Nel precedente articolo “Il Secondo Peniglaciale, Nordatlantide e l’inizio dell’Età dell’Ascia” avevamo visto come la recrudescenza wurmiana di circa 20.000 anni fa innescò una serie di ondate migratorie a largo raggio che interessarono l’Eurasia, l’America ed anche l’Africa; ci eravamo inoltre ripromessi di fare qualche analisi sulle relazioni tra questi movimenti e la famiglia etnolinguistica indoeuropea che, come ben sappiamo, comprende la grande maggioranza delle lingue del nostro continente tranne poche eccezioni (Basco, Estone, Finlandese, Lappone, alcune parlate uraliche in Russia, Ungherese, Maltese, Turco, lingue nord-caucasiche) ed in Asia si stende tra il Kurdistan ed il Bangladesh.
La formazione della Razza Eroica nel Terzo Grande Anno del Manvantara comportò anche il differenziarsi, a partire dal comune tronco “nostratico” (superfamiglia a mio avviso originatasi già verso la fine del Satya Yuga), di vari gruppi linguistici che sarebbero stati composti, in diversa misura, dall’elemento antropologico più specificatamente “bianco”. Senza andare a riprendere le elaborazioni accademiche di scuola soprattutto tedesca del XIX secolo e guardando al più ristretto campo degli autori “tradizionalisti”, è stato sicuramente Julius Evola che ha accolto l’idea di un accostamento tra l’elemento eroico e la civiltà Aria, insistendo spesso sul collegamento tra la nostra famiglia etnolinguistica e le popolazioni nordiche; la strada successivamente è stata seguita, con un’impostazione decisamente più archeologica, anche da Adriano Romualdi, le cui valutazioni rappresentano, nel suo importante studio, un utile spunto per alcune considerazioni che verranno svolte in merito al quadro cronologico della genesi indoeuropea. La correlazione tra la Razza Bianco-Eroica e gli Indoeuropei presenta sicuramente una sua validità di fondo anche se, come detto, non bisogna commettere l’errore di ritenere che questa sia stata portatrice esclusivamente di lingue Arie, né che abbia rappresentato (come da articolo “Giganti, Eroi, Razza Bianca”) un tipo assolutamente omogeneo in tutta la sua estensione, viste le due componenti – quella “pesante-cromagnoide” e quella “leggera-combecapelloide” – alle quali presumibilmente dovette la sua genesi e che in vari gradi possono aver inciso a seconda delle aree geografiche. Da queste prime considerazioni si può quindi rimarcare il fatto che il concetto di “Razza Bianco-Eroica” sia senz’altro di portata ben più vasta di quello di “Indoeuropeo”, come appare evidente se ricordiamo il biondismo che ad esempio interessa anche le popolazioni uraliche, caucasiche o berbere.
Già precedentemente si era rilevato come Renè Guenon, in verità, fu molto scettico nei confronti di tutte le ricerche volte a mettere in luce l’unità indoeuropea, ritenendola una mera astrazione ottocentesca degli accademici tedeschi; bisogna dire che tale idea in parte è stata condivisa anche da qualche ricercatore o, quanto meno, se ne è messo in discussione il concetto della unita filogenetica di origine, ipotizzando invece altri processi formativi. Nikolaj Trubeckoj, ad esempio, negò l’esistenza di una vera e propria comunità indoeuropea con una proto-lingua specifica ed un relativo “popolo originario” alle spalle, di fatto riducendola, come propose Vittore Pisani, ad un sistema di “isoglosse” generatesi per incontro e convergenza di idiomi diversi, evidentemente preesistenti. Una dinamica definibile quindi come “sprachbund”, che per Trubeckoj avrebbe spiegato alcune eterogeneità linguistiche e si sarebbe omogeneizzata non prima di 7.000 anni fa, risultando infine intermedia, come anche ritenuto da Uhlenbeck, tra le lingue ugrofinniche e quelle caucasiche. Vittore Pisani fu ancora più specifico nell’ipotizzare l’incontro tra nomadi della steppa e sacerdoti caucasici, e definì come “paleoeuropeo” il complesso delle lingue che andavano dal Basco al Caucasico ed a suo parere sarebbero state tutte assorbite nell’unità indoeuropea finale.
Questa particolare ipotesi glottogenetica tuttavia si discosta dall’opinione dalla larga maggioranza dei linguisti, che reputa la famiglia indoeuropea costituire un’unità ben definita, anche storicamente, da una comunanza di origine e dalla condivisione di un iniziale linguaggio “protoindoeuropeo”. Una “Ursprache” successivamente disarticolatasi in diverse sotto-unità (lingue italiche, celtiche, germaniche, slave, illiriche, indoarie, ecc..), dalla quale deriverebbero le odierne similitudini rilevabili non solo a livello lessicale, ma anche a quello morfologico più profondo delle strutture grammaticali: una “parentela” che emerge decisamente quando, scegliendo due lingue indoeuropee qualsiasi, queste risultano geneticamente molto più vicine l’una all’altra di quanto non lo siano nei confronti di una qualsiasi altra lingua di diversa famiglia.
Presupponendo quindi come dato sufficientemente sicuro un gruppo originario di parlanti un protoindoeuropeo ancora indiviso, bisogna dire che invece a minori certezze sembra essere giunto il dibattito sulla localizzazione della patria comune – della “Urheimat” – dove i nostri Avi più diretti avrebbero vissuto prima di frammentarsi nei vari sottogruppi. E’ una discussione che si protrae fin dal XIX secolo e del quale non è il caso di fare qui la storia completa, ma che può essere interessante riassumere nei più importanti contributi emersi in tempi recenti, diciamo dalla seconda metà del XX secolo; tra le varie ipotesi formulate, quelle attorno alle quali si è forse sviluppato il maggior scambio nel mondo accademico sono state la “teoria kurganica”, perfezionata dalla lituana Marija Gimbutas (che propone una localizzazione nella Russia meridionale da parte di popolazioni nomadi circa dal V millennio a.c., quindi in età calcolitica) e la “teoria anatolica” elaborata dal britannico Colin Renfrew (che individua il nucleo originario nell’attuale Turchia, a partire dal VII millennio a.c., quindi in età neolitica e sulla base di una popolazione agricola). Ma a parte Gimbutas e Renfrew, alcune delle altre sedi che sono state proposte si sono concentrate soprattutto su un’area centro-est-europea, ed a questo proposito già a suo tempo Karl Penka aveva avanzato l’idea di una “culla” non più orientale della linea che corre da Koenigsberg / Kaliningrad alla Crimea: basandosi sull’assenza del faggio oltre a tale riferimento e ritenendone la parola attestata con buona omogeneità nelle lingue indoeuropee, si era dedotta l’esistenza di un unico termine per designarlo nella fase ancora comune, ovviamente in un ambito geografico dove questo poteva avere un senso. Argomentazione (come anche quella, analoga, relativa alla parola indicante il salmone) tuttavia contestata da Marcello Durante sulla base del fatto che i termini che in alcune lingue indoeuropee si associano a questi due elementi, in altre, pur presentando una radice simile, rivestono significati piuttosto diversi, concludendo quindi che l’ipotesi di partenza non è scevra da una certa arbitrarietà.
Se quindi ci limitiamo alle teorie avanzate a partire dal 1960 fino ai nostri giorni, Giacomo Devoto propose una localizzazione della “Urheimat” tra Germania e Polonia, mentre Pere Bosch-Gimpera ne avanzò una che avrebbe compreso le culture neolitiche danubiane (i territori della “ceramica lineare”) e verso est sarebbe stata un po’ più ampia di quella di Devoto, arrivando fino all’Ucraina occidentale. A sua volta Georgy Georgiev propose una zona più estesa di quella di Bosch-Gimpera, arrivando ad oriente fino ai limiti dell’area indicata da Marija Gimbutas, area che invece viene del tutto inglobata nell’ipotesi di Alexander Hausler e Lothar Kilian, la quale supera la stima di Georgiev anche verso nord, comprendendo la Danimarca e la Svezia meridionale. Diversamente dai ricercatori sopra, Valentin Danilenko propose una zona simile a quella kurganica ma più estesa sia verso ovest (giungendo a nord della Crimea) che verso est (sponda orientale del Mar Caspio), mentre altri studiosi postularono invece territori di superficie più limitata, come la culla est-baltica di Wolfgang P. Schmid, quella balcanico-danubiana di Igor Diakonov, o in Boris Gornung una piuttosto simile a quest’ultima, ma più ristretta alla sponda occidentale del Mar Nero (non ho elementi per capire quanto questa teoria possa cronologicamente accordarsi con la recente ipotesi di Ryan-Pitman legata alla presunta inondazione pontica di 9-10.000 anni fa). Infine Thomas V. Gamkrelidze e Vjaceslav V. Ivanov suggerirono un settore più vicino a quello di Colin Renfrew, in Anatolia orientale e nella zona sud-caucasica, in base a contatti che ritennero di aver individuato con il semitico, il cartvelico ed altre famiglie linguistiche.
Tra le ipotesi più recenti ed anche originali, non tanto per la zona di origine proposta quanto per la datazione estremamente antica, bisogna citare la “teoria della continuità” formulata principalmente dal linguista Mario Alinei negli anni novanta. Si tratta di una visuale che postula l’indoeuropeizzazione del nostro continente addirittura in concomitanza con il suo popolamento iniziale da parte dei primi Homo Sapiens, analogamente a quanto, ad esempio, è avvenuto in Australia dove le lingue aborigene parlate ancora oggi hanno un’antichità stimata di 40-45.000 anni in quanto riconducibili alla prima colonizzazione umana. Anche Alinei considera, oltre alla sua, la teoria di Renfrew e quella di Marija Gimbutas le principali formulazioni oggi sul tavolo in merito alla proto-patria indoeuropea, pur ritenendo quest’ultima, la “kurganica”, in una situazione di grave crisi, ormai “clinicamente morta” anche a parere di alcuni archeologi. In effetti, è stato rilevato che sembrerebbero piuttosto scarse le tracce genetiche attribuibili a popolazioni provenienti dalle steppe della Russia meridionale per aver influenzato in modo così decisivo il quadro linguistico europeo; in ogni caso, Cavalli Sforza propende per associare alle espansioni dei kurgan una componente genetica di grandezza intermedia, la terza (che presenta un picco di frequenze a nord del Mar Nero ed un gradiente approssimativamente concentrico), quindi non proprio trascurabile ma nemmeno tra le più importanti del continente. Secondo Cavalli Sforza un possibile compromesso potrebbe essere costituito dall’idea che la cultura kurganica non abbia rappresentato la sede indoeuropea iniziale, ma piuttosto un’area di sosta e di irradiamento secondario, mentre per la zona di espansione primaria ritiene più convincente la teoria anatolica di Renfrew. Alinei invece le contesta entrambe: sul fondo preneolitico europeo – e cioè in larga parte già indoeuropeo ma composto anche da altre popolazioni, come baschi e caucasici – a suo avviso dalla zona kurganica giunsero piuttosto lingue di ceppo “turcico” (cioè connesse alla famiglia altaica centroasiatica), che però in gran parte sarebbero state assorbite dagli autoctoni senza aver particolarmente inciso sul quadro generale. Un fenomeno che avrebbe riguardato qualche millennio prima anche agli agricoltori anatolici, al massimo lasciando loro la possibilità di manifestare pochi marginali influssi non-indoeuropei, mentre invece secondo Renfrew sarebbe proprio all’espansione agricola che andrebbe collegata la diffusione della nostra famiglia linguistica. Più precisamente, l’archeologo britannico postula in medio oriente la presenza da almeno 27.000 anni di gruppi parlanti il “Nostratico” comune (collocandolo quindi, secondo la visuale qui adottata, a latitudini decisamente troppo basse e conferendogli una profondità temporale che non arriva al Satya Yuga) ed avrebbero poi sviluppato le prime tecniche agricole in tre “lobi” geografici collegati ma distinti, differenziando parallelamente anche i linguaggi: quello in Anatolia per le lingue indoeuropee, nel Levante (Palestina, Libano, Siria e Giordania occidentali) per le lingue camitosemitiche o “afroasiatiche”, e sui Monti Zagros (tra Iraq e Iran) per le lingue elamodravidiche.
Ma, come detto, i ricercatori che si rifanno alla “teoria della continuità” si pongono su basi cronologiche nettamente più profonde: ad esempio Xaverio Ballester, suggerisce tra 35.000 e 40.000 anni fa l’insediamento dei “Protoacquitani” nella zona tra il fiume Garonna ed i Pirenei come primo popolamento già indoeuropeo, e Francesco Benozzo propone la retrodatazione di 25.000 anni per una presenza già etnicamente celtica nelle sedi attuali. Lo stesso Alinei ipotizza la prima manifestazione del gruppo italico, ormai differenziato dagli altri Indoeuropei, nella cultura Epigravettiana (ovvero, le facies culturali successive al Gravettiano propriamente detto, come ad esempio il Solutreano ed il Maddaleniano), quindi collocabile circa nel XV millennio a.C. Come concetto generale, Alinei in definitiva sostiene che la “teoria della continuità” sarebbe avallata dai dati genetici europei (indica in particolare le variazioni relative al cromosoma Y), che evidenzierebbero una netta predominanza di elementi di origine paleolitica rispetto a quelli più recenti: una sostanziale continuità di popolazione, scarsamente interrotta da afflussi allogeni, che in effetti sembrerebbe trovare degli elementi a sostegno. A questo proposito, significativamente, Cavalli Sforza conferma come sia stato soprattutto il Paleolitico il periodo al quale è possibile far risalire la maggior parte delle odierne caratteristiche delle popolazioni europee, dal momento che in gruppi di scarsa entità numerica deve essere risultato molto forte l’effetto conosciuto come “deriva genetica”. Bisogna dire che fino a non molti anni fa, al contrario, si tendeva a ritenere ben più consistente l’apporto dei primi agricoltori attraverso quel processo, denominato “rivoluzione neolitica”, che mutò radicalmente la forma di sussistenza umana, con il passaggio da un’economia basata sulla caccia-raccolta a quella incentrata sulla produzione diretta di cibo; era stato formulato il modello ad “onda di avanzamento” che, pur non presupponendo macroscopici eventi migratori su larga scala, poneva comunque l’accento sulla lenta diffusione demica dei primi contadini ad una velocità radiale bassa, ma costante, rispetto al primario nucleo anatolico, espansione sostenuta dall’incremento della densità demografica che la nuova attività consentiva a parità di superficie di territorio utilizzato. Successivamente, però, è emerso che le migrazioni legate alla diffusione agricola del Neolitico devono aver influenzato il quadro genetico europeo in misura molto meno significativa di quanto fino ad allora ritenuto. Vari ricercatori hanno provato a quantificare le proporzioni dell’eredità paleo-mesolitica nell’attuale patrimonio genetico europeo, e ne sono emerse delle stime il cui campo di variazione ondeggia, a seconda degli analisti, da un valore minimo attorno al 66% fino ad un massimo che arriva a sfiorare il 90%. Con tutte le dovute cautele che in precedenza avevo già espresso in merito alle interpretazioni storiche dei dati genetici, sembrerebbe comunque che tali risultanze appaiano accettabilmente coerenti sia sul versante della variabilità di linea maschile (cromosoma Y) che su quella femminile (DNA mitocondriale); evidenze che quindi si accordano molto meglio con il modello formulato da Marek Zvelebil, il quale minimizza l’apporto diretto di nuovi gruppi umani immigrati e predilige la prevalenza di un passaggio soprattutto culturale delle nuove tecniche agricole a popolazioni rimaste in larga parte stanziali ed invariate. Tuttavia – e ciò a riprova di quanto la genetica delle popolazioni non sembri ancora in grado di fornire delle risposte univoche in punto alla “storicizzazione” delle sue evidenze – altri dati legati all’analisi del DNA biparentale suggerirebbero un’ascendenza neolitica non così trascurabile, ma comunque attestata soprattutto nell’Europa mediterranea, mentre in quella settentrionale, soprattutto ad ovest, rimarrebbe nettamente prevalente la componente paleo-mesolica. Comunque, su scala generale, non soltanto a livello genetico emerge un apporto demico quanto meno minoritario da parte degli agricoltori di provenienza anatolica, bensì ciò sembrerebbe confermato anche sul piano fenotipico dagli studi di Harding attorno alle misure craniometriche dei reperti neolitici, i quali non fornirebbero molti riscontri a sostegno delle migrazioni medio-orientali.
La permanenza paleo-mesolitica delle genti europee sembra quindi una dato in corso di continue conferme, anche se personalmente non ne seguo del tutto l’interpretazione proposta da Alinei; ciò, sia perché egli accetta, in ultima analisi, l’ipotesi della provenienza africana di Homo Sapiens (rif. precedente articolo “Madre Africa ?”), sia perché nega l’esistenza di un substrato preindoeuropeo che, anche se più sotto ne approfondiremo la scarsa influenza linguistica, in ogni caso ebbe nei “sino-dene-caucasici” una popolazione effettivamente anteriore (che, in termini mitico-tradizionali, ritengo fu collegata ad Eva e viene ricordata come quella Razza Rossa anticamente abitante la “Terra del Toro”, cioè l’Europa). Tuttavia la “teoria della continuità”, superando l’orizzonte calcolitico della Gimbutas e quello neolitico di Renfrew, ha avuto l’indubbio merito di riproporre sotto una diversa luce il tema delle origini indoeuropee e – mi sia concesso – anche quello di fornire spunti di grande interesse per rinforzare il senso identitario di radicamento alle nostre origini indoeuropee, nella consapevolezza che sono comunque molto più antiche e profonde di quanto comunemente ritenuto.
A ben vedere, la possibilità di un tale ampliamento temporale era peraltro stata sondata anche in precedenza. Lo stesso Alinei ricorda ricercatori quali Durante e Georgiev, che avevano spinto le loro ipotesi fino al Paleolitico Superiore; dal canto loro, Devoto, Haudry e Renfrew, segnalarono le formulazioni di Kuhn che aveva intravisto le radici ultime del protoindoeuropeo teoricamente fino nell’Aurignaziano (30.000 a.c.). Devoto, pur mantenendosi su una cronologia bassa, aveva considerato un limite massimo accettabile attestato ai 20.000 anni fa o anche un po’ superiore, oltretutto ricordando la tesi del Sera secondo il quauale gli Indoeuropei avrebbero potuto essere accostati al Solutreano: una cultura che – elemento importante e che riprenderemo più sotto – se non come patria di origine vera e propria, quanto meno ne avrebbe attratto le prime avanguardie, quindi arrivando anche qui a date prossime a 20.000 anni fa (addirittura fino al 25.000-27.000 secondo Obermaier). In un quadro più recente, ma comunque sempre pre-neolitico, Adriano Romuali ricordò le ipotesi di Franz Specht, che ritenne i primi Indoeuropei della Germania settentrionale corrispondenti soprattutto a popolazioni di età mesolitica già molto sedentarizzate.
Collegamenti di livello temporale elevato anche sul piano antropologico vennero da Kossinna proposti tra gli Indoeuropei ed i Cro-Magnon (pur avendone già visto in precedenza la “plurivalenza” tipologica, cioè più o meno depigmentata), mentre a tale proposito anche Mario Giannitrapani ne ipotizza una corrispondenza che si sarebbe potuta verificare o durante la fase dello “stadio isotopico 3” (antecedente ai 24.000 anni fa), o più tardi, circa 15.000 anni fa e che culminò con l’oscillazione climatica di Allerod (10-8.000 a.c.). Anche in altri autori, tra i quali sempre Kuhn, la cultura protoindoeuropea unitaria viene preferenzialmente collocata in un momento più tardo-pleistocenico ed in relazione soprattutto al Maddaleniano, peraltro evidenziando una continuità così lineare ed ininterrotta tra questo e le più recenti età dei metalli da porre in serio dubbio, secondo Antonio Bonifacio, la visuale di Marija Gimbutas, nella quale si ritengono eccessivamente enfatizzati i culti matriarcali ritenuti preindoeuropei dell’Europa neolitica (nell’articolo “Dopo la Caduta…..” si erano visti alcuni elementi legati proprio all’Età della Madre, che però corrisponde a tempi, il Treta Yuga, nettamente più antichi di quelli neolitici). Una certa continuità culturale tra i periodi più recenti, protostorici, e quelli paleolitici a mio avviso può essere stata determinata non tanto da una matrice fin dall’inizio “gilanica” delle culture indoeuropee, cioè più bilanciata e “paritaria” tra i due sessi, quanto piuttosto a quel processo di fusione finale alla quale si era già accennato in precedenza (nell’articolo “Giganti, Eroi, Razza Bianca”); un processo che forse iniziò già poco dopo l’abbandono della “Urheimat”, la discesa verso sud-ovest ed una prima fase di conflitto narrata nelle vicende del sesto Avatara Parashu-Rama, giungendo infine alla definitiva unione tra i “Giganti rossi” più occidentali, ancora residualmente legati alla Madre, e gli “Eroi bianchi” più nordici, nuovi portabandiera della paterna “Luce del Nord”.
In definitiva, pare quindi verosimile collocare le origini ultime degli Indoeuropei perlomeno nel tardo Paleolitico e, come è stato notato, attribuire agli sconvolgimenti climatici connessi all’ultimo massimo glaciale un ruolo determinante nell’inizio della loro dispersione: quindi retrocedendone sensibilmente la datazione rispetto alle teorie proposte in ambito accademico (come appunto quelle di Gimbutas e di Renfrew) che, pur a livelli diversi, si sono prevalentemente situate in un orizzonte post-paleolitico. Ma questa è un’osservazione che si può fare anche per alcune ipotesi non prettamente “accademiche” e che peraltro si sono segnalate per l’inconsueto quadro geografico proposto, cioè quello nordico: le interessanti teorie di Felice Vinci sulle vicende omeriche, o quelle di Bal Gangadhar Tilak sulla cultura vedica, si sono infatti soffermate su aspetti forse più tardi e specifici rispetto al più ampio ed antico problema della fase protoindoeuropea comune, adottando anch’esse un contesto cronologico meno profondo di quello paleolitico. In effetti, a parziale conferma della tesi di Tilak, i russi G.M. Bongard-Levin e E.A. Grantovsky, hanno sostenuto l’idea di un soggiorno prolungato, in zone ad elevata latitudine, di un gruppo indoeuropeo dal quale sarebbero poi derivati gli Sciti ed i Shaka dell’India, ma datando questo evento a circa 5.000 anni fa, quindi ancora in tempi relativamente recenti.
Traendo comunque spunto da questi studi e focalizzandoci sul tema di una “Urheimat” protoindoeuropea nel Nord – anche se a mio parere da collegare ad un più alto livello cronologico – l’orizzonte boreale della nostra famiglia etnolinguistica sembrerebbe confermato da diversi altri elementi.
E’ stato ad esempio notato, pur non dimenticando le riserve espresse da Marcello Durante in merito all’interpretazione delle radici lessicali, come i termini legati al freddo, alla neve, all’inverno sembrano aver presentato tra gli Indoeuropei delle forme con buone attestazioni comuni; comunque già Devoto non escludeva a priori un carattere “prevalentemente settentrionale” del mondo indoeuropeo, ricordando anche Uhlenbeck che teorizzava addirittura connessioni indoeuropee-eschimesi senza però approfondire se per parentela filogenetica o per solo contatto (cosa che sarebbe in ogni caso notevole, vista l’area geografica necessariamente implicata). Sempre in relazione alle lingue eschimesi altri autori evidenziarono similitudini con l’ancora più ristretto gruppo delle lingue indoarie per confermare l’origine boreale della tradizione vedica. In tempi più recenti, nell’ambito della linguistica di scuola macro-comparatista, anche Merritt Ruhlen valutò il gruppo indoeuropeo maggiormente vicino ad altre due famiglie poste a latitudini molto elevate, cioè quella eschimo-aleutina e quella ciukcio-camciadali rispetto, ad esempio, a quelle afroasiatica e dravidica; a mio parere, vista la distanza geografica tra tutte è nettamente più probabile che la somiglianza sia veramente di origine filogenetica piuttosto che per convergenze da contatto, ed in questa direzione va segnalato che nel 1986 N.D. Andreev fece discendere l’indoeuropeo da un antico “protoboreale”, fonte comune delle lingue dell’Eurasia settentrionale. Ancora Ruhlen ritenne che l’ipotesi della macrofamiglia “euroasiatica” formulata da Joseph Greenberg – comprendente, oltre all’indoeuropeo, anche le lingue uraliche, altaiche, coreane/giapponesi/ainu, ciukcio-camciadali ed eschimo-aleutine – fosse più solida di quella “nostratica”, che include pure l’afroasiatico, il dravidico e probabilmente anche il sumerico ed il cartvelico (il nostraticista Starostin ora sembrerebbe concordare con Greenberg); ma forse non sarebbe nemmeno da escludere la possibilità di non considerare per forza alternativi i due insiemi, bensì di integrarli in un disegno con una compagine eurasiatica più stretta all’interno di un insieme nostratico più largo, non privo di relazioni con la super-famiglia “amerinda”. Anche gli Ainu sono un ulteriore gruppo linguistico discretamente boreale per il quale Francisco Villar menziona le ipotesi di una certa vicinanza a quello indoeuropeo, avanzate da altri linguisti ed a suo avviso non prive di fondamento: pure in questo caso, la distanza geografica dovrebbe più probabilmente rimandare ad una comune origine filogenetica, mentre la profondità temporale (gli Ainu potrebbero essere arrivati nell’arcipelago giapponese da non meno di 12-14.000 anni, periodo Jomon) necessariamente collocherebbe il momento comune in tempi paleolitici.
Ma la famiglia linguistica che, tra tutte, sembra essere nettamente più vicina alla nostra è quella ugro-finnica (ipotesi sostenuta ad esempio da Koppen) o, concetto un po’ più largo, quella uralica, che con l’indoeuropeo presenta parallelismi molto maggiori rispetto, ad esempio, al camitosemitico e all’altaico. Il luogo di formazione dell’uralico è sicuramente da ricercarsi nel settentrione russo-siberiano e quindi, visti i molti vocaboli che per Tomaschek sono stati presi come “prestiti”, ciò dovrebbe implicare per l’Indoeuropeo un’area di formazione ad esso molto vicino. Diversi di questi termini sembrano presenti soprattutto nel sottogruppo indo-iranico che peraltro, come è stato significativamente rilevato, non necessariamente deve essersi formato in una sede posta più a sud di quella protouralica; oltretutto, questa mole di influenze uraliche rende molto problematico pensare ad una sede indoeuropea primaria in Anatolia, mentre invece è ben più probabile che tali contatti si siano verificati dove i Proto-Uralici sono sempre stati stanziati. Ma la questione probabilmente si estende ben al di là della ricezione di vocaboli da una coeva famiglia vicina (cioè un “adstrato” laterale) e di conseguenza, in alternativa alla tesi di Uhlenbeck che ipotizzava una formazione indoeuropea per convergenza con altri gruppi, si può invece sempre tornare al concetto di un’origine comune di tutte queste a partire da un tronco precedente. Quindi una più antica fase condivisa che se, come segnala Alinei, ormai pare certo e generalmente accettato l’insediamento dei Proto-Uralici nelle sedi storiche già da 11.000 anni, è chiaro che debba essere cercata in tempi paleolitici ancora antecedenti; di conseguenza, anche in considerazione delle summenzionate date di ingresso in Giappone degli Ainu, per tale momento si può forse arrivare ad un periodo non troppo lontano da quei 20.000 anni ipotizzati per i ritrovamenti, già citati in precedenza, effettuati nel 1997 da Valerij Diomin nella penisola di Kola, che la stampa russa ha definito culla di tutti i popoli indoeuropei.
Tuttavia, per le origini indoeuropee, pur collocandoci in un quadro di datazioni “alte”, paleolitiche, credo anche si debba fare attenzione a non cadere in un errore di prospettiva nel quale è facile incorrere quando si analizza la letteratura e le varie interpretazioni di impostazione “boreale”: può infatti capitare l’equivoco di sovrapporre del tutto il tema delle origini nordiche della nostra famiglia etnolinguistica con quelle, ben più antiche, dell’Uomo in generale. E’ quindi opportuno ricordare che agli esordi del Manvantata, nel Primo Grande Anno (circa 65.000-52.000 anni fa) la condizione letteralmente polare era propria ad una fase incorporea e “più che umana” relativa alla supercasta Hamsa (rif. articolo “Il Polo, l’incorporeità, l’Androgine”), della quale è stato giustamente rilevato come nessuna popolazione attuale possa considerarsi discendente “più diretta” di altre. Nel Secondo Grande Anno (circa 52.000-39.000 anni fa), la polarizzazione Maschio-Femmina (di cui il precedente articolo “La bipolarizzazione sessuale….”) comportò la corporeizzazione dell’Uomo ed anche l’avvio delle sue migrazioni, con la formazione, per fissioni successive, dei primi tronconi dai quali più tardi sarebbero discese le famiglie linguistiche: quindi a caduta – inizialmente attraverso il Nostratico, poi con la sua più ridotta sezione eurasiatica e, successivamente, nel suo ramo occidentale condiviso con gli Uralici – arrivando infine a quella indoeuropea. Ma il Secondo Grande Anno viveva una condizione segnata ancora dalla mitica “Eterna Primavera” e dall’assenza delle stagioni, collegata alla perpendicolarità dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica, mentre invece, in merito alla primaria sede indoeuropea, dall’Avesta iranica ci provengono elementi che suggeriscono una situazione ben diversa. La Airyanem-Vaejo (“culla degli ariani”, la “Urheimat” ancora comune) conosceva infatti, prima della sua fine, sette mesi di estate e cinque di inverno, dove i progenitori degli Arii “consideravano come un giorno quello che è invece un anno”: in pratica una lunga notte di sei mesi ed un lungo giorno di durata analoga, denotando quindi un asse terrestre già inclinato dopo la “Caduta dell’Uomo”. Una sovrapposizione concettuale tra due fasi distanti che secondo Giuseppe Acerbi avrebbe portato all’erronea identificazione dell’anzidetta Airyanem-Vaejo con il “Vara” (“recinto, zona circoscritta”) che invece corrisponderebbe al molto antecedente “Pairi-daeza” (in pratica il “Paradiso”), nel mito indù equivalente al ben più antico Ilavrita; l’Airyanem-Vaejo costituirebbe invece una prima stazione di transito (ma sempre posta ad elevata latitudine) da una zona ancora più iperborea, tappa che a sua volta verrà seguita da molte altre, prima tra tutte la Mo-Uru sulla quale torneremo. Si può inoltre rilevare come anche nella tradizione norrena vi siano probabilmente tracce di una sovrapposizione analoga: Asgard infatti significa “Recinto degli Aesir”, e questi spesso vengono localizzati ad Est quale segno della loro primordialità, mentre nel precedente articolo “Il ramo boreale….” abbiamo visto come in quella direzione (o meglio, a nord-est) risiedesse la Varahi / Beringia, sede iniziale dei molto antecedenti “adamico-nostratici” dell’Età Paradisiaca. Un’identificazione forse dovuta proprio a quel passaggio dell’antica Tradizione che, sotto il segno di una rivivificazione della “Luce del Nord”, ad un certo punto venne presa in carico dalla Razza Eroica come eredità derivante, per usare i termini del mito celtico, dalla più arcaica stirpe di Nemed.
Dunque la culla unitaria protoindoeuropea si colloca in una fase ormai chiaramente post-edenica, come si evince anche dalle segnalazioni di Evola sul freddo clima artico sopraggiunto ad un dato momento ed, in tali deteriorate condizioni, sul timore di una notte senza fine: da qui il valore ed il particolare significato spirituale che i nostri Avi attribuivano al Solstizio d’Inverno, come cruciale punto di inversione dell’indebolimento della forza solare e la ripresa di un rinnovato vigore nell’eterna lotta contro l’Oscurità ed il Caos. Evola rileva anche che le “razze ariane” sarebbero già derivate ed, in una certa misura, miste in confronto a ceppi più antichi e puri, “iperborei”; infatti negli scritti precedenti si erano visti gli articolati percorsi di “fissione/fusione” passati, in sintesi, attraverso la triplice ibridazione tra il doppio ramo boreale – “adamico-iperboreo” ed “evaico-occidentale” – e quello australe – “lilithiano-pigmoide” – con conseguente genesi dei Cro-Magnon, poi in parte depigmentatisi e a loro volta rimescolati, in vari gradi e modalità, con spezzoni residui del doppio ramo boreale di partenza per arrivare così agli Eroi, che infine si sarebbero definitivamente ri-uniti ai Giganti in tempi tardo-pleistocenici. Tutti questi passaggi implicarono una serie di migrazioni a largo raggio che, in relazione al Secondo Pleniglaciale, sono state analizzate nell’articolo precedente e la cui attinenza con la nostra famiglia linguistica potrebbe risiedere nel fatto che fu proprio l’uscita dalla “Urheimat” ad averli incentivati a valle: spinti dalla recrudescenza wurmiana, è cioè probabile che gli Indoeuropei abbiano generato un “effetto domino” sulle altre popolazioni stanziate più a sud, analogamente a quanto, ad esempio, avvenne nella tarda antichità con la pressione esercitata dagli Unni sulle tribù germaniche e sarmatiche. In effetti, la summenzionata teoria del Sera che indicò nel Solutreano un fenomeno culturale “attrattivo”, fondamentalmente occidentale e che ebbe come principale focolaio la zona tra la Loira ed i Pirenei, potrebbe spiegare quell’afflusso indoeuropeo da nord-est verso sud-ovest che avrebbe occupato contemporaneamente gran parte delle terre abitabili nel nostro continente – non molte, date le condizioni climatiche del Secondo Pleniglaciale – ma soprattutto di quello atlantideo, probabilmente più libero dalle calotte wurmiane; da qui il mito dei contatti, inizialmente conflittuali, tra Bianchi e Rossi (o Tuatha de Danann / Fir Bolg, o Aesir / Vanir) ma poi superati nella già accennata fusione conclusasi in tempi tardo-pleistocenici, come confermato dagli eventi relativi al settimo Avatara, Ramachandra, e dove peraltro l’elemento di provenienza boreale prevalse nettamente.
E’ probabile che questa nuova unione abbia avuto luogo soprattutto in terra atlantidea perché proprio da un settore occidentale sarebbe partito verso est quel movimento che Evola definisce “orizzontale” portando, nel bacino mediterraneo, ad una primissima stratificazione ario-arcaica; un’ondata corrispondente agli antenati di popolazioni quali, ad esempio, i Pelasgi, i Creto-Egei, i Lici e che forse trova un riscontro archeologico nei movimenti di circa 15.000 anni fa della cultura Maddaleniana verso l’Europa centro-orientale, molto meno popolata di quella occidentale durante il Secondo Pleniglaciale. Quindi una prima stratificazione, antichissima ma già proto-indoeuropea, che erroneamente era stata ricondotta a popolazioni antecedenti, mentre invece queste in larga parte vennero linguisticamente assimilate nel processo fusionale accennato o, in alternativa, ridotte in enclave sempre più anguste quali oggi sono i Baschi ed i nord-caucasici (come i Ceceni). Ne sarebbe quindi derivata un’influenza molto ridotta del substrato sino-dene-caucasico sulle parlate indoeuropee-arcaiche ed in effetti, come segnala Villar, a tali conclusioni parrebbe essere giunta anche l’analisi sulla idrotoponomastica dell’Europa occidentale condotta da Hans Krahe: menzionato anche da Stuart Piggott, assieme alla scuola dei filologi di Tubinga, il linguista tedesco riuscì infatti a scoprire, nei nomi “vecchio-europei” dei fiumi, un’origine riconducibile ad uno strato indoeuropeo primitivo che sarebbe stato ben precedente alle popolazioni “storiche” (Italici, Celti, Germani…). Alla luce di tali risultanze, ormai accettate quasi unanimemente dai linguisti (solo Vennemann insiste su una toponomastica relazionabile al “Vasconico”, antenato del Basco, ma per Villar gli elementi a sostegno sono molto scarsi), la tradizionale visuale dell’indoeuropeizzazione recente risulterebbe ormai difficilmente sostenibile.
Da questo cambio prospettico deriverebbero due fondamentali conseguenze.
La prima, sarebbe che molte delle popolazioni finora ritenute pre-indoeuropee – ad eccezione dei sino-dene-caucasici, effettivamente antecedenti – sono state invece peri-indoeuropee, cioè estranee e periferiche ma non necessariamente più antiche della nostra famiglia linguistica; una conferma di questa impostazione può forse ritrovarsi nella distinzione che Devoto operò sull’Europa anaria, separando una parte più settentrionale che ipotizzò andare dai Baschi al Caucaso (appunto, i sino-dene-caucasici), da un’altra più meridionale e corrispondente al concetto di “Indomediterraneo” che sembra aver collegato il vicino oriente con l’Africa e la Spagna (e che vedremo nel prossimo articolo). In questa seconda categoria si potrebbe ad esempio far rientrare l’Iberico che, contrariamente a quanto ritenuto, sarebbe un superstrato intrusivo più recente, anche se non ne è chiaro il punto di provenienza; in zona, tuttavia, permaneva anche la lingua antenata dell’attuale Basco che però non sembra essere stata geneticamente collegata all’Iberico, anche se tra i due idiomi vi furono delle affinità probabilmente dovute solo a contatti reciproci. Di superstrato intrusivo, probabilmente proveniente da nord-est, si può forse parlare anche per i Pitti scozzesi (a conferma, a mio avviso, della non esclusiva “indoeuropeicità” della Razza Bianco-Eroica, proveniente dalla stessa direzione), o in alternativa, che questi siano coesistiti con i Celti fin dall’inizio.
La seconda importante conseguenza implicherebbe che anche altre popolazioni finora erroneamente ritenute pre-indoeuropee siano state invece proto-indoeuropee, cioè così antiche da aver subìto una tale quantità di modifiche linguistiche da renderne oggi problematico il pieno riconoscimento genetico (senza considerare che alcune, rientrando in parte nel punto sopra, avrebbero anche presentato dei caratteri ibridi indoeuropei e non indoeuropei). In questa categoria potrebbero ad esempio rientrare, oltre al Pelasgico già menzionato, anche il Tartessico o “sudlusitano”, l’Acquitano, il Ligure, la lingua parlata da Arcadi ed Aborigeni; inoltre, accostabili al Luvio anatolico (simile all’Ittita) sarebbero gli idiomi di Cari e Lelegi. In quest’ottica anche l’Etrusco troverebbe una collocazione simile: secondo Greenberg esso costituirebbe un terzo ramo delle lingue indoittite, mentre per Georgiev sarebbe un dialetto ittita piuttosto tardivo, il suo ramo occidentale, che tuttavia presenta delle affinità anche con il Lidio.
In definitiva, la posizione della nostra “Urheimat” primaria è ragionevolmente ipotizzabile in un’area dell’estremo settentrione russo – a mio avviso tra le penisole di Jamal e di Kola – ed in stretta vicinanza con le sedi della famiglia uralica (che peraltro, in un momento successivo, si sarebbe espansa verso ovest occupando le zone lasciate libere dai proto-indoeuropei); oltretutto, la prossimità con il mondo nord-siberiano e la condivisione di un bagaglio culturale largamente comune avrebbe portato, oltre che sul piano linguistico, a degli effetti anche su quello spirituale. E’ infatti probabile che proprio alla prima, profonda, stratificazione indoeuropea possano essere riconducibili quei rari ma significativi elementi di carattere sciamanico (fenomeni di tipo estatico, uso di droghe sacre, l’esistenza di esseri preolimpici dalle caratteristiche “acquatiche”, certe caratteristiche di Hefestos, Apollo ed Odino, ecc…), ben illustrati soprattutto da Mircea Eliade, ma non solo, e dei quali si era già accennato nel precedente articolo “Unità, dualità e molteplicità umana”. Si tratterebbe cioè di residui in parte sommersi sotto le strutture culturali e mitologiche apportate dalle ondate indoeuropee più recenti, quelle che, diversi millenni dopo la prima migrazione solutreana-maddaleniana, sarebbero giunte partendo da aree “secondarie” di sosta: forse anche dalla Russia meridionale della cultura kurganica (se non vogliamo seguire l’ipotesi di Mario Alinei che invece vi correla, come già detto, un centro di espansione di lingue “turciche”), ma soprattutto, a mio parere, da quella che nel mito iranico viene indicata come seconda sede nella quale gli Arii si stanziarono dopo l’uscita dalla Airyanem-Vaejo, ovvero la Mo-Uru nordatlantica citata anche da Herman Wirth. Una terra che sarebbe stata occupata più o meno in contemporanea con le aree europee durante la cultura solutreana, ma con la peculiarità di aver acquisito la funzione di un importante Centro costituito ad immagine di quello primario; qui vi stazionò una parte consistente della nostra famiglia etnolinguistica prima di una nuova migrazione che si rese necessaria a seguito degli ultimi rivolgimenti di tipo acqueo-diluviale (come vedremo in futuro). Ne costituirebbe un significativo indizio il fatto che i Celti si considerassero originari di una terra posta a nord-ovest, forse non troppo distante dall’Islanda; come anche che, nel corpus ellenico, il mito di Thule spesso alluda alla stessa area nordatlantica e non a quella autenticamente polare, della quale questa sarebbe solo una tarda immagine (e che Guenon ricorda come Centro primordiale del nostro Manvantara). Area nordatlantica che verrà sommersa per ultima, qualche millennio dopo la catastrofe che inonderà la parte principale del continente atlantico-occidentale: evento attorno al quale ruoteranno le considerazioni del prossimo articolo.
Michele Ruzzai
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