Devo dire che qui a Trieste siamo proprio un bel gruppo. Forse dipende dal fatto che la città giuliana ha avuto una storia tormentata, il cui destino è rimasto in bilico per nove anni dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, e per tutta l’epoca della Guerra Fredda è stata uno scomodo balcone, un antemurale affacciato sul mondo comunista, e ha poi subito dalla madrepatria “democratica e antifascista” la coltellata alla schiena del trattato di Osimo, lasciando i miei concittadini da soli nella difesa della nostra identità. Tutte cose che non sono venute meno con la dissoluzione dell’impero comunista, anzi, in un certo senso si può dire che la minaccia slava sia stata per noi una sorta di prefigurazione di quella oggi rappresentata per tutti quanti dalla globalizzazione e da un’invasione mascherata da immigrazione che preannuncia la sostituzione etnica, la morte della nostra gente, se non faremo nulla per fermarla.
In ogni caso, un bel gruppo non solo di militanti, ma anche di teste pensanti. Sulle pagine di “Ereticamente” voi avete ad esempio imparato a conoscere Michele Ruzzai, appassionato studioso di tradizioni ancestrali, che ci ha raccontato i miti iperborei in una serie di begli articoli. Quel che non potete sapere, è il fatto che Michele è anche una persona di uno humor incredibile, di quelli che da soli ti tengono in piedi una serata, al punto da spingere a chiedersi come mai non abbia scelto il cabaret come attività professionale.
Che dire di Ugo Fabbri, nella sua doppia veste di militante di lunghissima data, di quelli che hanno vissuto in prima linea gli anni di piombo della contestazione e delle interminabili persecuzioni giudiziarie sempre contro i nostri militanti, e di ricercatore scientifico “fuori dagli schemi”, portatore di un duro e documentato attacco all’ “ortodossia scientifica” ufficiale oggi rappresentata dalla teoria einsteiniana?
Si possono poi citare due figure di giovani e brillanti ricercatori storici e politologi come Lorenzo Salimbeni, e Marco Bagozzi di cui ho avuto il piacere di recensire sulle nostre pagine il saggio sul nazionalbolscevismo. Vorrei poi menzionarvi anche Giorgio Rustia, un biologo triestino che, dopo essere vissuto un trentennio lontano da Trieste per la sua attività professionale, è oggi rientrato nella città natale e ha posto mano a importanti saggi storici, e del cui ultimo libro in particolare, Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti Milizia Difesa Territoriale al confine orientale italiano, vi ho dato un assaggio attraverso una doppia recensione.
In questo quadro poi, se permettete, modestamente, ci sono anch’io.
Una figura assolutamente non di secondo piano in questo ambiente triestino, è quella di Gianfranco Drioli, autore di due bei libri pubblicati dalle Edizioni Ritter, “Ahnenerbe”, dedicato alle ricerche e all’eredità culturale lasciata da questa associazione nazionalsocialista, e “Iperborea, ricerca senza fine della patria perduta”.
Recentemente Gianfranco Drioli mi ha coinvolto in una nuova iniziativa, una serie di conferenze nella sede della Casa del Combattente triestina. Poiché siamo sempre a un secolo esatto dalla prima guerra mondiale, la prima di esse ha riguardato questo argomento, e non ve ne ripropongo qui il testo, perché esso era basato sui tre articoli “Una guerra sbagliata” che avete già letto sulle nostre pagine.
Poiché essa ha avuto un discreto successo, mi è stato chiesto di fare un approfondimento ripercorrendo la situazione risorgimentale dove sono da ricercare le premesse della nostra partecipazione a questo conflitto. L’oggetto della seconda conferenza tenuta nel mese di giugno, è stato “Le due facce del risorgimento”. Ve lo ripropongo qui suddiviso in due parti.
Nel 2011, la ricorrenza dei centocinquanta anni dell’unità italiana, coincidente con la proclamazione del regno d’Italia avvenuta nel marzo 1861, è stata l’occasione per rinnovare antiche polemiche. Bastava fare un giro in internet digitando “risorgimento” su di un qualsiasi motore di ricerca, e compariva sotto gli occhi una quantità di siti veramente notevole, tra i quali quelli che parlavano in termini fortemente negativi, “peste e corna” come si suol dire, del fenomeno risorgimentale, erano in schiacciante maggioranza. Io non ho rifatto la prova recentemente, ma dubito che da allora la situazione sia sostanzialmente cambiata, se non in peggio.
Una delle poche cose in cui la maggior parte degli Italiani sembra oggi concorde, è nel maledire coloro che hanno costruito uno stato nazionale al posto di una congerie di staterelli il cui peso sulla politica internazionale era nullo, ed erano semmai oggetto, “terreno di caccia” delle contese e delle spartizioni fra le potenze europee dell’epoca.
Poche, pochissime le voci che si sono levate e si levano in difesa dell’unità nazionale.
Se considerassimo le cose con gli occhi di uno straniero, se non conoscessimo le tabe e le miserie della cultura italiana, pesantemente aggravate da settant’anni di democrazia imposta dai vincitori del secondo conflitto mondiale, ci sarebbe di che essere stupefatti: cento anni, quattro generazioni di lotte, sacrifici, sofferenze che poco per volta hanno portato alla rinascita dello stato nazionale, a quell’unità che la nostra Penisola non aveva conosciuto per quindici secoli.
Tutto ciò dovrebbe, in teoria, ispirare un forte senso di orgoglio nazionale, diciamolo pure, uno spirito di epopea, del quale invece non si trova traccia.
Quella con cui ci confrontiamo è prima di tutto una forma di snobismo, di snobismo meschino, da anticonformisti fabbricati in serie, rigorosamente uguali a tutti gli altri anticonformisti, che credono di mostrare chissà quale originalità di pensiero proclamandosi antipatriottici, e non riescono a capire che in questa nostra “serva Italia di dolore ostello”, è per proclamarsi italiani a testa alta, che ci vuole coraggio.
L’atteggiamento di rigetto dell’unità nazionale pare essere radicato particolarmente nel meridione dove essa è vista come annessione e assoggettamento “piemontese” di una presunta nazione “napoletana” o “bi-sicula” (delle Due Sicilie), ma anche nel nord non mancano atteggiamenti di rifiuto in nome di separatismi che fanno capo a pseudo-nazionalità padane, cisalpine, longobarde o venete.
Tanto per completare il quadro, vediamo quello che sul nostro risorgimento raccontano i libri di storia o almeno la maggior parte di essi. Noi sappiamo che la serie di rivolgimenti, lotte, guerre che ha prodotto l’unità nazionale italiana copre all’incirca un secolo di storia, dalla rivolta dello “squadrone sacro” di Nola per ottenere una costituzione nel regno delle Due Sicilie nel 1821, alla battaglia del Col Moschin, l’ultima della prima guerra mondiale sul fronte italiano nel 1918. Bene, in alcuni testi il periodo risorgimentale si trova “compresso” ai soli episodi della seconda guerra d’indipendenza, alle annessioni nell’Italia centrale e all’impresa dei Mille, insomma al solo biennio 1959-60.
Ma soprattutto la vulgata corrente che troviamo sui testi scolastici, al di là delle demarcazioni temporali, limitano il discorso risorgimentale alla contrapposizione tra moderati e democratici, come se il problema fosse stato unicamente quello della concessione o meno del suffragio universale alle masse popolari, ignorando che nel frattempo questi “padri risorgimentali” divisi da queste lotte intestine di cui si dilata all’estremo l’importanza, dovevano anche confrontarsi con gli apparati polizieschi e repressivi degli stati pre-unitari, e soprattutto con l’Austria che era allora una delle principali potenze europee e mondiali, oltre a vedervi un affare interno delle classi borghesi e sottostimare clamorosamente l’apporto popolare.
Noi pensiamo al fatto che Milano ribellatasi nel 1848 cacciò il presidio austriaco dalla città in cinque giorni di feroci combattimenti strada per strada, che Venezia anch’essa insorta nel 1848, resistette per un anno e mezzo alla riconquista austriaca. Nel 1849 Brescia, insorta per impedire alle truppe di Radetzski di prendere alle spalle l’esercito di Carlo Alberto, impose agli Austriaci per riconquistarla, una lotta di dieci giorni casa per casa. Il piccolo paese friulano di Osoppo resistette per mesi alla riconquista austriaca, e naturalmente a fare ciò furono il medico condotto, il farmacista del paese e un paio di possidenti nell’indifferenza dei paesani. Potremmo anche non menzionare il fatto che proprio per i prodigi di valore compiuti dalla gente di questo paese nel 1848, esso diede il nome a una brigata partigiana non comunista durante la seconda guerra mondiale che fu massacrata dai comunisti alle malghe di Porzus, uno degli episodi che meglio illuminano cosa realmente fosse la cosiddetta “resistenza” del 1943-45. Quel che importa, è che questi sono fatti storici ben documentati, e la tesi dell’estraneità delle masse popolari al risorgimento, oltre che falsa, è ridicola.
Il fatto è, a mio modesto parere, che le forze politiche di ispirazione nazionale perlopiù sottovalutano gravemente le conseguenze, la pericolosità e la dannosità del fatto che la sinistra da noi abbia di fatto il monopolio del mondo della scuola, il controllo della formazione dei giovani, che diventa a tutti gli effetti un’opera di deformazione delle coscienze proprio nell’età in cui si hanno meno difese e meno contravveleni alle influenze esterne.
In linea di massima, le “culture” oggi dominanti nella società italiana sono quella di sinistra e quella cattolica. Marxismo e cristianesimo sono entrambi avversi al principio di nazionalità. Noi dobbiamo anche considerare il fatto che la Chiesa cattolica ha costantemente ostacolato il moto risorgimentale allo scopo di salvaguardare il potere temporale pontificio. Fa specie, dà veramente fastidio ricordare che quando papa Woytila proclamò la beatificazione di Pio IX, vi furono solo alcune proteste della comunità ebraica a motivo di alcune frasi di questo pontefice di presunto contenuto antisemita. Quel 98% degli Italiani che non è di religione ebraica, pare non trovasse nulla da ridire sul fatto che venisse elevato all’onore degli altari un avversario dell’unità italiana, e nemmeno sul fatto che questa canonizzazione fosse subito seguita da quella di Carlo II, l’ultimo imperatore d’Austria.
Poiché i tempi cambiano, non sarà difficile ricordare che nel 2011, per il secolo e mezzo dall’unità nazionale, abbiamo avuto grandi manifestazioni di patriottismo soprattutto a sinistra, il che è suonato perlomeno strano. A questo proposito, occorre ricordare che nel 2004, in occasione della ricorrenza dei cinquant’anni della restituzione di Trieste all’Italia, il comune di Trieste che allora aveva un’amministrazione di centrodestra, organizzò una cerimonia a cui invitò le scuole triestine a partecipare con una delegazione, e inviò a ciascuna di esse dei pacchi contenenti bandierine tricolori e copie dell’inno di Mameli, che i ragazzi avrebbero dovuto cantare. Nessuna scuola mandò una delegazione, e il preside di un noto liceo, che era stato candidato del PD alla presidenza della provincia di Trieste, fece bruciare i pacchi con inni e bandierine nel cortile della scuola per dare la massima pubblicità e rilevanza al suo rifiuto.
Ora, una cosa che certamente non si può contestare, è che 11 – 4 = 7, e sette anni sono davvero troppo pochi per un simile rivolgimento di mentalità se fosse stato davvero qualcosa di profondo e non puramente strumentale.
In effetti, con questa inedita conversione al patriottismo, noi possiamo pensare che la sinistra nostrana, la cui buona fede non dobbiamo mai presupporre, si proponesse più di una finalità diversa da quelle dichiarate; una, abbastanza ovvia, era quella di dare fastidio ai leghisti, il che ci potrebbe piacere o pure no, che comunque in linea di massima non raccolsero la provocazione; l’altra – più subdola – era di propagandare surrettiziamente la LORO idea di Italia, sempre più multietnica e basata sui “nuovi italiani” assai più che su quelli nativi e autentici.
La sinistra tende a sostituire la nazionalità con la cittadinanza, la comunità di sangue, suolo e memorie con un timbro su un pezzo di carta. Si può amare un timbro su un pezzo di carta?
Tutto questo va necessariamente premesso, perché non ci dobbiamo mai dimenticare che il dibattito sulla nostra storia nazionale è pesantemente inficiato da interpretazioni che di storico non hanno nulla, ma sono pesantemente ideologiche.
Tuttavia, se veniamo ad ambienti più vicini alla nostra sensibilità, vediamo che la contraddizione sulla valutazione da dare del periodo risorgimentale rimane nondimeno stridente, al punto che da questo punto di vista essi appaiono letteralmente spaccati in due.
Da un lato c’è, ma è minoritaria, la posizione patriottico-nazionale che potremmo sintetizzare nella famosa frase my country in right or wrong, “la mia patria nel bene e nel male”, dall’altro coloro che non mancano di rilevare che l’unità italiana è avvenuta come prodotto indiretto, effetto collaterale di un movimento di sovversione che non ha soltanto cambiato la struttura del potere facendolo passare, come è stato detto, “dai castelli alle banche”, dalle mani delle élite tradizionali a quelle dell’oligarchia usuraia con il pretesto e sotto la maschera del liberalismo, delle riforme democratiche, delle rivendicazioni sociali, ma ha anche provocato la decadenza del nostro continente, facendogli perdere quell’egemonia planetaria di cui godeva fin dal XVI secolo, trasformandolo dopo la seconda guerra mondiale in un condominio sovietico-americano, e oggi in una serie di proconsolati degli Stati Uniti.
La contraddizione è pesante e ci tocca sul vivo, e nel 2011 lo si è visto con molta chiarezza. Come se ciò non bastasse, bisogna ammettere anche che i “padri risorgimentali” si sono spesso comportati con estrema brutalità con le popolazioni, soprattutto meridionali, riluttanti all’unificazione. Poiché il dibattito sull’argomento era già partito con un certo anticipo rispetto a questa scadenza del secolo e mezzo, si può menzionare in questo senso un pesante articolo pubblicato sul suo sito EffeDiEffe dal giornalista Maurizio Blondet nel marzo 2010, che è potremmo dire, un sunto degli argomenti anti-risorgimentali.
All’epoca, riflettendo su queste problematiche, ebbi un’improvvisa intuizione. Non era che per caso tutti noi, patrioti e anti-risorgimentali, eravamo caduti in un mostruoso equivoco? Scrissi un articolo sull’argomento, che inviai al mensile “L’uomo libero”, e che mi fu pubblicato nel n. 70 del novembre 2010, intitolato appunto Il grande equivoco.
L’equivoco consiste, a mio parere, nel confondere due cose che sarebbe invece importante riconoscere come diverse e tenere ben distinte.
Da un lato il sano, normale, doveroso senso di appartenenza alla propria nazione, la cui identità, unità e indipendenza sono state conculcate per secoli e, per quanto riguarda il fenomeno risorgimentale, l’insorgenza spontanea del nostro popolo stanco dell’oppressione e della dominazione straniere. Dall’altro, un movimento politico di uomini con tutt’altre finalità che a un certo punto si è impadronito del moto popolare distorcendolo a finalità non dichiarate e di tutt’altro genere.
Noi possiamo e dobbiamo parlare del risorgimento come di un fenomeno non unitario, ma che in realtà presenta due facce ben distinte.
Il caso è forse analogo alla storia dei movimenti socialisti che sono nati dalla ribellione naturale e legittima delle classi lavoratrici di fronte allo sfruttamento e alle ingiustizie della rivoluzione industriale, “confiscata” poi da una “intellighenzia” volta a instaurare il sistema di tirannidi e privilegi di tipo sovietico.
La confusione fra le due cose, il normale senso di appartenenza alla nostra nazione e l’inconsapevole complicità con l’internazionalismo massonico volto a scalzare i fondamenti dell’Europa tradizionale (con tinteggiature più o meno risorgimentali), è il grande equivoco che ha pesato sinistramente su tutta la nostra storia, forse secondo solo all’altro grande equivoco “immenso e rosso” che ha indotto a scambiare l’insieme di tirannidi più sanguinarie della storia per “il movimento di liberazione dei lavoratori”. Adesso di quest’ultimo non ci occuperemo, ma vedremo di dissipare una volta per tutte quello che aduggia le radici della nostra “storia patria”.
Giuseppe Mazzini forse uno dei pochissimi ingenui in buona fede che si sono trovati alla testa del moto risorgimentale, dimostrò un barlume di comprensione quando, riguardo all’insurrezione parigina del 1830 che determinò il passaggio del potere “dai castelli alle banche”, scrisse (Dei doveri degli uomini):
“Chiamate traditori quegli uomini? Dovreste chiamare traditrici le loro idee”.
L’Austria, il dominatore e il nemico contro cui si diressero la maggior parte delle lotte risorgimentali, in realtà non fu che l’ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri che avevano occupato la Penisola, a partire dalla caduta dell’impero romano, dagli Eruli di Odoacre e dagli Ostrogoti di Teodorico, essa poi non aveva nemmeno invaso l’Italia, ma aveva ereditato i possessi italiani della Spagna a seguito della guerra di successione spagnola, come compenso per l’accettazione di un Borbone invece di un Asburgo sul trono di Spagna.
Sarà poi il caso di ricordare che quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che caratterizzò il risorgimento e che fu, almeno nelle prime fasi effettivamente un moto popolare, non fu un’insurrezione contro l’Austria ma contro la Francia, la ribellione di Verona alle angherie delle truppe napoleoniche che doveva portare alla dura repressione poi ricordata come “pasque veronesi”. Quella Francia per la quale gli pseudo-patrioti liberali cavouriani e garibaldini dovevano nutrire una passione sviscerata e insana nell’illusione che continuasse a essere la stessa della rivoluzione del 1789, quella Francia che nel 1849 stroncò la repubblica romana, che nel 1859 tradì il Piemonte con l’armistizio di Villafranca ma pretese e ottenne ugualmente la cessione di Nizza e della Savoia, e che fino al 1870 era destinata a essere l’ostacolo all’annessione di Roma.
Gli episodi di Milano, di Brescia, di Osoppo, per nulla dire della lunga resistenza durata un anno e mezzo, di Venezia alla riconquista austriaca, dimostrano chiaramente che, a differenza di quanto si affannano a raccontarci con zelo degno di miglior causa i testi di ispirazione di sinistra che circolano nelle nostre scuole, almeno fino alla repressione dei moti del 1848-49, il moto risorgimentale fu effettivamente un movimento popolare, ma dopo di allora la musica fu alquanto differente.
La verità pura e semplice, è che, almeno dopo il 1848, il moto risorgimentale, tanto nella variante garibaldina quanto in quella cavouriana (il solito gioco delle parti fra destra e sinistra fra le quali non c’è nessuna differenza sostanziale) fu “sponsorizzato” dalla massoneria internazionale le cui “teste” si trovavano a Washington, Londra e Parigi. L’unità italiana fu un effetto collaterale di un movimento le cui finalità erano altre, tendente a sostituire in tutta Europa la tradizionale egemonia del sangue delle classi aristocratiche con quella del denaro.
Grosso modo, LA CONFISCA del risorgimento, la sua trasformazione da moto popolare essenzialmente patriottico e popolare a movimento strumentalizzato dalla cospirazione liberal-massonica internazionale, coincide temporalmente con il fallimento dei moti del 1848-49. Le figure chiave di questa trasformazione sono Cavour e Garibaldi.
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