a lanciare i propri strali su Facebook, foraggiati dal Sistema che vorrebbero combattere, in prima serata… Non sarà un Dio a salvarci, come ammoniva Heidegger negli anni Cinquanta, ma nemmeno le controfigure del potere o i gendarmi del Pensiero Unico. Non saranno loro a condurci al termine della notte. Non saranno strilloni e bombaroli, né i laudatori del tempo che fu o i progressisti cantori di un’utopia scagliata in futuri sempre più lontani. Non saranno nemmeno le vestali della Rete come nuova via alla democrazia, né pontefici 2.0 che definiscono Internet un dono di Dio (tutto vero, ahinoi).

Su cosa fare affidamento, insomma? Su una differenziazione interiore, che può consentirci di attraversare questo nostro tempo senza perderci in esso. Gianfranco de Turris riporta il dibattito nel nostro io, l’unico luogo nel quale il veleno può essere trasformato in farmaco. L’unica forma di antagonismo possibile è la decolonizzazione del proprio immaginario dalle malie della modernità: occorre vincerle interiormente ed essere esempi, testimonianze incarnate di un altro modo di rapportarsi alle cose. È l’apolitìa degli stoici, che non comporta una rinuncia o un’alienazione dal mondo, ma una visione differente della realtà. Non è un’obiezione di coscienza, ma una versione aggiornata del realismo eroico. Al punto, scrive de Turris, di «rendersi permeabili al Mondo Moderno e farsi attraversare da esso come acqua che passa per le maglie di una rete», diventando così visibili, «perché si ha un atteggiamento del tutto differenziato rispetto a coloro che ci circondano», e invisibili, «perché il mondo moderno non ci tocca». Un atteggiamento che richiede una continua vigilanza interiore, ma che si fonda su una scommessa epocale: mantenere un’identità in un’epoca che si fonda sul suo annichilimento. Mantenersi in piedi in mezzo alle rovine, come ammoniva Evola negli anni Cinquanta. In un mondo di maschere, ricordarsi di avere un volto.

Il sistema occhiuto e totalizzante che regge le nostre sorti, in modo sempre più ingerente e onnipervasivo, ha un’identità terribile, che risponde al nome di tecnica. È una tecnica sempre più immateriale e impersonale: generata dall’uomo, gli si rivolta contro, lo supera, lo rende antiquato, condannandolo a un’irrealtà senza pari. È reale solo ciò che appare in Rete, quello strumento che ci ha privato del nostro io, individuale come relazionale, trasformandoci in sonnambuli sempre attaccati a computer e smartphone, sincopati in attesa dell’ultimo tweet, fanatici dell’always connected e della comunicazione in tempo reale (come se il tempo reale fosse quello internettiano…), capaci ormai di condividere il nostro vissuto solo su Facebook… Per sottrarsi a questa espropriazione occorre, ancora una volta, lavorare sulla propria individualità, utilizzando i mezzi offerti dalla tecnica senza che siano essi ad utilizzare noi. Edificare una cittadella interiore, insomma, nella quale poter costituire una reale alternativa al Mondo Moderno. Qui – e solo qui – è possibile costituire un fronte da cui sia possibile contrattaccare, non di certo affidandosi a manifestazioni esteriori che spesso non fanno che puntellare il sistema stesso.

Quella cui ci chiama Gianfranco de Turris è una filosofia della responsabilità, quanto di più rivoluzionario possa esserci, in un tempo “post”, “trans”, “liquido” e “debole” come il nostro. È un appello, è il manifesto di un nuovo modo di essere, moderno e tradizionale a un tempo, antichissimo e nuovissimo. Chi si dota di questo esoscheletro ideale, chi adotta questo stile, potrà affrontare le ore più buie senza diventare a sua volta un’ombra.

Nella consapevolezza che, per quanto disperato, questo viaggio notturno finirà. E non è escluso che – come la malattia rivela gli anticorpi, forze usualmente sopite – possa insegnarci qualcosa di più su noi stessi.

Andrea Scarabelli

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