7 Ottobre 2024
Storia delle Religioni

Le “Cose Ultime” e la Beata speranza dei primi cristiani – Marco Pucciarini

La morte è la separazione totale dell’anima dal corpo (Tertulliano, De Anima 51), sia che il corpo venga considerato come una prigione per l’anima, o sia che esso venga considerato insieme all’anima come un tempio vivo di Dio (Ibidem,53). Le due valutazioni si alternano nei documenti cristiani a fini diversi, ma la liberazione dalla vita temporale assume nella fede cristiana significati sconosciuti ai filosofi. L’anima separata dal corpo sopravvive: “Cessa di comparire, non di esistere”, ” I morti vivono nel Cristo” (Tertulliano, log.cit.; De monogamia, 7)). Quelli che muoiono prima di noi “non li perdiamo, ma ci precedono ” (Cipriano, De mortalitate, 20); “Le divine Lettere insegnano che le anime non si estinguono, ma o sono premiate per la loro santità o punite per le loro colpe” (Lattanzio, Div., inst., 3,19) Il ripensamento soprannaturale della morte inizia, per i cristiani, dal problema stesso della sua origine. La morte universale è una punizione inflitta da Dio al peccato e la morte personale si compie sempre sotto il segno della volontà divina: “Noi che conosciamo le origini dell’uomo, dichiariamo con ogni sicurezza che la morte non ci colpisce per natura ma per colpa. La potremmo ascrivere alla natura, solo se fossimo stati creati direttamente per la morte. Al contrario l’uomo non è stato fatto per la morte e lo dimostra lo stesso precetto che sospendeva la minaccia a una condizione e legava l’evento della morte all’arbitrio dell’uomo. “Se non avesse peccato, non sarebbe morto”. “Ricordati che nessuno viene fatto uscire da questa vita senza la volontà di Dio, essendo vero che neppure una foglia cade da un albero senza che Dio lo voglia. Chi ci toglie dal mondo, dev’essere quegli stesso che ci mette al mondo” (Tertulliano, De Anima, 52; Ad uxorem, 1,7).

La morte è l’ultimo termine utile per poter usare dei mezzi di salvezza. La sorte delle singole anime al momento del trapasso rimane decisa definitivamente quanto al merito e al demerito, mentre il premio e il castigo saranno completi soltanto dopo la risurrezione e il giudizio universale (Epistula Barnabae, 21, 8; Ad Marcionem, 5,10). Il documento più bello lo fornisce san Cipriano rivolgendosi ai pagani: “Provvedete alla vostra sicurezza e alla vostra vita mentre ne avete la possibilità. Abbracciate la nostra fede, abbiate la vita e godete con noi nell’eternità, voi che ci perseguitate nel tempo. Dopo che saremo partiti di qua, non ci sarà più luogo a penitenza, non sarà più accolta nessuna nostra espiazione. È di qua che la vita si perde o si guadagna, è di qua che si assicura la salvezza eterna con il culto di Dio e con i frutti della fede. E nessuno per i peccati o per gli anni si disperi di conseguire la salvezza: per chi rimane in questo mondo la penitenza non arriva mai troppo tardi. La porta dell’indulgenza divina è sempre spalancata ed è facile l’accesso a chi cerca la verità” (Ad Demetrianum, 25). Stando ad alcuni scrittori sembra che il caso di quanti fossero già morti prima della venuta di Gesù Cristo, Ebrei o no, debba essere considerato a parte. La possibilità della salvezza eterna dev’essere stata offerta anche a loro. In quale modo? L’anima di Gesù nei giorni della sua discesa agli inferi avrebbe predicato ai morti ed essi si sarebbero poi pronunziati per lui o contro di lui. Oppure, se nell’oltretomba come pure sulla terra il Salvatore volle limitare la propria missione personale ai soli Ebrei, allora il compito di portare a conoscenza degli altri defunti la rivelazione cristiana sarebbe stato affidato agli Apostoli dopo la loro morte. L’essenziale è che la

Pu 3 provvidenza divina non porti a dannazione nessuno senza aver dato prima i mezzi di salvezza. L’autore che più si occupa dell’argomento è Clemente Alessandrino: ” Se il Signore non scese agli inferi se non per annunziare l’Evangelo, o lo predicò a tutti o soltanto agli Ebrei. Se a tutti, furono allora salvi quanti credettero anche tra i pagani. Se invece Gesù predicò solo ai Giudei, è chiaro che, non facendo Dio preferenze personali, ai pagani devono avere annunziato l’Evangelo nell’aldilà come qui gli Apostoli” Rimane tuttavia valida, anche nell’eccezione, la norma fondamentale del buon uso della libertà umana: alla predicazione postuma di Gesù o degli Apostoli sarebbero stati ammessi tra gli Ebrei e tra le Genti dell’oltretomba soltanto quelli che sulla terra erano vissuti rettamente secondo la legge mosaica o secondo la legge naturale (Stromata, 6,6).

Quale è la sorte delle anime dei morti ora nell’attesa della risurrezione? La loro posizione è già chiara o sarà definita soltanto nel giorno del Signore, alla fine dei tempi, nell’ultimo giudizio? Gli orientamenti vanno precisandosi progressivamente. Per sant’Ireneo le anime sopravvissute alla morte non trasmigrano da un corpo all’altro, conservano il loro carattere umano e i ricordi terreni, ricevono già prima del giudizio finale un’abitazione degna di loro. È un luogo invisibile, assegnato da Dio, dove le anime aspettano la risurrezione, ma per un periodo molto più lungo di cui ignoriamo la data (Origene, De Principiis, Praef.,5). Sul medesimo tema s’impegna Tertulliano. Pone gli inferi nelle viscere o nel cuore della terra, secondo l’espressione di Mt 12, 40, che riferisce le parole di Gesù stesso. Confuta quei cristiani che non reputavano le loro anime meritevoli degli inferi e pretendevano per sé più di quello che era stato riservato a Gesù, sdegnando “di cogliere nel seno di Abramo il sollievo di aspettare la risurrezione”. Quei cristiani obiettavano che “il Signore andò agli inferi, affinché non ci andassimo noi. Altrimenti che differenza ci sarebbe tra i pagani e i cristiani, se tutti i morti finissero nel medesimo carcere?”.

Risponde negando alle anime l’ingresso in cielo fino al giudizio universale, ma insieme dichiarandosi per una sostanziale definizione, sebbene incompleta delle loro pertinenze: “Come può dunque l’anima esalando volare al cielo, mentre il Cristo se ne sta ancora seduto alla destra del Padre, prima ancora che la tromba dell’angelo faccia echeggiare l’intimazione divina, prima ancora che siano rapiti in aria quelli che il ritorno del Signore troverà vivi sulla terra insieme a coloro che, morti nel Cristo, risorgeranno per primi? A nessuno si apre il cielo finché la terra rimane sana e salva o, direi, chiusa. Quando questo mondo passerà, allora si spalancheranno i regni celesti”. Tertulliano nega che siano andati in paradiso quei patriarchi e quei profeti che risorsero insieme al Redentore, come “appendici della sua risurrezione”; ricorre alla visione di san Giovanni nell’Apocalisse 6, 9 e della martire Perpetua per sostenere che la regione del paradiso contiene per ora, prima della risurrezione, soltanto le anime dei martiri: “La doppia spada, messa a fare da portinaia, non lascia passare nessuno all’infuori di chi è morto nel Cristo e non in Adamo”, e “Chi affronta questa nuova morte in omaggio a Dio e con amore straordinario al Cristo, viene accolto in una sede diversa da quella degli altri e privilegiata”. Sulla scorta della parabola evangelica ammette tra le anime degli inferi l’esistenza di supplizi e di refrigeri nell’attesa del giudizio, di condanna o di salvezza, come anticipazione della pena completa e come candidatura alla felicità piena. Respinge l’idea che la vita negli inferi possa ridursi ad una specie di sonno, perché le anime non dormono neppure durante la vita terrena, o a una specie di ozio assoluto. Reclama in maniera esplicita un giudizio particolare che senza dilazioni, immediatamente dopo la morte, emani la sua sentenza per togliere alle anime sia ogni stato d’incertezza e d’illusione, sia ogni terrore. Spiega come l’anima per poter soffrire o godere non abbia bisogno di aspettare il corpo, esistendo sofferenze e gioie spirituali che si possono già sperimentare nella vita terrena, senza che vi partecipi la carne. Formula, sostanzialmente, la dottrina cattolica del Purgatorio: “Insomma, poiché per inferi intendiamo quel carcere di cui parla l’Evangelo e per ultimo quadrante intendiamo ogni più piccolo peccato da espiare durante l’attesa della risurrezione, nessun dubbio può sussistere che negli inferi l’anima riscuota il suo compenso, salva la pienezza che di esso apporterà la risurrezione associando all’anima la carne” (De Anima, 55;57;58; De resurrectione carnis, 17; Ad. Marc.,4,34). Origene, richiamandosi all’insegnamento tradizionale della Chiesa, scrive: “L’anima, poiché è dotata di vita autonoma, quando lascia questo mondo, sarà assegnata per i suoi meriti o al possesso dell’eterna beatitudine o ai supplizi del fuoco eterno” (De Principiis, Praef., 5). Tutte queste considerazioni ispiravano ai cristiani una radiosa morale della morte. Se la dovevano sentire vicina, perché “non è mai lontano quello che accadrà”, certamente e inopinatamente, scriveva Lattanzio (Div. inst. 3, 19). La meditavano spesso. Sant’Ireneo ne fa il compito del cristiano: ” Il suo dovere non è altro che di meditare sulla morte (Fragmenta 11)”; Minucio Felice dichiara:” Noi viviamo la nostra vita nella contemplazione dell’avvenire (Octavius 38)”. Tertulliano vede nell’apparente somiglianza tra il sonno e la morte un espediente provvidenziale per l’esercizio della fede e della speranza, un aiuto per imparare a vivere e a morire, per imparare a vegliare anche durante il sonno (cfr. De anima 43). Clemente Alessandrino è fiero di attestare che: “Niente conturba il perfetto cristiano tra le cose che accadono. Non ha mai paura di ciò che la provvidenza divina dispone a nostro vantaggio e non teme la morte, avendo una buona coscienza e la consapevolezza che dopo la morte sarà meglio per lui” (Strom., 7,13). Come esiste la legge della morte, così “dal giorno in cui il Signore a esempio per tutti gli altri si risvegliò nella realtà del proprio corpo, andò in vigore la legge della risurrezione” (Novatianus, De Trinitate, 10). Che cosa fa la morte con il nostro corpo? ” Quello che un ceramista fa con le sue terre cotte. Le frantuma, se hanno qualche imperfezione e le modella di nuovo. In nome di Dio la morte sbriciola la nostra carne, ma allo scopo che l’uomo attraverso la risurrezione ritorni con un corpo mondo, giusto, immortale” (Teofilo di Antiochia, Ad Autolo., 2,26). “L’uomo muore, ma non finisce” (Tertulliano, Apologet., 48). Mancavano vocaboli a san Paolo per indicare la morte? Ha voluto indicarla in modo da esprimere nello stesso tempo la fede nella risurrezione: “Ha usato la frase: Partire dal corpo come pellegrini per significare un’assenza temporanea dell’anima dal corpo: infatti chi è pellegrino, ritorna poi a casa” (Tertulliano, De res, carnis, 43). Non si trova uno scrittore cristiano dei primi tre secoli che non tocchi più o meno l’argomento della risurrezione dei morti. Alcuni si accontentano di affermarne il fatto (Didaché 16, 6-7), altri ne tentano anche una qualche spiegazione. La spiegazione più frequente e più decisiva è il ricorso alla onnipotenza divina, già manifestatasi nella creazione di tutte le cose: “Noi abbiamo la speranza di ricevere nuovamente i nostri corpi, dopo che avranno subito la morte e il disfacimento, perché sappiamo che nulla è impossibile a Dio” (Giustino, I Apol.,18). La fede nella risurrezione è più ragionevole della fede negli dèi del paganesimo o nella metempsicosi: ” Tu credi che siano dèi e che possono fare miracoli i simulacri costruiti dagli uomini e non vuoi credere che Dio tuo Creatore ti possa riportare alla vita? ” (Teofilo; Ad Autol., 1,18). La possibilità della risurrezione è affermata anche per quanto concerne direttamente la carne. Essa, si osserva, rimane sempre a disposizione di Dio, pronta a ricevere il tocco della sua arte plasmatrice non meno che ad assecondare qualsiasi intervento della sua potenza: ” Poiché dunque il Signore ha il potere di vivificare la sua creatura e poiché la carne ha il potere di essere vivificata, che cosa mai può impedire che essa riceva la incorruttibilità, che è la vita senza fine donata da Dio? ” (Ireneo, Adv., haer., 5,3,2;5,3,3). Nella carne come parte della natura umana o nelle esigenze proprie dell’integrità dell’uomo, gli scrittori cristiani trovano argomenti di convenienza a favore della risurrezione contro ogni spregio del corpo umano. La persona umana sarà ammessa, tutta intera, alla felicità divina, in anima e corpo: ” Nessuno di voi dica che questa carne non sarà giudicata e non risorgerà. Sappiatelo. In che cosa foste salvati? In che cosa avete ritrovato la vita se non in questa carne? Dobbiamo dunque custodire la carne qual tempio di Dio. Come foste chiamati nella carne, così andrete nella carne. Come il Cristo, nostro Signore e Salvatore, da spirito si è fatto carne e in tal natura ci ha chiamato, così anche noi in questa carne riceveremo il premio” (II Clem., 9.1-15). Atenagora è l’autore più impegnato e uno dei più felici nella ricerca di simili argomenti. L’uomo, egli dice, non è stato creato per la vita temporale, ma per la vita eterna; questo della vita eterna è secondo Atenagora l’argomento principale della risurrezione, più forte anche del giudizio divino, perché tutti avranno da risorgere, ma non tutti avranno da essere giudicati: l’apologista ne esclude i bambini non giunti all’uso della ragione. Un altro argomento, che dopo diverrà comunissimo: ” Non è giusto che l’anima sola riceva il premio delle azioni che ha compiuto con la collaborazione del corpo.

È giusto invece che sia chiamato in giudizio tutto l’uomo, composto di anima e di corpo. Non avverandosi questo né durante la vita presente né dopo la morte prima della risurrezione, sarà necessario, come dice l’Apostolo, che questo nostro corpo corruttibile si rivesta d’incorruttibilità. Allora richiamati in vita con la risurrezione coloro che erano morti e ricomposti insieme gli elementi che si erano dispersi o addirittura dissolti, ciascuno avrà il suo giusto compenso del bene e del male che ha fatto nel corpo “. (De res., Mortuorum,12;14;16;18;23;24;25)       Un argomento nuovo è quello che Tertulliano abbozza sul primato dell’uomo nell’universo. In natura la risurrezione è un fenomeno frequentissimo e l’uomo (Apol., 48), signore della natura, sarà invece destinato a morire tutto? ” Uomo, tu con il nome che porti, così grande se lo sai capire, padrone di tutte le cose che muoiono e che risorgono, tu proprio morrai per finire completamente? Dovunque andrai a dissolverti, qualunque materia ti distrugga, ti assorba, ti disperda, ti annienti, Dio ti restituirà a te stesso. A lui appartiene il niente, perché a lui appartiene il tutto” . La solidarietà tra l’anima e il corpo è presentata da Tertulliano sotto un aspetto nuovo, quello liturgico e ascetico. La carne ha il diritto alla salvezza eterna, perché nei sacramenti secondo la volontà del loro istitutore e nel martirio l’anima percorre l’itinerario della santità che è la via della salvezza in stretta unione con il suo corpo. Lo dovrebbe ricordare lo stesso Marcione, che conserva i sacramenti del battesimo e del matrimonio e sprona i suoi seguaci al martirio (Adv.,Marc.,1,24). La dottrina del corpo mistico offre a Tertulliano uno splendido spunto: i nostri corpi devono risorgere, “perché ormai non sono più cosa nostra ma membra del Cristo” (ivi, 5,7). “Come a noi ha dato in caparra lo Spirito, così da noi ha preso in caparra la carne e se l’è portata in cielo come acconto dell’intero capitale da riunire un giorno lassù. Statevene tranquilli, voi carne e sangue: nel Cristo siete in possesso del cielo e del regno di Dio” (De res., carnis,51). L’immortalità delle anime senza la risurrezione dei corpi sarebbe una ingiustizia. Immaginate un’anima che abbia indotto il corpo a peccare e che poi, espiate le sue colpe, ottenga il regno di Dio. Se il suo corpo rimanesse nella morte, sarebbe punito per sempre. Eppure peccò meno dell’anima: “Somministrare un veleno è un delitto, ma non ne ha colpa il calice in cui si propina. Così il corpo è il vaso delle opere esterne e l’anima vi versa il veleno delle cattive azioni. Si dovrà punire il calice?” (Adv., Marc,5-10). Il regno di Dio non è propriamente un regno di anime, ma di persone, di uomini. Quando si compirà la risurrezione universale? Gli antichi ne sapevano quanto noi: nulla. Se la cavavano sempre con frasi generiche. San Clemente Romano l’annunziava come prossima, ma certamente adottava le stesse misure di tempo che aveva insegnato san Pietro: “Una cosa, carissimi, non dovete ignorare: un giorno davanti al Signore è come mille anni e mille anni come un sol giorno. Il Signore non tarda nel mantenere la sua promessa, come taluni credono accusandolo di essere lento, ma è invece paziente verso di voi, perché vuole che nessuno perisca e tutti giungano al ravvedimento” (II Petr., 3,8-9). In quest’ordine d’idee il grande vescovo di Roma scriveva ai Corinti: ” In poco tempo il frutto dell’albero giunge a maturazione. Presto si compirà la volontà di Dio, come lo attesta anche la Scrittura: Egli verrà presto e non tarderà. D’improvviso verrà il Signore nel suo tempio e il Santo che voi attendete (Is. 14, 1; Mal. 3,1)” (I Clem., 23, 4-5). Secondo sant’Ippolito “le anime rimarranno nell’Ade fino al tempo della risurrezione stabilito da Dio (Adv. Graecos 2)”.

La speranza della risurrezione ispirava ai primi cristiani una morale di fervore e di gioia, che da sola dissolve le impressioni di tristezza che qualche giudice troppo affrettato ha subito dall’incontro con il cristianesimo primitivo. “La risurrezione è un tale mistero che compendia tutta la nostra fede e comanda a tutta la nostra disciplina “, osservava Tertulliano (De res. carnis 21). ” Noi “, scrive Giustino, ” per non fare sacrifici a questi simulacri ai quali li offrivamo un giorno, affrontiamo supplizi atroci; ma, mentre ci ammazzano, godiamo, perché non abbiamo il più piccolo dubbio che Dio per il suo Cristo ci richiamerà in vita e ci farà incorruttibili, impassibili e immortali (Dialogus 46)”. Tra l’incarnazione e la fine del mondo gli uomini vivono in un secondo avvento a somiglianza dei credenti della legge antica. Quando ritornerà sulla terra, il Redentore glorioso aprirà le tombe e schiaccerà la morte: ” Tutto l’uomo, anima e corpo è destinato alla salvezza e non l’avrà se non quando ritornerà il Signore, che è la chiave della risurrezione (Tertulliano, De res. carnis 47)”. La fine del mondo coinciderà con il ritorno di Gesù e con il suo giudizio. Egli ritornerà sulla terra ” a porre fine al tempo dell’Iniquo, a giudicare gli empi, a mutare il sole, la luna e le stelle. Poi si riposerà gloriosamente il settimo giorno (Ep., Barnabae, 4,3-5). Nella sua parte conclusiva la Didaché raccomanda la vigilanza in rapporto al ritorno di Gesù: ” Vigilate sulla vostra vita. Non si spengano le vostre lampade e non si sciolgano le cinture dei vostri fianchi, ma state pronti, perché non sapete l’ora nella quale il Signore verrà”. Ce n’è tanto più bisogno, in quanto le difficoltà alla fine cresceranno di numero e di gravità: ” Si moltiplicheranno i falsi profeti e i corruttori. Le pecore si cambieranno in lupi e l’amore in odio. Con l’aumento dell’iniquità infatti gli uomini si odieranno a vicenda, si perseguiteranno e tradiranno tra di loro. Apparirà allora il seduttore del mondo, che si spaccerà per figlio di Dio facendo segni e prodigi. La terra sarà data nelle sue mani ed egli vi opererà cose mostruose, quali non avvennero mai dall’inizio dei tempi. Allora l’umanità entrerà nel fuoco della prova. Molti si scandalizzeranno, ma quelli che avranno perseverato nella loro fede, saranno salvi”. I segni annunciatori del Cristo glorioso sono indicati con queste parole: ” Il segno dell’aprirsi del cielo, poi il segno del suono della tromba e in terzo luogo la risurrezione dei morti”, non di tutti, ma dei soli santi. ” Allora il mondo vedrà venire il Signore sulle nubi del cielo” (Did., 16,3-8). Al termine della preghiera dopo la comunione eucaristica la Didaché (10, 6) ripropone quasi con le medesime parole la supplica dell’Apocalisse: “Maranà tha: Signore nostro vieni”. L’Epistola di Barnaba, che ha con la Didaché alcune parti in comune, esorta ” ad avere una grande sollecitudine per la salvezza “, a causa dell’imminenza della fine del mondo. Le antiche profezie stanno arrivando all’appuntamento: ” E noi vedendole avverarsi l’una dopo l’altra come il Signore ha predetto, dobbiamo progredire nel suo timore per una via più generosa ed elevata “. Lo scrittore crede di poter riscontrare i segni della fine del mondo in alcune vicende dell’impero romano, non chiare per noi (cfr., Ep.,Barn.,2,10;1,7). Per Barnaba i sei giorni della creazione equivalgono a seimila anni che Dio ha destinato alla storia di questo nostro mondo. Il settimo giorno è il settimo millennio durante il quale Gesù regnerà visibilmente sulla terra insieme con gli eletti che risorgeranno in anticipo sugli altri. Soltanto durante il regno millenario di Gesù sarà possibile sulla terra la religione perfetta, perché allora saremmo messi da lui in possesso della redenzione piena, ” quando non esisterà più l’ingiustizia, essendo stato tutto rinnovato dal Signore”. Al termine del settimo millennio avrà inizio un altro mondo, il regno eterno, di cui è simbolo gioioso la domenica cristiana (Ep., Barn., 15,5;15,7;15,9). È questa la prima volta che s’incontra esplicitamente nella letteratura patristica la formulazione del millenarismo. Nel primo frammento conservatoci da sant’Ireneo (Adv. haer. 5, 33, 3) dell’opera di Papia, Spiegazioni dei discorsi del Signore, è descritta in termini strabilianti la fecondità della terra durante il regno millenario di Gesù Cristo dopo la risurrezione dei buoni, ma prima della risurrezione universale. Sulla base della Sacra Scrittura che parla di un solo ritorno di Gesù sulla terra per il giudizio finale dopo la risurrezione di tutti (v. ad. Es., Mt. 16,27; Tes., 1,5-10; I Cor.15,51-54; Col.3,1-4; II Tim.4;1,1,16,3;17, 5-7;18,2), la maggioranza dei Padri ha respinto il millenarismo, di cui Papia fu il propagatore più influente.

Nei primi tre secoli, tuttavia, il millenarismo fu l’opinione più diffusa presso gli scrittori cristiani. Hanno potuto dare adito al millenarismo le parole dell’Apocalisse (20, 1-15; 21, 1-5) sulla sconfitta del dragone e sull’ultimo giudizio. In questo suo testo san Giovanni intende come prima risurrezione il rinnovamento spirituale prodotto nelle anime dall’opera redentiva di Gesù. Coloro che seguendo il Salvatore acquistano santità di vita, costituiscono il regno di Gesù sulla terra, la Chiesa. La sua durata di mille anni è soltanto simbolica e non traducibile in termini di tempo. Per seconda risurrezione, sebbene l’espressione materiale manchi nell’Apocalisse, s’intende la risurrezione fisica di tutti i morti, di cui san Giovanni parla esplicitamente. Segue poi nel suo testo il giudizio universale, la descrizione del castigo eterno dei malvagi, l’annunzio e la presentazione del nuovo ordine di cose riservato all’umanità eletta. La descrizione che sant’Ireneo dice di aver appresa dai presbiteri è posta da lui sulle labbra stesse di san Giovanni apostolo, il quale avrebbe ripetuto gli insegnamenti di Gesù. La citazione di Papia in appoggio a tale descrizione è fatta da sant’Ireneo nel modo seguente: “Sono cose che attesta per scritto nel quarto dei suoi libri anche Papia, uditore di Giovanni e condiscepolo di Policarpo”. La II Clemente descrive il giudizio divino come il giorno della manifestazione di Dio in tutta la sua giustizia verso gli uomini, come il giorno della discriminazione decisiva tra i buoni e i malvagi, come il giorno in cui Gesù giudice assumerà palesemente il governo dell’universo. Perché non trepidare? ” Io sono pieno di peccati e non sono ancora fuori dalle tentazioni, ma tra le insidie del diavolo mi sforzo di seguire la giustizia per potermi almeno avvicinare ad essa. Temo infatti il giudizio futuro (nell’ordine:17,4;1,1,16,2;17,5-7;18,2). Dobbiamo vigilare continuamente in attesa dell’epifania di Dio: ” Aspettiamo di ora in ora il regno di Dio vivendo nella carità e nella giustizia, perché non sappiamo il giorno dell’apparizione di Dio. Forse è vicino (II Clem., 12,1). Lo scrittore fa capire che crede nella sua imminenza (16, 3): “Sappiate che viene ormai il giorno del giudizio, simile a fornace ardente, e tutta la terra sarà come piombo che si fonde nel fuoco. Allora saranno manifeste le opere degli uomini, le occulte e le palesi”. Anche Erma si dimostra convinto che di tempo ne rimane ormai più poco a disposizione degli uomini. Gesù è ancora al lavoro per l’edificazione della Chiesa, ma il cantiere sta per chiudersi: “La torre è ancora in costruzione. Quando sarà terminata, c’è la fine. Presto sarà terminata”. “Se qualcuno deve fare penitenza, sia sollecito, prima che la torre venga ultimata” (Pastore di Erma, Visioni 3,8,9). Perché, si domanda Giustino, il mondo continua a vivere? Quale è il senso della storia e dell’avvenire? E lo rileva con queste parole: ” Come per quei settemila uomini che non avevano piegato le ginocchia davanti a Baal, Dio tratteneva il suo sdegno così attualmente Dio non ha giudicato (I Reg.,19,18) finora il mondo né lo giudica ancora, perché sa che ogni giorno alcuni vengono guadagnati al nome del suo Cristo e si allontanano dalla via dell’errore. Illuminati dal nome del Cristo, essi ricevono le grazie divine nella misura in cui ne sono degni (Giustino, Dialogus 39)”. Ma il mondo attuale un giorno sarà distrutto dal fuoco, quando Gesù ritornerà nella gloria (I Apol. 20).

Nella sua seconda venuta Gesù distruggerà la morte e ogni miseria, San Giustino segue il millenarismo: ” Io e gli altri cristiani sappiamo che ci sarà la risurrezione della carne e ci saranno mille anni nella città di Gerusalemme ricostruita da Dio, ornata e ampliata (Dial.80, 81)”. Più descrittivo è sant’Ireneo:”Con la medesima carne nella quale patì la morte, verrà a rivelare la gloria del Padre”, mentre nella sua prima venuta ha rivelato la misericordia del Padre (Adv. haer. 3, 4, 2; 3, 16, 8). Il ritorno del Cristo sarà preceduto dall’Anticristo: “Dopo che l’Anticristo avrà devastato tutto in questo mondo spadroneggiando per tre anni e mezzo (cfr. Apoc. 13, 5), dopo che si sarà assiso nel tempio di Gerusalemme, allora verrà il Signore dei cieli sulle nubi nella gloria del Padre, manderà l’Anticristo e quelli che gli obbediscono nello stagno di fuoco, inaugurerà finalmente per i giusti un periodo di regno, cioè il riposo, il settimo giorno santo e adempirà così alla promessa di eredità fatta ad Abramo (Adv. haer.5, 30, 4)”. Ireneo applica, come se fosse una profezia riguardante gli sviluppi della storia cosmica, il testo: “E Dio finì di fare tutte le sue opere nel sesto giorno (Gen. 2, 1-3) “. Il regno di Gesù con i suoi eletti avrà per sede questa nostra terra, ma in condizioni diverse da quelle di oggi: ” Prima in questo mondo che si rinnoverà all’apparire di Dio bisogna che i giusti, risorti, ricevano in eredità la terra promessa da Dio ai padri e che in essa regnino: poi ci sarà il giudizio (Adv. haeres. 5, 32. 1.)”. Come Pu 2vivranno i cristiani nel regno millenario? “Non avranno da faticare il alcun modo, ma si troveranno sempre apparecchiata la tavola da Dio e colma di qualsiasi cibo (ivi, 5, 32, 2) “. Sant’ Ireneo difende il senso vero e proprio della felicità temporale dei cittadini del regno di Gesù sulla terra, esclude ogni allegorismo e assegna a tale prosperità il compito di preparare gli eletti alla più grande beatitudine dei cieli: ” Tutte queste cose non possono intendersi della vita in cielo, ma si devono intendere dei tempi del regno. Non si possono interpretare come se fossero delle allegorie. Sono invece cose sicure, vere e concrete, fatte da Dio perché ne abbiano a godere gli uomini giusti. Come infatti è vero che Dio risusciterà gli uomini, così è vero e non un’allegoria che gli uomini risorgeranno dai morti. E come realmente risorgeranno, così realmente verranno preparati all’incorruttibilità. Cresceranno e prospereranno nei tempi del regno al fine di diventare capaci della gloria del Padre. Poi l’universo sarà rinnovato e l’umanità abiterà veramente nella Città di Dio. Ha detto infatti colui che sedeva sul trono: Ecco, io faccio nuove tutte le cose (ivi, 5, 35, 2) “. Il mondo attuale non è destinato propriamente alla distruzione, ma alla trasformazione, in parallelismo con quello che accadrà all’uomo: “Né la sostanza né la materia del mondo creato subirà lo sterminio, ma sarà cambiata la figura attuale di questo mondo. Mutata questa figura, diventato nuovo l’uomo e talmente incorruttibile da non poter invecchiare, egli avrà a sua disposizione un cielo nuovo e una terra nuova. Allora l’umanità vivrà in essi a colloquio con Dio sempre e su argomenti nuovi (ivi, 5, 36, 1)”. In Lattanzio si raccolgono in sintesi quasi tutti gli elementi che abbiamo notato negli altri scrittori. C’è il millenarismo: ” Dopo che /Gesù/ avrà distrutto l’iniquità e fatto il più grande giudizio, dopo che avrà rimesso in vita tutti i giusti che sono esistiti fin dagli inizi, si tratterrà con gli uomini per mille anni e li governerà con un giustissimo regno (Div. inst. 7, 24)”. C’è l’imminenza della fine e insieme della sua impossibilità fino a quando Roma sopravvivrà sana e salva: ” Terminati i seimila anni, ci sarà il cambiamento: Ed è già vicino il giorno dell’ultima conclusione. Le cose stesse ci fanno capire che la loro rovina è a breve scadenza. Però finché la città di Roma sarà incolume, sembra che nulla di simile si abbia a temere… È quella, è quella la città che tutto sorregge ancora! (7, 25) “. E, dopo la fine, ci sarà un nuovo corso di cose, perché siamo fatti, noi e il mondo, per l’eternità: ” Quando saranno finiti i mille anni, Dio rinnoverà il mondo, ripiegherà il cielo, cambierà la terra, trasformerà gli uomini rendendoli simili agli angeli. Saranno candidi come la neve, vivranno sempre in compagnia dell’Onnipotente, sacrificheranno e serviranno in eterno al loro Signore. Nel medesimo tempo avverrà la seconda risurrezione che risveglierà i cattivi per supplizi senza fine (7, 26) “. La suprema speranza dei cristiani è il paradiso. La privazione del paradiso è l’inferno. Salvezza in paradiso e dannazione all’inferno; dentro questi due poli si muove tutto, in cielo e in terra. Per la sua salvezza eterna l’uomo è donato a se stesso mediante l’ingranaggio misterioso e vitale della sua libertà. Per la sua salvezza l’uomo ha la signoria dell’universo. Anche la morte dovrà cedere all’uomo per la legge della salvezza eterna. Lo nota Tertulliano: ” Misere e miserande nazioni, ecco che vi presentiamo le prospettive della nostra disciplina. Essa promette la vita eterna a coloro che l’abbracciano e l’osservano, minaccia invece il supplizio eterno del fuoco a coloro che ne rimangono fuori o le si mettono contro. Per l’uno e per l’altro esito predica la risurrezione dei morti (Ad nationes 1,7)”. Il richiamo al paradiso e all’inferno è onnipresente nei documenti cristiani. La Didachè e l’Epistola Barnabae, esponendo la sintesi della morale cristiana rispettivamente sotto le immagini di via della vita e via della morte, di via della luce e via delle tenebre, guardano alla medesima foce della felicità o dell’infelicità degli uomini nell’oltretomba: ” Molti saranno travolti; ma quelli che persevereranno nella loro fede saranno salvi ( Did. 16,5)”; ” La via del Nero è tortuosa e piena di maledizione: è infatti la via della morte e del castigo eterno (Ep. Barnabae, 10, 5)”. Clemente Alessandrino descrive ai pagani il paradiso non solo come visione di Dio, ma come meravigliosa unificazione dell’umanità in Dio: “Affrettiamoci a conseguire la salvezza rinascendo. Sull’esempio dell’unità dell’unica natura divina, affrettiamoci a congiungerci e a saldarci tutti tra noi in un solo amore. Ardentemente desiderosi di vedere la buona Monade, imitiamo la sua unità, come già partecipiamo della sua entità. L’unità ottenuta dal concorso di molti, come armonia nascente da voci diverse, produce un solo concerto sotto la direzione di uno stesso maestro e nella pace della medesima verità canta: Abba, Padre (Protr.9)”. Il mistero di un’altra psicologia che acquisteremo necessariamente nell’eternità, si affaccia in Origene. Nella beatitudine divina “non saremo mai presi dalla sazietà. Quanto più ne gusteremo, tanto più il suo desiderio si estenderà o s’intensificherà in noi, perché andrà crescendo sempre più il nostro amore e la capacità nostra di conoscere e di possedere il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo (De princ. 1, 3, 8)”. Che cos’è l’inferno? Come dice l’Evangelo, consiste nell’essere eternamente separati e riprovati da Dio. Questa dottrina viene ricordata dalla II Clemente: ” Se non osservate i miei precetti, io vi rigetterò e vi dirò: Andatevene lontani da me, non vi conosco né so di dove siate, operatori d’iniquità” (II Clem.,4,5).

Ma la separazione da Dio sarà allora tutta cosciente e si accompagnerà a indicibili pene interne ed esterne: ” I giusti quando vedranno puniti con terribili supplizi nel fuoco eterno coloro che non hanno centrato il bersaglio e hanno rinnegato Gesù con le parole e con le opere, daranno gloria a Dio e diranno che era valida dunque la speranza di chi lo serviva con tutto il cuore”(II Clem., 17,7). Da alcuni scrittori è tentata una qualche illustrazione del fuoco infernale: “I tormenti non avranno né misura né fine. Un fuoco intelligente arrostisce nell’inferno le membra e insieme le risana, le dilania e le vivifica, a somiglianza del fuoco dei fulmini che colpiscono senza incendiare o come i fuochi dell’Etna e del Vesuvio. Così quell’incendio penale non alimenta se stesso consumando coloro che vi ardono dentro, bensì lacerandoli in una maniera che li lasci interi. Che siano giusti questi tormenti per gli empi e per gli iniqui che ignorano Dio, lo ammette chiunque, all’infuori di chi è privo di ogni senso religioso. Ignorare infatti il Padre e Signore di tutte le cose non è colpa minore che offenderlo” (Minucio Felice, Octv.,35). Concetti questi che trovano maggiore sviluppo in Tertulliano, il quale ne conserva pure tutte le carenze d’ordine scientifico 48. San Cipriano nota il carattere prettamente punitivo della pena eterna, che è sterile di meriti come di pentimento: “Cremerà i condannati una geenna sempre accesa e una pena vorace con fiamme vive… Anime e corpi insieme saranno conservati al dolore da supplizi infiniti. Rimarrà allora senza i frutti della penitenza quel dolore castigante, rimarrà vano il pianto e inascoltata qualsiasi supplica. Troppo tardi crederanno nella pena eterna coloro che non vollero credere nella vita eterna” (Ad Demeter.24). Lattanzio soddisfa una nostra esigenza razionale affermando che nell’inferno saranno diverse dalle attuali le proprietà della carne umana e che quel fuoco, per quanto vero, anzi proprio perché più vero del nostro, dovrà essere di un’altra natura: “Le anime, essendosi macchiate di peccati nei loro corpi, si rivestiranno di nuovo della loro carne per scontare la pena nei loro corpi. Tuttavia quella carne non sarà uguale a questa nostra carne terrena, ma incorruttibile e immortale così da poter soggiacere a tormenti eterni e a fuoco eterno. La natura di tal fuoco è diversa dalla natura del nostro che ci serve per i bisogni della nostra vita e si estingue se non si alimenta con qualche materia (Div .inst. 7, 21)”. Come per i primi cristiani aveva una grande efficacia morale la speranza della risurrezione, così e per i medesimi motivi essi regolavano la propria condotta sulla certezza del paradiso e dell’inferno. Con intento missionario san Giustino dichiarava ai pagani, mentre lo ribadiva per i cristiani: ” Si ha da abbracciare la nostra dottrina, se si vuole l’impassibilità e la liberazione dal dolore (Simil. 4)”. Atenagora scrive: ” Siamo gente che guarda a Dio come a sua legge. Sapete bene che per essere dinanzi a lui senza colpa e senza macchia non ci concediamo neppure il pensiero del più piccolo peccato… poiché sappiamo che Dio è presente giorno e notte a tutto ciò che pensiamo e diciamo e che, essendo tutto luce, egli vede le cose più nascoste dei nostri cuori; poiché noi sappiamo che, liberati da questa vita, ne vivremo un’altra più bella in cielo presso Dio e con Dio fuori da ogni mutazione e sofferenza, nella carne s’intende, ma non secondo le leggi della carne, bensì secondo le leggi degli spiriti celesti; poiché sappiamo che se ci danneremo con gli altri, vivremo una vita peggiore di questa e in mezzo ai supplizi del fuoco: con queste convinzioni non è verosimile che ci diamo volentieri a peccare e ci consegniamo da noi ai castighi nelle mani del grande Giudice (Legatio 31)”.Patire di essere bruciati vivi per la fede cristiana è saggezza degna di ammirazione, ma la forza necessaria viene attraverso la visione sicura della fedeltà di Dio alle promesse e alle sue giuste minacce: “Allora ammirerai e amerai coloro che vengono puniti, perché non vogliono rinnegare Dio. Allora condannerai l’inganno e l’orrore del mondo, quando avrai imparato a vivere veramente in cielo, quando disprezzerai quella che quaggiù si crede morte e temerai invece quella che è la vera morte, la pena riservata ai condannati al fuoco eterno, destinato a tormentare senza fine coloro che gli saranno consegnati. Quando tu avrai conosciuto quel fuoco, allora ammirerai e chiamerai beati coloro che affrontarono per la giustizia il fuoco temporale (Epistula ad Diognetum 10, 7)”. Clemente Alessandrino sprona alla perseveranza i cristiani scrivendo che: “il Verbo chiama a seguirlo tutti coloro che lo vogliono seguire, ma che incorona soltanto coloro che restano invitti (Strom. 1, 11)”.

Prof. Marco Pucciarini, Storico delle Religioni

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