Antefatto
Tommaso L. viveva in via Leopardi, casa popolare. madre nata vecchia, lui accartocciato dalla poliomelite, una gamba rigida, rimasto un po’ piccino, fronte alta, occhi trasparenti come i santi, era lì seduto accanto alla finestra nella sezione della sua camera da pranzo. Non aspettava la visita delle pie donne ma dei suoi giovani camerati con cui parlare di storia e strategie del presente, fumando lento mezza nazionale. Calabrese fiero, aristocratico, acuto d’intelletto, s’era costruito da solo la cultura, leggendo, leggendo come l’omonimo della sua strada. Il Secolo d’Italia gli pubblicò un articolo sull’eroe indipendentista corso Pasquale Paoli, ma dei suoi scritti, appunti presi su fogli o nelle agende non c’è rimasto niente. Camerata sì ma cattolico fervente Tommaso ci chiedeva di accompagnarlo alla scoperta di nuove epifanie del sacro, così a giro si partiva da Padre Pio a madre Speranza, fino a sbarcare nel porto dei pentecostali vicino a S. Croce in Gerusalemme a Roma. A farla breve, per chi scrive, fu uno scendere dalla nave della militanza dura e pura, fermarsi per un poco in quel gruppo di matti dello Spirito Santo. Così mi capitò di ritrovarmi missionario laico del Vangelo a Tiburtino III mandato a bussare per le case dal parroco di S. Maria del Soccorso. A mente una sola porta mi fu chiusa in faccia, le altre si aprivano per l’ accoglienza, storie personali messe sul tavolo tra racconti, bisogni, interrogativi e tanto ma proprio tanto caffè. Dopo molti anni ci sono ritornato per le noiose puntate d’un corso di formazione per docenti, poi ancora per sostenervi il concorso a cattedre di Storia dell’Arte, il tutto si svolgeva nelle aule dell’Istituto Statale d’Arte via del Frantoio, complesso affascinante compreso il piccolo bar e la sua giovane barista. Negli anni ho avuto poi tanti studenti che sbarcavano dalla Metro B S. Maria del Soccorso al liceo scientifico dove ho avuto la fortuna d’insegnare. Queste le radici che mi legano a questa borgata romana vilipesa, come le altre, dal drago della speculazione edilizia nel secondo dopoguerra.
C’è una leggenda “partigiana” che attribuisce agli sventramenti del centro storico la nefasta ghettizzazione sociale degli sfrattati nelle borgate periferiche di Roma. Un confinamento classista dei non abbienti espulsi dalla cuore della Capitale dell’Impero in virtù d’ un progetto d’immagine non coniugabile con la presenza dei diseredati, quasi una pulizia sociale. I fatti non avallano questa tesi strumentale, se non per una piccola percentuale, mediamente tra il 5-6% legata all’attuazione del Piano Regolatore di Roma del 1931 a firma Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni, l’uno architetto l’altro ingegnere. Dopo la supervisione di Benito Mussolini e relativo assenso, il Piano fu adottato dal Governatorato e finanziato, con legge, nel 1932, da lì si passò alla stesura dei Piani Particolareggiati per ciascun intervento programmato. La prima “borgata” romana era stata Acilia, ante PRG. una tipologia d’insediamento rurale, le sue casette Pater a un solo piano con tetto a padiglioni erano dotate mediamente di 1000 mq di terreno orticolo. S. Basilio aveva recepito la stessa filosofia seppure gli orti, per ragioni anche d’uso maggiore dello spazio, erano scesi alla metà 500 mq. Questa filosofia di dare luogo a borghi ben definiti, autonomi, mantenendo le radici della sua popolazione nel solco dell’agricoltura, orgoglio dell’economia nazionale come testimoniavano le bonifiche pontine, nei fatti si rivelò un intervento ingenuo. I “paesi giardino” tradirono purtroppo le aspettative di progetto perché le comunità di insediamento tali non erano, non possedevano un humus che fungesse da collante, erano variegate per cultura quanto per esigenze di lavoro. Questa constatazione guidò la mano nel progetto di Tiburtino III e Pietralata, non più insediamenti rurali ma un’edilizia più intensiva anche per ragioni del rapporto costi/benefici. Le nuove borgate erano nel solco del Quarticciolo, avamposti urbanizzati della futura espansione della città eterna che dai 937.177 ab. del ’31 doveva sfiorare i due milioni nell’arco di venticinque anni.
Certo è che le borgate furono la risposta alla domanda di case della fascia meno abbiente della popolazione romana, quella che aveva cinto di baraccopoli la città appena fuori il perimetro delle mura aureliane. Vi dico che la percentuale maggiore degli abitanti di Tiburtino III veniva dalla bonifica delle baracche di Porta Metronia ( quella di F. Totti!), rappresentava il 26,50% cui aggiungere un altro 12% provenienti da altri insediamenti “spontanei” sorti dall’Ostiense fino a Piazza Mancini ( dove ora c’è il MAXXI), poi c’erano gli sfollati dai vari dormitori o struttura d’accoglienza provvisoria (12.50%) e a seguire per sanare situazioni di emergenza abitativa, solo uno scarso 10%, nel nostro caso, veniva dagli sventramenti del centro, compresi però alcuni interventi di riqualificazione e risanamento effettuati a Trastevere. Riportiamo un breve stralcio dell’ing. Giuseppe Nicolosi relativo alle scelte progettuali seguite sia per Pietralata I che per Pietralata II (poi Tiburtino III). Leggiamo cosa scrive sulla rivista L’Ingegnere del settembre 1936 a proposito di “Abitazioni provvisorie ed abitazioni definitive nelle borgate periferiche”: “La concezione di queste borgate si riconnette ad una visione realistica…che corrisponde alle esigenze attuali dell’edilizia popolare a Roma. L’essere le aree prossime alla città, come è richiesto per essere la popolazione polarizzata sul centro di lavoro cittadino, impedisce una concezione ultra estensiva; come pure lo impedisce il costo dei servizi generali. Tenuto conto di ciò…viene a cadere la possibilità di una impostazione agricola; in conseguenza di questo si è preferito non assegnare aree individuali,che…non consentirebbero uno sfruttamento orticolo.” Si passa dal villaggio rurale al paese urbanizzato, frontiera dell’espansione cittadina ma anche prova di quartieri operai in previsione dello sviluppo industriale di Roma a nord-est. Nel 1936 avvennero le prime assegnazioni di alloggi a Tiburtino III, 488, il progettista per conto dell’Ifacp era l’ing. G. Nicolosi al quale si affiancherà poi l’arch. Roberto Nicolini che abbiamo già incontrato al Quarticciolo. La neoborgata insisteva su un’area rettangolare confinante a N con la consolare Tiburtina, a est con via Grotte di Gregna e a sud-ovest col Forte Tiburtino ( inaugurato nel 1884) compresa la caserma dei Granatieri di Sardegna, complessi oggi in disarmo. L’Ifacp scelse per questi insediamenti periferici soprattutto le case a schiera con altezza massima prevista di due piani comprensive di sei alloggi, ma in realtà le tipologie abitative realizzate furono diversificate, come vedremo, anche per spezzare la monotonia dell’intervento. Le condizioni ambientali del terreno, di proprietà del Governatorato, erano ottimali per una progettazione ex novo, non condizionata da quelle presenze storiche che a Roma sono i dissuasori dell’ ossigeno creativo. Lì, come al borgo d’ispirazione medioevale del Quarticciolo, era possibile sperimentare il modello di insediamento residenziale, non più agreste, di un quartiere di edilizia sì popolarissima ma comunque virtuosa per concezione urbanistica, un modello di “paese urbano” non dissimile, per concezione, da quelli assai diffusi nelle metropoli europee, la dove la città vecchia funge da polo privilegiato per il lavoro, mentre le aree residenziali sono periferiche, non di rado a debita distanza. E questo presuppone l’efficacia dei collegamenti che nel PRG del ’31 doveva privilegiare quello ferroviario con un anello e cerniere strategiche di penetrazione verso il centro compresa la metropolitana. Dicevamo del terreno aperto e sgombero da fetazioni archeologiche, era adatto a studiare attentamente il giusto orientamento dei fabbricati per conseguire la migliore resa termica, propria dell’antica architettura romana, il raggiungimento di un coefficiente energetico ottimale ante litteram. Nell’area d’intervento si dovettero però eseguire gravosi movimenti di terra per livellare il piano di campagna, questo richiese opere maggiori di fondazione, anche perché il terreno rivelava presenza di acqua, data la vicinanza dell’Aniene, impedendo di “appoggiare” le case su fondazioni in superficie. Queste le tipologie di abitazioni previste dal progetto: tipo A un solo piano, quattro abitazioni ciascuna di due vani più servizi, il lotto era diviso orizzontalmente in due abitazioni ciascuna con un solo fronte espositivo. Casetta B, monopiano, quattro alloggi di due vani più due di un solo vano più servizi, prevedeva un allungamento tale che, ciascuna residenza si affacciasse su entrambi i fronti. Cambiava anche l’orientamento per ottimizzare il soleggiamento: N-S per il mod. A, E-W per il Mod. B. Queste abitazioni prevedevano uno o due vani più W.C. con un ingresso detto anditino che schermava per privacy la/le stanze e dal quale, per risparmio di superficie, si accedeva al gabinetto. Erano dette a padiglione perché modulari per forma e dimensioni nonché leggere per i materiali posti in opera, sprovviste di tetto ma con copertura piana a lastrico solare.
I fabbricati ad un solo piano vennero lasciati presto da parte per quelli a due piani di tipo M ed N clonazione verticale del tipo A e B e le varianti M1 ed N1, passando da un primo insediamento estensivo ad uno intensivo per le ragioni esposte dallo stesso Nicolosi, ma diversificato per tipologie così da evitare la noia grigia dell’uniformità della borgata. Nessuno disconosce il carattere molto popolare delle case per superfici utili, n. di vani e servizi, si andava dalla monocamera (B) alle bicamere (A), con tramezzature a solo paravento, gabinetto provvisto solo di tazza, piccolo angolo cottura aperto. Idem per l’autarchia dei materiali prescelti, data l’austerità, là dove si fece uso del conglomerato cementizio con la pomice che assicurava pesi minori e maggiore coibentazione e per risparmiare i solai di copertura erano appunto lastrici solari protezionati da una lingua di asfalto bitumato spalmata su un’orditura di travetti in ferro collegati da tavelloni in pomice senza cretonato sovrastante.
Allora perché titoliamo borgata del Paradiso? Beh sapete gli unici bambini che sapevano nuotare a Roma erano del Tiburtino III, la loro scuola elementare Renzo Bertoni (un legionario) era provvista di piscina natatoria più servizi. Aveva dinanzi una vasta area giardino con sei padiglioni in legno riscaldati per lezioni all’aperto, laboratori e palestra. La pinetina del quartiere si deve anche alla piantumazione annuale di arbusti da parte degli scolari per la “festa dell’albero”. Ma oltre la scuola elementare, c’era il nido comunale gestito ONMI e poi a salire la scuola secondaria di avviamento industriale maschile sempre attiva nella partecipazione alle “Giornate della Tecnica” promosse dal ministro G. Bottai. Nelle palazzine tipo N1 Nicolosi ripropose le case a ballatoio già utilizzate a Littoria, cioè gli accessi alle singole abitazioni avveniva da balconi continui che al Piano terra formavano un porticato, il tutto sostenuto da un allineamento di pilastri in c.a., case «esemplari per armonia tra involucro e contenuto», finite nei manuali dell’architettura razionalista.
Tutte le residenze erano provviste di lavatoi e nei cortili aperti di stenditoi comuni, c’erano anche i forni comuni per cuocere il pane della settimana. Le casette a padiglione o le palazzine, alcune a C, avevano ampi spazi aperti sul davanti per favorire il gioco dei bambini e la socializzazione tra gli adulti, con platani e panchine. Un’abitazione monocamera, servizi compresi, sfiorava in tutto 20 mq di superficie utile, circa 35 per quelle di due vani. Sull’area insistevano poi padiglioni comuni utilizzati come magazzini o spazi di aggregazione collettiva compresa la casa del fascio poi trasformata in caserma dei carabinieri. Tra il 1936 ed il 1940 erano stati realizzati ed assegnati 1.433 alloggi su complessivi 16 lotti. Nel 1938 fu consacrata la chiesa di S. Maria del Soccorso nata dalla matita dell’arch. Tullio Rossi, la facciata a salienti ti dice che ha tre navate, ricorda il nostro meraviglioso romanico per la semplicità, la luce interna filtrata, le capriate in legno a sorreggere il tetto della navata centrale. Dentro conserva esposta l’immagine della Madonna del soccorso, un’effige dipinta nell’Ottocento già conservata nella cappella privata della famiglia Pasquali e donata alla neonata comunità parrocchiale che preservò dai bombardamenti alleati.
Mussolini in persona fece visita alla borgata nel 1936 anno delle prime 488 assegnazioni, complimentandosi per i risultati conseguiti e favorendo col suo giudizio “ sono felicemente impressionato” gli interventi dell’Ifacp per le opere di urbanizzazione primaria, fogne e strade e successivo complesso scolastico. La locale sede del PNF, dipendente da quella di Pietralata, era intitolata al camerata Alessandro Parisi e contava ben 2000 aderenti molto attivi non solo dal punto di vista politico ma nel comunicare le esigenze della borgata come avvenne dopo l’alluvione dell’Aniene nel ’37, in pratica fungeva da voce del quartiere per chiedere la soluzione dei problemi emersi compresi i trasporti. Quando ci fu il razionamento dei viveri, durante l’occupazione tedesca, i bambini di Tiburtino III avevano ancora la mensa scolastica, certamente povera vista la crisi bellica, però c’era.
Nel dopoguerra la borgata implode nel degrado, le vecchie abitazioni fatiscenti vengono rase al suolo, ne restano in piedi solo sei, ai razionalisti Nicolosi-Nicolini, succede un gruppo organicista (APAO) guidato da Bruno Zevi coadiuvato da L. Quaroni e P.M. Lugli, i caratteristici lotti giallini che erano il logo del quartiere, scompaiono nella Roma sparita. Si va in verticale dai 4-5 piani fino ai classici 7 piani della palazzina romana, scheletri in cemento armato tamponati da pannelli prefabbricati in gesso, tipologia uniforme, colore logicamente grigio come l’intervento. Tiburtino si scioglie come una scamorza nella padella circostante, non ha più un’identità riconoscibile al contrario delle altre borgate. Forse è anche per questa voglia di riconquistarsi un’identità precisa, una dignità di quartiere che la borgata sale alle cronache astiose dei pennivendoli per manifestazioni politicamente scorrette contro il centro di accoglienza degli immigrati gestito dalla CRI. Tiburtino III al Collatino, nel dopoguerra, era una mini Stalingrado del P.C.I., oggi sente la voce della destra radicale, seguendo una lezione di politica nelle periferie che fu del coraggioso Teodoro Bontempo.
Emanuele Casalena
Bibliografia
Luciano Villani, Le borgate del fascismo.Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Editore:Ledizioni,2012.
Borgate ufficiali di Roma, wikipedia.
Archivi degli Architetti, Giuseppe Nicolosi, Roma. Quartieri di residenza popolarissima, Pietralata II ( Tiburtino III, S. Maria del Soccorso), I.C.P., Giuseppe Nicolosi 1935-37.
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