8 Ottobre 2024
Ārya

Le caste e la tripartizione indoeuropea – Riccardo Tennenini

Purushartha (Dharma, Artha, Kama, Moksha) e Āśrama (Brahmācarya, Grihastha, Vanaprastha, Saṃnyāsa) sono i due elementi su cui si sviluppava la vita tradizionale. Dharma sono i valori morali o quello che in Occidente è la Religione. Questo primo Āśrama ricopre il ruolo di Brahmācarya cioè la vita religiosa con il rito, fondamentale, dello upanayana. È lo stadio Purushartha (Dharma, Artha, Kama, Moksha) e Āśrama (Brahmācarya, Grihastha, Vanaprastha, Saṃnyāsa) sono i due elementi su qui si sviluppava la vita tradizionale. Dharma sono i valori morali o quello che in Occidente è la Religione. Questo primo Āśrama ricopre il ruolo di Brahmācarya cioè la vita religiosa con il rito, fondamentale, dello upanayana. È lo stadio del giovane studente religioso, il brahmācarin che deve avviarsi e completare lo studio del Veda presso un maestro (guru), praticando una rigida castità. L’astinenza sessuale e la purificazione dai bisogni terreni favoriscono una completa dedizione alla meditazione che conduce alla realizzazione spirituale giovane studente religioso, il brahmācarin che deve avviarsi e completare lo studio del Veda presso un maestro (guru), praticando una rigida castità. L’astinenza sessuale e la purificazione dai bisogni terreni favoriscono una completa dedizione alla meditazione che conduce alla realizzazione spirituale. Artha la realizzazione individuale tramite la propria famiglia, legata ai beni materiali, quindi comprende lavoro e benessere economico. Grihastha si riferisce alla formazione e al mantenimento di una famiglia, quindi al matrimonio e a tutti i doveri che ne seguono: l’occupazione lavorativa, l’educazione dei figli e far sì che il proprio nucleo familiare segua le regole del Dharma. Kama è il piacere sessuale benessere e della felicità in termini psicofisici. In questa penultima fase della vita si ricopre il ruolo di Vanaprastha, inizia nel momento in cui si abbandonano i doveri legati alla casa e alla famiglia, poiché compiuti, per cercare i bisogni personali e interiori. Si ha quindi un periodo di transizione, dalla vita dedita a Artha and Kama, benessere, sicurezza e piacere sessuale, al Moksha, ricerca spirituale, costellata di graduale allontanamento dalla vita sociale. Moksha la liberazione spirituale. Quest’ultima fase ricoprirà il ruolo di Saṃnyāsa asceta itinerante dedito esclusivamente alla conoscenza di Brahmā vivendo solo di elemosine privo di qualsiasi possesso, di casa o di focolare. Purushartha e Āśrama si svolgono all’interno di un sistema istituzionale di caste. Nei Veda leggiamo: «La sua bocca divenne il brahmano; le sue braccia divennero il principe-guerriero, le sue gambe l’uomo comune che esercita un mestiere. L’umile servitore nacque dai suoi piedi» (1).

Come dal sacrificio di Ymir della Tradizione nordica si dice: dalla carne di Ymir dal suo sangue il mare, gli alberi dalla chioma, dalle sue sopracciglia Miðgarðr per i figli degli uomini, furono tutte le tempestose fu fatta la terra, dalle ossa le montagne; dal cranio il cielo, fecero gli dèi benedetti dal suo cervello nuvole create. Il sacrificio del Purusa vedico (differente dal Purusa descritto dal Sāṃkhya.) è inteso come «Uomo cosmico»: l’essere primordiale increato che, secondo i Veda, fu sacrificato per dare origine al mondo manifesto e istituzionalizzate le caste regolata dagli Dèì. Casta dal portoghese vuol dire razza pura che deriva dal latino castus puro (Arjuna vuol dire il puro) e l’equivalente sanscrito di varṇa che vuol dire colore. Il termine varṇa è relazionato al sistema delle caste in quanto identifica il contrasto razziale tra il colore della pelle, scuro nelle tribù aborigene dell’India dravidiche con quello chiaro delle tribù degli Arii che invasero l’India intorno al XX secolo a.C. Un’altro elemento caratteristico lo possiamo vedere nel Dio Indra rappresentato come loro stessi: guerriero, protettore degli Arii, che li guida in battaglia. La sua figura è gigantesca, ha barba e capelli biondi avvolti in un turbante, e marcia in battaglia su un carro trainato da due cavalli sauri brandendo in mano la vajra, arma che simboleggia la folgore. Indra è l’equivalente di Zeus della Tradizione greco\romana o Thor della Tradizione nordico\germanica.

Le caste sono state istituite seguendo la suddivisione tripartitica dei guna e delle azioni. I brahmani sono l’autorità spirituale, coloro che svolgono il rito sacerdotale nel quale prevale sattva, ispirati dalla serenità, autocontrollo, austerità,ecc. Le loro azioni sono l’inazione nell’azione e azione nell’inazione, costui è il sapiente, il realizzato, il soggetto di ogni azione(2) Seguono la jnana nishtha (via della Conoscenza) del Sāṃkhya. Bisogna considerare che quando si parla di conoscenza o sapienza non si parla assolutamente in maniera intellettuale di natura psicologica ottenuta con l’esperienza ma di una conoscenza di tipo metafisico ottenuta tramite una rivelazione chiamata vidyā, cioè la conoscenza dell’Assoluto che non è l’illusione del mondo relativo ma l’esatta comprensione dei Veda che riesce a purificare il buddhi (intelletto) contribuendo alla liberazione del dolore.

Gli kṣatriya sono il potere temporale coloro che svolgono le funzioni guerriere o politico-amministrative nel quale prevale rajas su sattva sono dettati dal coraggio e ardimento. Le loro azioni sono prescritte dalla Legge (Dharma) e dalla loro casta senza esserne attaccati per l’azione i suoi risultati e senza avere ambizioni personali da conseguire. «Libero dal desiderio, controllando la mente e il sé, avendo rinunciato a tutti i possessi e agendo soltanto con il corpo, egli non commette nessuna azione disarmonica» (3), seguendo la Karma nistha (Via delle Opere) che consiste nel compimento delle opere tramite conoscenza della rettitudine e del pervertimento. I riti vedici, così, sono destinati soltanto a loro che aspirano a Brahmā senza possederne la reale conoscenza conseguita invece dai brahmani: deve astenersi da essi esclusivamente colui che, nel ricercare la dimora di Brahmā, sia libero dal desiderio. L’assegnazione dei due sentieri a due diverse caste non avrebbe ragione d’essere se il Signore avesse prescritto la commistione di conoscenza e di riti vedici(4). Con l’abolizione dell’ignoranza metafisica avidya ci fa compiere un graduale passo verso la Mokṣa. Non bisogna neanche considerare diversi la via della Conoscenza del Sāṃkhya e quella delle opere dello Yoga, perché entrambe arrivano alla stessa conclusione che le loro azioni sono l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione perché concepiscono il mondo relativo come un’ illusione, quindi le azioni compiute nel mondo corrotte dal desiderio sono altrettanto relative ed illusorie. C’è da precisare che il dolore non è causato da una punizione divina del peccato originale ma esclusivamente dalla «particella» avidya. La conoscenza metafisica associata al Purusa non è completamente diversa dal buddhi che ci «risveglia» dal letargo dalla vita profana rivelandoci l’Assoluto cioè Brahmā. Questa verità ci mostra la

r-2Realtà in cui l’oggetto si identifica con il soggetto. Così questa azione interiore o anche il rito vedico stesso non essendo azioni attaccati ai loro frutti, nel mondo relativo e non considerandosene gli autori o desiderandone i frutti non crea vincoli con Brahmā perché pur essendo il soggetto di questa azione in realtà non sta agendo perciò non si viene soggetti al divenire. Colui che è arrivato a capire l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione è nel mondo ma non del mondo perché rinuncia al mondo e non si impegna nell’azione, limitandosi a compiere soltanto ciò che è richiesto per il sostentamento del corpo. «Soddisfatto di quanto ottiene per caso, superando le coppie di opposti, libero dall’invidia, imperturbabile nella buona e nella cattiva sorte, anche se agisce egli non è asservito» (5): conoscendo questa verità e avendo ottenuto la conoscenza di Brahmā, rinuncia all’azione e a tutto il suo contesto trovandola di nessuna utilità. I vaiśya sono il popolo, coloro che svolgono le attività lavorative agricole, l’allevamento del bestiame o il commercio prevale rajas su tamas. All’ultima casta, gli śūdra, nel quale predomina tamas su rajas sono riservati i lavori servili ed in genere raccoglieva i prigionieri di guerra e gli aborigeni resi schiavi (dāsa) dai conquistatori indoari. La funzione dei guna non sono una prerogativa esclusivamente indiana li troviamo anche nell’alchimia: rubedo, albedo e nigredo; nella suddivisione dell’anima in: soma, psiché, novs; nei tre mondi danteschi e nella tripartizione platonica: filosofi, guerrieri e lavoratori o il popolo. Rappresentati dai colori: rosso, bianco e nero. In questo modo, infatti, il successivo Manusmṛti interpreta il passo vedico: «Ma allo scopo di proteggere tutta la creazione il luminoso creò attività innate divise per quelli nati dalla sua bocca, dalle sue braccia, dalle sue cosce e dai suoi piedi. Ai sacerdoti ordinò di insegnare e di studiare, di sacrificare per sé stessi e di sacrificare per conto di altri, di donare e ricevere. Al sovrano, in breve, di proteggere i sudditi, di donare, di far celebrare i sacrifici, di studiare e di rimanere distaccato dagli oggetti dei sensi. All’uomo comune di proteggere il proprio bestiame, di donare, di far celebrare sacrifici, di studiare, di commerciare, di prestare denaro e di coltivare la terra. Il Signore assegnò al servo una sola attività: servire queste (altre caste) senza risentimento.» (6). Solo i primi tre varṇa sono indicati come ārya (nobili) e solo i maschi dei primi tre varṇa accedono allo stesso varṇa per mezzo di una iniziazione (dikṣā) detta upanayana, e per questo i loro appartenenti sono indicati anche come «rinati», “nati due volte” (dvija). Solo ai maschi dei primi tre varṇa è consentito lo studio e la pronuncia del Veda e delle Śruti, agli appartenenti al varṇa degli śūdra ed alle donne è consentito solo lo studio degli Itihāsa (Letteratura epica) e dei Purāṇa. Da tener presente che, dal punto di vista tradizionale, la letteratura degli Itihāsa-Purāṇa è una letteratura «scritta» a differenza di quella vedica che è una cultura, ancora, «orale» e che va appresa quindi solo mnemonicamente, essendo fondata soprattutto sulla sonorità. Essendo la scrittura una pratica che non dà in alcun modo accesso al «sapere» essa è affidata a persone di casta inferiore. Patañjali nel Mahābhāṣya (II,2,6) sostenne che si è brāhmaṇa per nascita (jātibrāhmaṇa) a prescindere se si ha realizzato o meno la necessaria erudizione e preparazione spirituale. Così la Manusmṛti spiega la trasmigrazione in una delle caste a seconda dell’influsso dei guṇa: «Ora vi dirò, in breve e per ordine quali trasmigrazioni si ottengono in tutto questo (universo) con ciascuna di queste qualità: le persone lucide divengono dèi, le persone energiche divengono esseri umani, le persone tenebrose divengono sempre animali: questo è il triplice livello di esistenza. Ma bisogna sapere che questo triplice livello di esistenza, che dipende dalle qualità, è esso stesso triplice: infimo, medio e sommo, a seconda delle azioni e del sapere specifico (di chi agisce). Gli esseri statici, i vermi, gli insetti, i pesci, i serpenti, le tartarughe, il bestiame e gli animali selvatici sono l’ultimo livello di esistenza, cui conduce la tenebra. Gli elefanti, i cavalli, i servi, i vili barbari, i leoni, le tigri, i cinghiali sono il livello medio di esistenza cui conduce la tenebra. Gli attori itineranti, gli uccelli, gli imbroglioni, sono il sommo livello di esistenza cui conduce la tenebra. I pugili, i lottatori, i danzatori, i trafficanti d’armi, i giocatori di azzardo e gli ubriaconi sono l’infimo livello di esistenza cui conduce l’energia. I re, i sovrani, i sacerdoti personali dei re e coloro che amano le battaglie verbali sono il livello medio di esistenza cui conduce l’energia. I geni, servi degli dèi sono il sommo livello di esistenza cui conduce l’energia. Gli asceti, i rinuncianti, i sacerdoti, le schiere degli dèi che volano sui carri celesti, le costellazioni sono il primo livello di esistenza cui conduce la lucidità. I sacrificanti, i sapienti, gli dèi, i Veda, i luminari celesti, gli anni, gli antenati, i Docili sono il secondo livello di esistenza cui conduce la lucidità. I saggi dicono che Brahmā, i creatori dell’universo, la religione, il grande e l’immanifesto sono il sommo livello cui conduce la lucidità.» (7). Le uniche unioni giuste sono quelle tra membri della stessa casta mentre quelle anuloma (tra Arii di diverse caste) sono tollerate, mentre quelle pratiloma (tra Arii e non Arii) sono invece considerate portatrici di disgrazia. La proliferazione delle unioni miste tra un Arii e non Arii è motivata dalla presenza del Kali yuga e condannata fin dalla Bhagavadgītā come provocatrice dello stesso: «Quando il disordine predomina, o
Kṛṣṇa, le donne della famiglia si corrompono: quando le donne sono corrotte, o figlio di Vṛṣṇi, si produce la mescolanza delle caste.
» (8). Oltre alle quattro caste esiste anche una quinta casta che però come la quarta non viene contata, gli avarṇa (privi di colore, i «fuori casta»), «intoccabili» (niḥspṛśya). Tra gli avarṇa sono considerati coloro furono da sempre esclusi dalla Civiltà ārya, sia coloro che ne furono cacciati in quanto frutto di matrimoni interrazziali sfavorevoli, oppure perché avevano gravemente violato delle norme religiose, nonché gli «stranieri» indicati con il termine collettivo di mleccha analogo al termine di origine greca «barbari». Questo Ordine microcosmico e macrocosmico rappresenta la Tradizione. Se mai questo Ordine si dovesse tramutare in caos ecco che appaiono gli Avatar che nelle varie Tradizioni religiose sono i profeti o nascite divine così spiegato nella Bhagavadgītā; «Quando la Tradizione è in decadenza, o Bhārata, e il pervertimento cresce, allora Mi manifesto».

 

Note:

 

1)     I Veda. Mantramanjari. Testi fondamentali della rivelazione vedica, p.101;

2)     Bhagavadgītā, Luni Editrice p.101;

3)     Bhagavadgītā, Luni Editrice p.106;

4)     Commento di  Śaṅkara alla Bhagavadgītā p.39;

5)     Bhagavadgītā, Luni Editrice p.108;

6)     Manusmṛti I, 87-91. In Le Leggi di Manu;

7)     Manusmṛti I, 87-91. In Le Leggi di Manu;

8)     Bhagavadgītā, I, 41.

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