«…e mi volgo verso la sacra, ineffabile, misteriosa notte».
(Novalis)
‘Idea’ viene dal greco ἰδεῖν, «vedere». Tutti ci facciamo un’idea della vita, quindi tutti abbiamo una nostra ‘visione’ delle cose. Uno stretto legame unisce in noi il pensare e il vedere. Se la ricerca del vero è ciò che costituisce l’atto del pensare, è innegabile che tale ricerca si svolge guardando, scrutando. La verità non si sente, non si tocca, ma si vede, si dimostra, si rivela.
E l’occhio ha bisogno della luce. Quindi la luce diviene condizione della verità, del bene, ci eleva alla dignità della contemplazione, mentre la tenebra ci trascina nelle zone infere dell’essere, dove si nasconde lo spirito del male, del caos. La nobiltà del vedere si contrappone alla natura oscura del ventre, del sesso, degli istinti.
Questo culto dell’illuminazione intellettuale ci viene da lontano. Lo ritroviamo in certe divinità dai cento occhi o in quel triangolo massonico dove ovviamente campeggia un grande occhio, non un grande orecchio o un grande naso. Per noi, capire è vedere, e Dio, nella sua onniscienza, è ’Colui che tutto vede’. Del resto, i santi vogliono vedere Dio, non palparlo o annusarlo. I buddhisti vogliono vedere nella propria Natura, gli induisti vogliono sollevare il velo di Maya che impedisce di vedere la Realtà etc.
Il mito del vedere da secoli ossessiona un certo idealismo, che definirei diurno o solare. Questo insistere sulla visione come unica via alla conoscenza del reale ha portato al prevalere delle prospettive teoriche sull’esperienza concreta e integrale. È ancora una volta il greco a suggerircelo, col suo ϑεωρέω – guardo, osservo. Il problema è che la vista, tra i sensi, è quello che in modo più paradigmatico pone una distanza, una separazione tra il soggetto e l’oggetto.
Il sapore del cibo, il freddo e il caldo, il piacere e il dolore, ci rimandano a un’interiorità. La vista ci proietta all’esterno, lontano dal Sé, radicalizzando il dualismo della coscienza. E la nostra cultura si basa su questo idealismo visivo, sul mito della chiarezza che dovrebbe illuminarci. Mito che comporta una tradizionale alienazione. Che ci dona una profusione di saperi che rischiarano senza scaldare, come pallidi soli invernali. Dio è oggetto di visione intellettuale, sorta di algida equazione metafisica. In un testo buddhista il nirvana è detto simile alle solitarie cime montane. Nevi immacolate, aria rarefatta luce accecante.
Ma all’uomo servono le grasse e sporche terre, dove nascono i fiori, dove cresce il grano. Un’oscurità calda, materna, tra le cui braccia riposare. Meglio sedere nella notte, riuniti con altri intorno a un fuoco. Forse qualche raggio di luna rischiara debolmente poche cose intorno, le fiamme ci mostrano il volto delle persone vicine, e la tenebra si inghiotte quel che resta. Meglio ritrovarsi in un convivio notturno, dove si dividono il pane e il vino, e nell’oscurità si intrecciano storie d’amore.
La nostra comprensione nasce in un misterioso rabbuiamento. Dice Rimbaud: «scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini». Queste parole evocano efficacemente l’idealismo notturno. La notte non vuol dimostrare o argomentare. Non è ricerca metodica di cause ma trama spontanea di simboli e metafore. È pensiero clandestino, che non insegna, non spiega. Oppone al pensiero diurno, esemplificativo e didascalico, un pensiero poetico, fatto di dubbi e allusioni.
È un intendere le cose legato più al sentire che agli occhi. Il buio ci induce a odorare, toccare, a percepire e intuire indefinitamente qualcosa. Prestiamo attenzione al vago e all’indistinto, agli strani rumori, ai fruscii inesplicabili, alle brezze che sfiorano la pelle. “Ci sentiamo oscuramente e ineffabilmente turbati”. E pazienti alimentiamo la legna che arde, vigiliamo sulla fiamma che ci scalda.
Il pensiero del giorno, con la sua logica e i suoi calcoli, garantisce in fondo la nostra rispettabilità borghese. Ci permette di attribuire un valore–prezzo a cose e persone, appaga la nostra fondamentale vis dominandi. Ma nell’oscurità, quando ci abbandoniamo, possiamo cogliere in noi, nel venir meno di ogni certezza, la nostra relazione con l’ignoto, percepire il mistero che scorre in ogni fibra dolorante o appagata della carne.
Cos’è la carne? Idolo, feticcio della nostra società. Esibita, viziata, estetizzata, morbosamente spiata, disprezzata, martoriata. Ossessionante onnipresente carne. Repressa, sviata dai suoi sacri uffici, rapita ai sensi e asservita alla razionalità, fantasma esorcizzato e spogliato del suo mistero. Scandalo, paradosso di un osceno esibito per essere rimosso. E questa rimozione nasce dalla paura di quella radice metafisica, nascosta, intangibile, cui ci rimanda.
L’unica trascendenza che questa società accetta è infatti quella del denaro e del potere. Ogni altra asserzione metafisica le pare gioco astratto e improduttivo, passatempo ozioso come il guardar le nuvole. In realtà, teme quell’empirismo radicale che è sostanza della vera metafisica, quel suo minaccioso volgersi al fondamento della nostra esperienza, a quel fondo oscuro che è forse l’unica cosa che non vogliamo vedere. Preferiamo vagare alla periferia dell’essere, nel nostro fenomenismo storico-economico-scientifico, ignorando il centro da cui tutto promana. Studiamo, per così dire, la circolazione del sangue come se il cuore non esistesse, guardiamo i rami di un albero come se non avessero radici.
Al pensiero diurno il mistero è sospetto. Lo rassicurano solo i segreti rivelati, gli enigmi risolti. Gli pare che anche Dio, una volta sradicato e messo in piena luce, chiarendo la sua natura, i suoi attributi, la sua volontà etc. possa venir insegnato, persino divulgato (divulgare! Vizio tra i più volgari di una cultura già tanto volgare). Ma le radici dell’essere non possono venir dissepolte e mostrate come quelle di un albero. Sono nascoste in un luogo semplice e inaccessibile, nella nostra carne.
Proprio perché è anti-metafisica la nostra società ama le idee disincarnate – storiche, filosofiche, scientifiche, religiose – che fluttuano incorporee nella volta celeste, spandendo raggi di conoscenza, di nobile sapere. Il pensiero solare rifugge dall’essere reale, da questo groviglio di carne che nessuna logica può sciogliere. Così, viene rinnegato il mistero dell’incarnazione. Se siamo filosofi, vedremo nella carne la prigione dell’anima, pesante cataratta che copre il nostro occhio divino, ombra di idee platoniche. Per gli scienziati sarà un dissacrato sistema di cellule, di ingranaggi fisiologici.
Un tale idealismo-ideale, fatto di teorie e speculazioni, è la negazione dell’idealismo-reale. Perché le idee non possono semplicemente guardare, o riflettersi in sé stesse come in uno specchio. Vogliono vivere, farsi carne. Et Verbo caro factum est. Questo, per l’idealismo notturno, non allude a un essere divino che crea qualcosa fuori di sé, per poterlo contemplare compiaciuto. Perché essere ‘fuori di sé’ significa impazzire, tanto per l’uomo quanto per Dio. L’idea non crea la carne fuori di sé ma dentro di sé. Tra idea e carne v’è perciò una radicale unità.
Come descrivere questa assoluta coincidenza? Emerge un’emozione, un turbamento interiore, e nello stesso tempo si manifesta un rossore, o un pallore, un respiro affannato. Il rossore etc. non è effetto di uno stato d’animo, è quello stesso sentimento. Insieme a un pensiero emerge nella nostra coscienza una parola che lo rappresenta. La parola non è effetto di un pensiero, è il pensiero stesso. Così noi non siamo i prodotti delle idee, siamo le idee. Non ne siamo neppure un simbolo. “I simboli sono mistificazioni”, direbbe Novalis. Perché ci inducono a immaginare una realtà divisa tra simbolo e simboleggiato, negandone la fondamentale unità. L’idea è simbolo di sé stessa, e il nostro corpo ne mostra il lato rivolto verso l’esterno, ne è in un certo senso la pelle.
Credere che esista la materia, o che vi sia un mondo fuori di noi, è atto di fede. Le idee sono l’unica realtà che ha un’evidenza immediata, incontestabile. Tutto ci avverte della loro presenza. Le sensazioni, i pensieri, la nostra abissale interiorità. Tutto ciò che in noi indichiamo con nomi differenti – fisico, biologico, psichico etc. – è manifestazione di un’idea o ci rinvia a un’altra idea. La nostra vita è in fondo il prevalere di alcune idee su altre, il risultato delle loro combinazioni e contraddizioni. Ma nessuna idea ci appartiene.
Evidentemente, nella loro accezione notturna, le idee non sono concetti astratti. Sono forze, leggi, flussi di coscienza. Dharma che sostiene l’universo, fertile inconscio, energia, sorgente di vita da cui zampillano gli esseri. Emergono da ignoti recessi, prendono forma di atomo, di stella, di uomo, scrivono i nostri destini. Nella notte le senti affollarsi e premere ai confini tra l’inconscio e la coscienza, come evocate da un potente desiderio. «Vi chiamo alla vita, o forze misteriose, sommerse nelle profondità oscure dello spirito creativo».
Le idee realizzano sempre, manifestandosi, un atto creativo e in quanto tale divino. Perché allora non chiamarle ‘divinità’, e non considerare l’universo l’opera di un infiniforme politeismo? Ciò che si oppone a questo pensiero è l’unità, l’ordine cui tutte le idee ubbidiscono, la loro organica solidarietà. Inchinandoci di fronte alla creatura, ci inchiniamo quindi di fronte all’idea ma, prima ancora, di fronte all’unico Dio.
Potrei chiedermi in modo analogo se quel che dico ‘io’ è flusso di idee impersonali o se in me si incarna una gerarchia di idee al cui vertice sta l’idea di un essere singolare, cui le altre idee in me sono sottomesse. Sono un’immagine puntinista che crea l’illusione di un individuo o sono realmente un unico, personale Sé? Razionalmente potrei rispondere che mi è impossibile avere l’illusione di un Sé senza conoscere un Sé reale. Ma nell’idealismo notturno non serve cercare una conciliazione tra i sensi, le cose e l’intelletto. Nella notte si dice «io» e «tu» senza spiegazioni e mediazioni razionali.
Il pensiero notturno non procede per sillogismi ma per stupori. L’arte è la forma privilegiata di questo meravigliarsi. Nell’arte, nelle sue estasi dolorose o di piacere, come nella carne, si superano le rigide dicotomie del pensiero diurno: spirito e materia, forma e sostanza, unità e molteplicità etc. L’antitesi di questo idealismo creativo è la meccanicità. Perciò oggi l’arte si è fatta sterile e rischia di morire.
La produzione surroga oggi la creazione, il segreto di fabbrica sostituisce il mistero. Nella macchina l’idea di atrofizza, si congela, si fa stereotipo. Lo stupore che un invisibile artificio può produrre svanisce rapidamente nella ripetitività dei suoi automatismi. Ma un tramonto ci incanterà sempre, Le nozze di Figaro, ascoltata per la centesima volta, ci sorprenderà ancora e manterrà intatto il suo mistero.
L’esistenza delle idee non si spiega, non ha origine nel tempo, non dipende da cause. Ha radici nel vuoto. Non possiamo vederle, ma la notte ce ne porta il profumo, ce ne fa toccare il brulicante divenire, che è anche il nostro. V’è infatti un’inalienabile coincidenza tra le forme caduche della carne e l’indistruttibilità dell’idea. Nel nostro corpo tempo ed eternità si fondono. L’idea, per così dire, ci infetta con la sua immortalità.
Perciò l’uomo sempre rinasce, idea in fieri che coerentemente si perfeziona, passando attraverso infinite reincorporazioni in cui l’idea semplicemente cambia pelle, come un serpente, tendendo a un corpo ideale, compiuta armonia tra una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato. Secondo l’idealismo notturno, a governare questo processo è l’amore della bellezza, una cosmica filocalia. Ogni idea, come ogni artista, tende infatti a correggersi, ad affinarsi e a trascendersi, secondo gli impulsi della sua libertà.
Il pensiero notturno non è visione, è respiro. Non gli importa se il pensiero diurno, nella sua lucida e moralizzante sobrietà, gli rimprovera l’ebbrezza, la dissolutezza o l’indolenza, e lo vuol richiamare a un ordine operoso. Non si preoccupa se l’orda positivista si avventa ferocemente sul mistero e ne fa scempio, come una muta di cani dilania il cervo le cui corna si sono impigliate in rami metafisici. Il cuore nottivago coglie in sé il battito delle idee, e non si cura di teorie.
Gli basta tenere accesi i suoi piccoli fuochi, condividere con altri il suo cibo, aver fede nel mistero che lo avvolge. La verità non è per lui una proposizione logica, ma un ossimoro, una musica callada – musica silente, come dice Juan de la Cruz. È come la vita, vertigine, annotazione dell’inesprimibile. Una voce silenziosa che dice: non aver paura, e abbi compassione di chi soffre. Un sommesso chiarore gli lascia a fatica scorgere una casa, un sentiero su cui camminare. Nell’attesa della vera luce, di un’alba notturna, che non disperde le sacre oscurità della notte ma i falsi lumi della ragione.
Perché non vedere, non sapere nulla con certezza, è la condizione dell’uomo. Sopra di noi vagano nuvole buie, grappoli profetici di stelle brillano freddi e lontani, senza illuminarci. Dobbiamo attendere «nella notte calma, vicino al sorger dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora, cena che ristora e che innamora». Fedeli alle idee che vivono in noi, compagni di altri esseri notturni – carni vagabonde come noi, ombre solitarie, fraterne, che errano insieme – senza trasformarci in notturni rapaci.
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