“Antarès, Prospettive Antimoderne” è una delle più interessanti riviste che mi sia capitato di leggere in questi anni. Un incontro nato per caso, del tipo: “Prova a leggere questa rivista, potrebbe interessarti tu che non fai che parlarmi di Mishima e Jünger. Innamoramento istantaneo. Da poche settimane è uscito un corposo volume edito dalle Edizioni Bietti che raccoglie gli undici numeri della rivista. Ho deciso allora di intervistare Andrea Scarabelli, direttore editoriale della rivista e direttore della Collana l’Archeometro delle Edizioni Bietti, ponendogli alcune domande sulla genesi della rivista, sulle sue prospettive e su molto altro.
a cura di Andrea C.
Ciao Andrea, comincio col chiederti: davanti a questo corposo volume che raccoglie gli undici numeri, che bilancio trai fino ad ora dell’esperienza di Antarès? Fu difficile per voi districarvi nel difficile panorama universitario milanese e con quali risorse, umane ed economiche, riusciste a proseguire nella vostra avventura?
Credo che il bilancio sia complessivamente molto positivo e il vedere questo volume unico ne è la prova. Nel corso degli ultimi cinque anni, questa rivista è riuscita ad aggregare realtà molto diverse ed eterogenee, facendo collaborare studiosi di almeno tre generazioni, molti dei quali non hanno mai partecipato alle stesse iniziative. Il fatto poi che ciò sia stato realizzato da una redazione esigua rispetto ad altre ha del miracoloso. Come tutte le iniziative indipendenti, Antarès ha una storia complessa. Nata nell’Università degli Studi di Milano ad opera di un gruppo di studenti di filosofia, è successivamente approdata al catalogo di Edizioni Bietti. L’editore si è appassionato da subito alla forma e ai contenuti della rivista, che ha rilevato, mantenendone addirittura la formula gratuita.
Non credo che in molti conoscano questa rivista, ti va di raccontare come è nata e con quali propositi? E come si struttura la redazione?
L’obiettivo era riportare al centro del dibattito autori solitamente messi al bando e ignorati dai baroni accademici e dalle oligarchie cattedratiche (ma anche dai loro zelanti discepoli). Un intento fortemente polemico (basta leggere la prima versione del manifesto, pubblicata sul n. 0), che in
Si parla di “prospettive antimoderne”. Che differenza c’è fra moderno e modernismo?
La differenza c’è, ed è fondamentale. Antimoderno è l’approccio di chi si rifiuta di vivere nel proprio tempo, una specie di laudator temporiis acti, un conservatore fuori tempo massimo incapace di dialogare con il presente. Antimodernismo, invece, è il rifiuto del culto di una modernità il cui naufragio e sempre più sotto gli occhi di tutti. Va da sé che è il secondo tipo di atteggiamento a connotare le nostre ricerche e pubblicazioni. Oltre conservatorismo e progressismo: questo il manifesto ideale di Antarès.
Ha ancora senso oggi, nell’era del web, pubblicare una rivista cartacea? All’accusa di essere elitari, snob, di nicchia cosa risponderesti?
A mio giudizio, sì, ha ancora senso affidarsi alla carta (personalmente non riesco a leggere sullo schermo di un pc, o su uno di quei dispositivi preposti a pdf, mobi, epub… è una mia idiosincrasia, lo riconosco, non amo, in genere, sigle e abbreviazioni). Questo non esclude vi siano iniziative editoriali molto interessanti sviluppate esclusivamente in Rete. L’attuale panorama di quella che potremmo chiamare, semplificando, cultura non conformista, offre diversi esempi: blog e riviste come L’intellettuale dissidente, Barbadillo, Ereticamente e La confederazione italiana, solo per citarne alcuni… Antarès pratica entrambi questi cammini, da un lato scegliendo una produzione cartacea tradizionale, distribuita attraverso diverse librerie fiduciarie, dall’altro mettendo a disposizione i propri materiali on-line, sul sito di Bietti. L’essere elitari, per quanto mi riguarda, non è affatto un problema: il problema, semmai, è capire in base a che cosa ci si definisca tali. Se da un punto di vista meramente economico, sociale, oppure da un punto di vista spirituale – intellettuale, diciamo, à la Guénon. Se intesa così, allora non capisco come possa essere una nota di discredito. Per quanto riguarda le nicchie, c’è da dire che spesso producono risultati molto interessanti. Il problema, semmai, è che spesso tendono ad essere chiuse e autoreferenziali.
Sfogliando i numeri si leggono i nomi di Cioran, Jünger, Eliade, Lovecraft, Tolkien, Disney? Cosa unisce e cosa magari anche divide questi autori? E quali di questi autori ti ha maggiormente segnato nella tua vita?
A unirli è l’idea di una critica al culto della modernità, come detto poco fa. A dividerli sono varie modalità e sfumature, dovute alle equazioni personali, ai destini e alle individualità. Forse – ma è solo una chiave di lettura – ciò che li lega è la ricerca di una nuova forma di estetica, nella denuncia di un’epoca storico-destinale che ha negato la bellezza, sostituendola con le categorie dell’utile, dell’economico, della materia. Dalle loro pagine traspare la nostalgia di un’autenticità, insieme alla necessità di attraversare questo nostro tempo alla luce di valori e idee che in questo stesso tempo non si esauriscono. È questa sensazione ad avermi segnato, nel corso degli anni…
E una piccola domanda, laterale: che differenza esiste fra il cinema di Disney e l’animazione contemporanea? Te lo chiedo perché, lavorando nel cinema, non riesco minimamente ad appassionarmi ai nuovi film di animazione.
Francamente non saprei risponderti utilizzando un linguaggio tecnico: sono un profano della Settima Arte, da un punto di vista critico. Devo provare ad assecondare quello che è il mio gusto, la sensazione immediata di trovarsi di fronte a un buon prodotto o no. L’animazione contemporanea non riesce a trasmettermi ciò che attraversa invece i capolavori firmati da Walt vivente. In essi si respira un’aria singolare, che forse il genio di Disney non è riuscito a inoculare nei suoi successori.
Dell’arte, della critica, della cultura in generale contemporanea c’è qualcosa che ti soddisfa e cosa invece detesti profondamente. Ci sono autori contemporanei, nostri coetanei magari, che apprezzi?
Be’, se parliamo di critica, devo dire che il catalogo di ciò che odio è in costante – ed esponenziale – aggiornamento. Il trombonismo di certi maître-à-penser, il loro vigliacco e minuziosissimo puntualizzare, stemperato da un doppiopesismo culturale, come, in fin dei conti, antropologico… Bisogna stare molto attenti con i critici, specie con quelli invadenti, militanti, imbevuti di sociologia o psicanalisi, maestri di quella che Harold Bloom ha definito scuola del risentimento e che Ray Bradbury chiamava con disprezzo dittatura delle maggioranze e delle minoranze… Di autori contemporanei – appartenenti, diciamo, agli ultimi decenni – ce ne sono parecchi che seguo. Non mi perdo nessun libro di Stenio Solinas, Alberto Arbasino, Guido Ceronetti, Maurizio Serra… Solo per fermarmi agli italiani.
Antarès sembra del tutto estranea a quella distinzione ormai obsoleta destra-sinistra e si colloca, credo, in quel ribollire che unisce tradizioni del passato, tentativi di fondere esperienze diverse, per porre le basi per un nuovo sentire che viva comunque di pluralità. Dell’attuale fase politica cosa ne pensi? C’è qualcosa/qualcuno che ti appassiona?
La rivista ha sempre mantenuto questo grado di estraneità in virtù del tentativo di rispondere allo spirito dei tempi. E lo spirito di questo tempo ci dice costantemente che le categorie di destra e sinistra non sono (più) adeguate a descrivere ciò che sta accadendo. A scandire oggi le varie dicotomie e opposizioni sono altri fronti, il globalismo, l’Europa… Argomenti spesso trasversali, che non hanno timore di passare da uno schieramento all’altro, senza soluzione di continuità. Lo ripete da decenni – ovviamente, inascoltato – Alain de Benoist: destra e sinistra sono concetti moderni, e il nostro tempo, in qualche misura, ha superato la modernità. In nome di cosa l’abbia fatto è altra questione. Ma è un dato di fatto. Il fronte su cui si muove Antarès è del tutto trasversale, orizzontalmente come verticalmente, nello spazio come nel tempo, non si pasce di paradisi perduti o utopismi ultraprogressisti ma s’incunea in quello che, in uno dei suoi libri migliori, Guillaume Faye ha definito Archeofuturismo, la ricerca di forme nuove, moderne e tradizionali, che siano all’altezza delle sfide del tempo.
Conosci bene Milano: come sta la città? Personalmente ho smesso di riconoscermi in questa città, che ormai (salvo ovvie eccezioni) vive di movida, spersonalizzazione, Eataly, Expo, turismo a go-go, vetrine su vetrine, saloni su saloni di ogni genere.
Bé, a Milano sono nato, e come ogni milanese che si rispetti odio la mia città. La odio perché la amo profondamente. E chiunque abbia legato il proprio destino a questa città non può che detestare il teatrino che ne ha preso il posto, che hai affrescato magistralmente, una città che ha fatto di tutto per dimenticare la propria vocazione culturale e civica. E poi, d’altra parte, non è facile comprendere Milano. Il suo animus riposa in un luogo immune a qualsiasi bagatella architettonica o modaiola – è un luogo, tuttavia, sempre più inaccessibile. Ciò che di positivo la Milano presente offre, almeno dal mio punto di vista, è duplice: da un lato, certe tendenze che altrove sono allo stato latente, o in fase embrionale, qui sono sviluppate all’ennesima potenza (il che fa di questa città un ottimo luogo di osservazione del presente); dall’altro, è proprio in epoche grigie che i colori risaltano maggiormente. Sta a noi, allora, individuare questi territori, intravedere le potenzialità, costruire linee che uniscano più che dividere, generare sinergie. È appunto ciò che questa rivista prova a fare. Impensabile pensare questo progetto al di fuori del suo ambiente, milanese.
Ultima domanda: come sta la nostra generazione?
La nostra generazione – immagino noi si sia più o meno coetanei – non gode proprio di ottima salute. Brasillach scrisse che a trent’anni, mese più, mese meno, si fa testamento. La nostra generazione, sino ad ora, non è stata che il testamento delle precedenti. Una generazione che vive all’ombra dello snobismo di chi salmodia la supremazia degli anni Sessanta e Settanta: chi non li ha vissuti non ha conosciuto l’amore vero, la politica vera, l’amicizia vera, e via dicendo. È un sentimento reducista e incapacitante, denunciato di recente da Riccardo Paradisi, in quello che è uno dei libri più belli che mi siano capitati tra le mani: Un’estate invincibile, breviario per la nostra generazione (uscito nella collana l’Archeometro di Bietti, che affianca la rivista da qualche anno a questa parte). Una generazione che per prima si è formata sul web e nella realtà informatica, che ha subito quella delocalizzazione geografica – e dunque antropologica – che, in obbedienza alle leggi del capitale, estende alle persone le norme delle merci. E ci vuole fluidi, disponibili, openminded, flessibili, global, le nostre lingue infestate dal basic english, le nostre anime dal più becero consumismo che non ha timore di sfruttare il vangelo dei diritti dell’uomo (occidentale, ça va sans dire): due anni a Londra, che non ne vuole più sapere di noi, due a Madrid, due a Praga, e nulla in mano. Nulla. Anime virtuali, sradicate e decontestualizzate come il capitale finanziario che le amministra. Gli effetti di questo cancro antropologico – Il sistema che uccide i popoli, l’aveva chiamato Faye – saranno visibili tra un decennio. Staremo a vedere. Intanto, godiamoci l’impoverimento generalizzato di quel che siamo – ignorando sistematicamente come qualcuno avesse previsto decenni fa la nostra fine, cui assistiamo e contribuiamo, spettatori in prima serata. Ecco la nostra generazione. Una generazione che non ha fatto in tempo a perdere nulla, la guerra o il Sessantotto, troppo giovane per vedere crollare il muro, in ritardo sui tempi, in ritardo su se stessa. Di fronte a questa eclissi umana, personalmente credo che l’unico lavoro utile da proporre sia lavorare sulla propria individualità, alacremente e incessantemente, e cercare animi simili. Creando collegamenti, sinergie, appunto, tra quelle poche realtà di questo disgraziato Paese che ancora hanno un volto dietro alla maschera. È forse questo il contributo che la generazione nostra può dare, cessando di scimmiottare pose fuori tempo massimo. Ed è anche, ovviamente, il compito che si è assunto questa rivista.
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