“Cremona, 6 settembre 1920… I social-comunisti… sono esasperati. Camminano a squadre, con fare minaccioso, aggrediscono i fascisti isolati… si attende la sera per fare il colpo grosso. Vengo informato che essi mi avrebbero atteso dopo cena all’Aquarium. Alcuni fascisti… vengono a casa mia all’ora di cena per pregarmi di non uscire, perché cose gravi si stanno tramando ai miei danni. NATURALMENTE IO NON POSSO DIMOSTRARE DI AVERE PAURA, (maiuscolo mio ndr) e, verso sera, mi reco all’Aquarium , bar da me frequentato”
(Roberto Farinacci)
Inizio con una considerazione facile facile, tanto da sembrare quasi banale, ma di quelle che ogni tanto occorre fermarsi a fare, per non inseguire, nella valutazione e nel racconto di cose di storia, solo teorie socio-psicologiche che, alla fin fine, si avvitano su se stesse.
Me la suggerisce il racconto di un “fatto”, trovato in una cronaca del fascismo a Città di Castello, che sto sfogliando in questi giorni: una piccola città, nella quale si ripropone, però, una situazione comune a tante altri centri, in tutta Italia.
Il 27 marzo del 1921, 22 squadristi perugini, chiamati in soccorso dai loro camerati, arrivano a Città di Castello (che ha fama di essere “rossissima”) con un camion e un’automobile; pur accolti a pistolettate all’ingresso in città, improvvisano, insieme con i 5-6 fascisti locali, un corteo rumoroso ma pacifico per le strade deserte.
Dopo il ferimento a fucilate, però, di uno di loro, se ne vanno all’assalto della Camera del Lavoro, dove si sono radunati “a difesa” centinaia di sovversivi; i locali sono espugnati, dopo aspra lotta, verso le 23, con la fuga degli occupanti e il successivo fuoco “redentore”.
Niente di specialmente rilevante: un episodio come ne avvengono tanti altri in tutta Italia, in quel convulso primo semestre del 1921.
Prima di procedere oltre, perciò, credo sia opportuno innanzitutto spiegare il perché della scelta frequente dell’ obiettivo costituito da Leghe e Camere del Lavoro, mentre molto rari, sono, di contro gli assalti fascisti a sedi di Partiti avversari.
Lo farò con le parole di Dino Grandi, avvocato alle Assisi di Milano nel processo a carico dei responsabili della strage di palazzo D’Accursio:
“La lega è il piccolo Governo locale, la Camera del Lavoro è il Governo provinciale. Per licenziare un operaio occorre il permesso della Camera del Lavoro. Al datore di lavoro è inibita ogni resistenza. Occorre, durante i giorni di sciopero che si susseguono, il permesso della Camera del lavoro anche per seppellire i morti…Vi è un nuovo sistema di diritto penale, con nuove norme, con nuove esecuzioni di pene. Tra queste le essenziali sono due: il boicottaggio e la taglia. Il boicottato non lavora… si ordina alle botteghe di non dargli viveri, carne, pane, alimenti… si vieta al medico e alla levatrice di accedere a casa sua…
La taglia è la multa che il proprietario paga all’Organizzazione perché colpevole di non aver eseguito a puntino le direttive… È stato calcolato che soltanto nell’estate del 1920. Più di due milioni di lire sono state versate sotto la speciosità di taglie alla Camera del lavoro di Bologna ed alle piccole Leghe locali”
Naturale, quindi, la scelta fascista dell’obiettivo da colpire.
Su questa strada procedono le squadre, con un dato comune che va qui sottolineato: la sproporzione numerica fortemente a loro sfavore (mentre, in quanto “attaccanti”, come insegna ogni buon manuale militare, avrebbero dovuto essere almeno nella proporzione di 5 a 1 rispetto ai loro avversari):
− a Torino, nella città di “Ordine Nuovo” e della occupazione delle fabbriche, il 25 aprile del 1921, dopo l’assassinio a tradimento di un loro camerata, sono 34 gli squadristi che distruggono la Camera del Lavoro (e uno di loro, l’universitario Amos Maramotti, morrà);
− a Perugia il 23 marzo del 1921 bastano 21 squadristi della “Disperata” fiorentina, giunti col camion, e che non vogliono attendere l’arrivo degli altri due 15 ter con i rinforzi, bloccati per strada dalle imboscate nemiche, a seminare il panico in città e dare fuoco alla sede sindacale;
− a Grosseto, il 26 giugno, arrivano in 13 e, per una settimana, fanno lo scompiglio e polverizzano l’intera organizzazione sovversiva
− nella “rossa” Bologna, prima che iniziasse la buriana della primavera squadrista, già la notte del 4 novembre del 1920, è tale il terrore che incute qualche decina di fascisti schiamazzanti, che Bucco, il Segretario della Camera del Lavoro, ingolfata da centinaia di Guardie Rosse provenienti anche da fuori città (ci sono anche dei comunisti profughi dall’Ungheria), chiama in soccorso le forze dell’ordine… e mal gliene incoglie, che nella perquisizione dei locali vengono sequestrate 76 rivoltelle, una decina di fucili e tubi di gelatina
Potrei proseguire per pagine intere, ma sarebbe anche noioso.
Potrei dire che tutto è iniziato il 15 aprile del 1919, quando alcune centinaia di dimostranti “nazionali” mettono in fuga, a Milano svariate migliaia di minacciosi scioperanti sovversivi e concludono la loro azione con la distruzione dell’Avati, ma è storia nota.
Potrei dire e lo dico, che di questa inferiorità socialisti e compagni sono ben presto consapevoli, tanto che su “L’Avanti” del 20 settembre 1920, quando, cioè, si erano appena concluse le occupazioni delle terre e delle fabbriche che avrebbero dovuto costituire il primo tempo della rivolta sovietista, e l’offensiva fascista era ancora tutta là da venire , se si eccettua l’episodio triestino del Balkan, appare questa sconcertante ammissione:
“E possiamo egualmente riconoscere che, nell’uso della violenza e della prepotenza, sono meglio preparati e più fortemente muniti i nostri avversari. Sì, a Milano, a Roma, a Pola, a Trieste, a Fiume, l’Arditismo ha dato largo esempio della propria capacità all’azione, infinitamente superiore alla nostra. Noi saremmo davvero ridicoli, più che a quelli degli altri, ai nostri stessi occhi, se non ci accorgessimo che, mentre taluni dei nostri fanno la voce grossa, i nostri nemici ingrossano il pugno e colpiscono forte ed inesorabilmente”
Prodromi di un vittimismo che sarà presto di moda, che non spiega nulla, che si rifugerà dietro il paravento della connivenza delle Forze dell’Ordine, della disparità di armamento, ma faticherà a riconoscere una differenza di caratteri e psicologie che è, invece fondamentale per capire.
Con qualche eccezione: l’organo ufficiale della Confederazione Generale del lavoro, trattando, a fine gennaio del 1921, dei conflitti di Bologna e Modena, così si esprime:
“Poi, spettacolo triste ed umiliante! Si hanno le fughe, che veruna giustificazione sottrae alla riprovazione ed alla attestazione di un contegno onde ormai vanno famosi troppi teorizzatori della violenza… i quali non hanno coscienza del loro dovere nei momenti più difficili, e sono i primi a scappare, quando maggiormente è richiesta l’opera loro e la loro presenza. L’incoscienza di coloro che determinano situazioni insostenibili è tanto più dannosa, in quanto alle conseguenze di esse essi si sottraggono affibbiandole a quelli che devono restare e soffrire”
Non ho fin qui accennato – e non intendo farlo ora – a episodi di coraggio individuale del quale furono protagonisti singoli fascisti, spesso destinati a diventare “martiri della causa”; ciò di cui sto parlando è la capacità dei mussoliniani di “fare gruppo”, tutti insieme, in una sorta di sfida a dimostrare più coraggio, che coinvolge tutti: combattenti anonimi della trincea e Arditi pluridecorati, anziani “tostissimi” e imberbi giovanetti alla loro prima esperienza di fuoco
E’ quello che Pavolini efficacemente riassumerà nella prefazione a “Squadrismo fiorentino” di Frullini:
“E gli indimenticabili vivi, i “vecchi”: rivelazione dei temperamenti colti nell’istante dello scatenamento, nell’istante lirico; crogiuolo di ceti: corto circuito di precocie, di inquietudini, di entusiastiche dedizioni. Vita di capannello e di spedizione, combattimenti alle cantonate, alle siepi. Disperati litigi. Armi spaiate. Berretti da ciclisti, elmi, baveri alzati. I gagliardetti. Il fascio…”
Insomma, a fare la differenza, rispetto ai loro avversari, e in maniera determinante, è la “grinta”, il “coraggio” l’ “animosità” o chiamatelo come vi pare… è quella voglia di “non cedere” che Farinacci testimonia, a modo suo, nel brano riportato all’inizio
In un’ epoca che ci ha insegnato a disprezzare il coraggio fisico e a considerare il 99% di coloro che ne sono dotati poco più che dei paranoici con vene di sadismo (“bulli di periferia” in confronto è un affettuoso soprannome), credo che questo, però, con riferimento alla “Primavera di bellezza” non vada dimenticato.
In un noto film (Zulu, di Cy Endfield, 1964) sulle guerre anglo-zulu, dopo che, a Rorkes Drift 139 soldati britannici hanno resistito e convinto alla ritirata svariate migliaia di guerrieri Zulu, l’Ufficiale in comando si rivolge al fido Sergente Maggiore anima della difesa, e gli fa (più o meno, vado a memoria), accennando all’uso dei nuovi fucili: “Merito dei Martini-Henry” e quello, impassibile: “Sì, i Martini Henry, certo, ma con un po’ di fegato dietro”
Un insegnamento da tenere sempre presente.
Giacinto Reale