“La lingua è un guado nel fiume del tempo.
Ci porta alla dimora dei nostri antenati
Ma non vi potrà mai giungere
Colui che ha paura delle acque profonde”
Vladislav Illic-Svityc
Di Fabio Calabrese
La verità è come il sughero: occorre uno sforzo per tenerla sommersa, poi basta distrarsi un attimo, e viene inevitabilmente a galla.
Negli ultimi settant’anni – guarda caso, a partire dalla seconda guerra mondiale, dalla fine della centralità politica dell’Europa, schiacciata sotto il tallone americano – sovietico, e oggi solo yankee (ma non è un miglioramento) – si è cominciata a costruire un’immagine in totale contrasto con le idee diffuse prima del conflitto, e nella quale il ruolo storico dell’Europa appare bruscamente ridimensionato rispetto a quanto i nostri padri e i nostri nonni, ma potremmo dire anche i nostri antenati di tutte le generazioni che li hanno preceduti, hanno sempre pensato su se stessi.
Non si tratta di una questione astratta destinata a rimanere confinata nel mondo delle idee, perché l’idea che gli uomini hanno di se stessi orienta inevitabilmente le loro azioni e contribuisce a disegnare il loro futuro, e – anche qui cosa davvero sorprendente – la “nuova” visione, l’ortodossia storico-scientifica degli ultimi tre quarti di secolo, finisce per coincidere troppo bene con ciò che i nuovi dominatori desiderano pensiamo di noi stessi, per non essere sospetta, ma il diavolo, dice un detto popolare, fa le pentole ma non i coperchi, e la realtà ha la sgradevole tendenza a non conformarsi a quanto un’ideologia precostituita, “politicamente corretta” imporrebbe di pensare.
La visione storico-scientifica oggi ritenuta ortodossa, come lo era l’aristotelismo ai tempi di Galileo, è una sorta di torta a tre strati, che tende a rispondere alla genesi di tre eventi fondamentali: l’origine della nostra specie, l’origine dell’uomo europeo o indoeuropeo, e quella di ciò che chiamiamo civiltà.
L’homo sapiens sarebbe originario dall’Africa, gli Indoeuropei farebbero parte di un complesso di popolazioni di agricoltori di origine mediorientale, e sempre in Medio Oriente sarebbe sorta la civiltà umana. In tutti e tre i casi, si vede bene che il ruolo dell’Europa è ridotto a quello di un’appendice tardiva e marginale.
La concordanza di questa serie di interpretazioni con ciò che fa comodo a coloro che settant’anni fa al termine della guerra più atroce della storia umana, misero l’Europa in ginocchio, è veramente troppa per non essere sospetta, e i fatti, le scoperte più recenti su nostro passato, stanno infliggendo ad essa una smentita dopo l’altra, solo che le vestali della “cultura” democratica e progressista sono molto attente al fatto che queste smentite non giungano alle orecchie del grosso pubblico, e questo insieme di menzogne rimane “la verità scientificamente ortodossa” che si continua a insegnare nelle scuole.
Del primo strato della torta, la supposta origine africana di Homo Sapiens, forse non varrebbe nemmeno la pena di parlare, tanto i fatti recentemente emersi dalla ricerca la pongono in discredito: ricerche condotte in tempi recenti su antichi fossili umani hanno dimostrato che tutte le popolazioni umane moderne a eccezione degli africani hanno ereditato in una misura stimata intorno al 2% il patrimonio genetico dell’uomo di Neanderthal che non era, come si è spesso creduto, anatomicamente primitivo e “scimmiesco”, ma le cui peculiarità anatomiche rispetto all’umanità attuale rappresentano un adattamento alle condizioni climatiche dell’età glaciale e trovano un parallelo in quelle degli odierni esquimesi. Senza contare il fatto che il più verosimile antenato comune di Neanderthal e Cro Magnon non è africano, ma è rappresentato dal fossile dell’uomo di Ceprano, noto anche come Argill, vissuto in Italia circa 900.000 anni fa. Ora, che io sappia, l’Italia non è Africa, o perlomeno non lo è ancora, anche se i buoni democratici e progressisti, di sinistra e cattolici, favorendo in tutti i modi l’immigrazione selvaggia e incontrollata, sembrano intenzionati a farla diventare Africa al più presto.
Un altro antenato finora sconosciuto, e che sembra aver dato un apporto non trascurabile all’umanità attuale, è l’uomo di Denisova, i cui resti sono stati ritrovati nella grotta di Denisova nell’Altai, e se tanto non bastasse, si sono pure ritrovati i resti di un piccolo uomo (è stato soprannominato “hobbit”) anch’esso estraneo a presunte migrazioni
africane, nell’isola di Flores in Indonesia, che sarebbe vissuto fino a 15.000 anni fa.
africane, nell’isola di Flores in Indonesia, che sarebbe vissuto fino a 15.000 anni fa.
Con ogni probabilità, noi abbiamo ricevuto un contributo genetico importante da popolazioni non di origine africana (a meno di non risalire fino agli ominidi della Rift Valley di milioni di anni fa): Neanderthal, Denisova, forse anche Flores, ma anche ammettendo un’origine africana per gran parte del nostro attuale patrimonio genetico, non è detto che a ciò non vada attribuito un significato molto diverso da quel che solitamente gli si attribuisce: a un certo punto si sarebbe verificata una divisione fra due gruppi umani, quelli che restarono nella culla ancestrale africana e quelli che migrarono, stanziandosi in territori con un clima più rigido con fluttuazioni stagionali, con risorse più scarse. Furono questi ultimi i veri protagonisti dell’evoluzione umana, dovettero non soltanto adattarsi ad ambienti più ostili, ma sviluppare la capacità di attingere a nuove risorse, la preveggenza per i momenti difficili, la cura della prole, dovettero diventare più intelligenti e porre quelle basi che alla lunga avrebbero creato la civiltà umana, mentre coloro che erano rimasti in Africa potevano continuare a crogiolarsi in uno stile di vita che non differiva molto da quello degli ominidi primitivi.
Il terzo strato della torta, l’origine della civiltà, è un argomento che abbiamo sviscerato con ampiezza. Io a suo tempo scrissi un saggio, “Ex oriente lux, ma sarà poi vero?” apparso su “Ereticamente” suddiviso in quattro parti. Ultimamente, alla luce di nuovi fatti emersi, avevo pensato di tornarci sopra con un aggiornamento. Beh, man mano che procedevo con questo lavoro, sono saltati fuori elementi nuovi a cascata, sì che gli aggiornamenti sono diventati quattro, raddoppiando l’estensione del saggio.
In estrema sintesi, a dimostrare che quella che chiamiamo civiltà è sorta in Europa e non in Medio Oriente, ci sono: le costruzioni megalitiche che testimoniano non solo una raffinata conoscenza ingegneristica, ma una altrettanto sviluppata conoscenza astronomica rivelata dagli allineamenti dei monumenti in questione a solstizi, equinozi, fasi lunari, poi la priorità europea nell’uso dei metalli (l’ascia dell’uomo del Similaun), nell’addomesticamento di bovini (dimostrata dalla capacità di assimilare il latte vaccino in età adulta), nell’invenzione della scrittura (tavolette di Tartaria), nella misurazione del tempo, stando all’antichissimo calendario mesolitico recentemente ritrovato in Scozia.
Come se non bastasse, là dove sono sorte le grandi civiltà extraeuropee, troviamo sempre le tracce di un antico popolamento europide: i Tocari, le mummie di Cherchen, gli Ainu e gli Jomon del Giappone per quanto riguarda l’Asia, ma anche tracce di una remota colonizzazione europea risalente all’Età Glaciale per le Americhe, assieme alle leggende su “dei” civilizzatori bianchi e barbuti: Quetzalcoatl e Viracocha.
Una vera sorpresa, mentre ero intento a queste ricerche, è stata la tesi sostenuta nel libro di Mario Pizzuti “Ricerche archeologiche non autorizzate”, che una forte impronta europea sarebbe riconoscibile alla base delle stesse civiltà mediorientali, dove a cominciare dall’Egitto ma probabilmente anche in Mesopotamia, le élite avrebbero avuto caratteristiche europee e nordiche molto diverse dal tipo prevalente nella popolazione.
Da un certo punto di vista, la centralità attribuita al Medio Oriente nella storia umana, è una conseguenza diretta de peso che ha ancora oggi nella nostra cultura la bibbia, impostaci dal cristianesimo, perché questa è l’area del mondo da cui sono originari l’uno e l’altra, ma oggi si rivela pienamente funzionale agli interessi del mondialismo e, come dire? Del maiale non si butta via niente.
Rimane da affrontare lo strato intermedio della torta. Cosa si può dire degli Indoeuropei, chi erano veramente: allevatori e guerrieri delle steppe eurasiatiche o allevatori sedentari di origine mediorientale, qual’era la loro origine?
Se c’è mai stata nella storia della scienza una classe intellettuale realmente interessata alla conoscenza, questi sono stati certamente gli scienziati tedeschi del tardo XIX secolo, al punto che la metodicità, la precisione, la pignoleria dello “Herr Professor” sono spesso diventati macchiette.
Costoro fecero una scoperta fondamentale: risalendo indietro nel tempo, le lingue dei Greci, dei Latini, dei Germani, dei Celti, degli Slavi, degli Iranici, degli Indiani, convergevano verso un’unica origine, verso una primordiale Ursprache, la lingua indoeuropea, poi divisa in un ramo occidentale (greco-latino-celtico-germanico) e in uno orientale (slavo-iranico-indiano) detti rispettivamente “centum” e “satem” dalla forma del numerale “cento”, quindi in ulteriori ramificazioni fino ad arrivare alle lingue attuali.
Ma se è esistita
una Ursprache, deve essere esistito anche un Urvolk, un popolo primordiale indoeuropeo, e una patria ancestrale. La grande diffusione delle lingue indoeuropee in età storica, si spiegherebbe col fatto che gli Indoeuropei si sarebbero espansi dalle loro sedi originarie sottomettendo diverse popolazioni, e avrebbero imposto ad esse la loro lingua e la loro cultura, costituendo le élite che hanno dato luogo alle civiltà ellenica, romana, celtica, iranica, indiana. Da una radice indiana che significa “nobile”, questi indoeuropei conquistatori furono chiamati “ariani”.
una Ursprache, deve essere esistito anche un Urvolk, un popolo primordiale indoeuropeo, e una patria ancestrale. La grande diffusione delle lingue indoeuropee in età storica, si spiegherebbe col fatto che gli Indoeuropei si sarebbero espansi dalle loro sedi originarie sottomettendo diverse popolazioni, e avrebbero imposto ad esse la loro lingua e la loro cultura, costituendo le élite che hanno dato luogo alle civiltà ellenica, romana, celtica, iranica, indiana. Da una radice indiana che significa “nobile”, questi indoeuropei conquistatori furono chiamati “ariani”.
Ce n’era, come si vede, più che a sufficienza per scontrarsi frontalmente con la concezione liberal-democratica e i suoi dogmi. Prima di tutto, risultava bene la distanza fra questo mondo indoeuropeo di cui si riscoprivano i lineamenti, e l’universo semitico da cui era sorto il cristianesimo, e non penso che sia un caso che proprio negli stessi anni si sia sviluppata la radicale critica anti-cristiana di Nietzsche (e Nietzsche, guarda caso, era di formazione filologica, cioè linguistica).
Soprattutto, però essa rappresentava un attacco a fondo al dogma democratico dell’uguaglianza degli uomini e dell’irrilevanza dei fattori razziali. Era un ostacolo all’affermazione planetaria della (loro presunta) razionalità scientifica, esattamente come l’ascesa politica della Germania unificata attorno alla Prussia di Bismark, era un ostacolo all’affermazione mondiale della democrazia, di una democrazia che dietro la facciata del “potere al popolo” mirava alla creazione della tirannide mondialista che oggi vediamo pienamente dispiegata.
Questa è una parte della storia che purtroppo conosciamo tutti, sappiamo come, per stroncare la rivoluzione politico-culturale che si andava profilando in Germania, e che rischiava di essere, assai più dei superstiti ancien regime, l’ostacolo all’affermazione di quel potere mondiale che si era costruito a partire dalla rivoluzione francese del 1789, e poi cresciuto approfittando delle rivoluzioni liberali dell’ottocento, si sia scatenato l’orrore di due guerre mondiali.
Nel contempo, però, la democrazia non ha certo rinunciato a usare tutte le armi intellettuali che aveva contro questa concezione che rischia di sradicarla dalle fondamenta. Si è preteso che la storia delle lingue e la storia dei popoli che le parlano fossero/siano due cose diverse. Certamente, vi sono gruppi umani che parlano lingue diversissime da quelle dei loro antenati, ad esempio gli afro-americani che parlano inglese negli Stati Uniti e spagnolo o portoghese nell’America meridionale, ma certamente fenomeni come la tratta degli schiavi su grande scala che ha dato loro origine, non sono ipotizzabili in un passato remoto. Le società multietniche forse un domani diventeranno comuni, segno della decadenza moderna, ma ancora oggi sono un’eccezione e in passato proprio non esistevano. Più risaliamo indietro nel tempo, più possiamo considerare sicura la corrispondenza etnia-lingua.
Quando Luigi Luca Cavalli Sforza, antropologo e genetista “ortodosso”, immanicato al potere come tutti i membri dell’establishment culturale confidò a “Le scienze” di aver constato “con sorpresa” la coincidenza fra l’albero genealogico delle lingue e quello delle popolazioni umane ricostruito in base allo studio del DNA, fece un’ammissione pericolosa. Quella sua “sorpresa” rivela proprio la mentalità di fondo democratico-marxista per la quale eredità biologica e cultura DEVONO essere due cose non solo separate, ma contrapposte.
Dedicheremo la seconda parte di questo scritto ad esaminare la spiegazione proposta dalla “scienza ortodossa” riguardo all’origine delle lingue indoeuropee e dei popoli indoeuropei in alternativa al “mito ariano” (e i democratici non si rendono conto di quanto questa espressione, “mito” che vorrebbe denigrare queste tesi, invece le nobiliti), l’ipotesi del nostratico. La citazione che ho messo in epigrafe a questo scritto, è di Vladislav Illic-Svityc, uno dei linguisti che hanno dato vita all’ipotesi del nostratico, e mi pare sia sufficientemente bella anche senza essere d’accordo con le sue tesi. A noi le acque profonde non fanno paura, ma forse la casa degli antenati a cui alla fine approderemo, sarà alquanto diversa da quella da lui indicata.
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