12 Ottobre 2024
Cultura

Le Radici Indoeuropee: alle origini di un equivoco – Umberto Bianchi

Troppo spesso, nel corso della Storia dell’umano pensiero, finiscono con l’affastellarsi un cumulo di errori e malintesi tali, da assumere a vere e proprie distorsioni, di una visione del mondo, per scopi, nell’immediato, non sempre chiari ed evidenti. E’ il caso della problematica sulle origini della civiltà occidentale, alla cui base, in qualche modo, sta il minimo come un denominatore etno-culturale indoeuropeo.

Alla base di questo fenomeno, una o più ondate migratorie che, a partire da vari millenni avanti Cristo, partite da una non ben definita area geografica del Vecchio Continente, andarono ad insediarsi in una vasta area geografica che va dall’Europa, passando attraverso la penisola anatolica, sino agli altipiani a ridosso della Mesopotamia, nell’attuale Iran, scendendo, attraverso la Valle dell’Indo sino al Sub Continente Indiano, parallelamente proseguendo in una direttrice nord-est e via via stanziandosi, nelle regioni della Battriana e della Sogdiana, (più o meno corrispondenti agli attuali Pakistan ed Afghanistan), sino ai contrafforti dell’Hindu Kush, arrivando in Cina. A questo colossale sommovimento di popoli, corrispose anche e specialmente, un altrettanto importante cambio di paradigma culturale.

I pastori nomadi Indoeuropei, rivolgevano le loro preghiere ed orazioni verso l’alto,verso quelle sideree immensità che, con il bagliore delle loro stelle e del Sole, con la falce lunare, ma anche con le tempeste, per chi di continuo si spostava attraverso immense lande deserte, costituiva il principale punto di riferimento. Una società patriarcale e patrilineare, alla base della quale, stava un complesso di credenze religiose, incentrate sulla figura del “Pater/Pitar/Vater/Father”, nel ruolo di Dyeus Pətēr/Padre Celeste, contornato da una serie di importanti deità, dal ruolo subalterno. Tra esse primeggiava il Dio del tuono o “Maworts” a cui si associavano il germano scandinavo Thor, dal termine proto-germanico Tunraz, in celtico Taranis, presso gli ittiti Tahrunt. La parola indoeuropea T(e) nhr-os/Tnhront alla base di questo appellativo significa “armato di tuono”, “tonante”. Lo stesso germanico Wodan/Wotan, da Wōdanaz, è un aggettivo derivante dall’indoeuropeo Wotenos/”il furioso”. Si tratta della personificazione virile del tuono e del fulmine, quale dio guerriero, in quanto portatore di una furia distruttrice, direttamente proveniente dal padre-cielo.

Sull’altro versante stavano, invece, tutte quelle etnie e culture che, genericamente, si è soliti definire quali “pre indoeuropee”, sulle quali, ad oggi, le testimonianze storico-archeologiche sono molto più vaghe e confuse, andando queste ad abbracciare un arco di tempo, che risale alla genesi stessa della specie umana. In Europa e nel bacino del Mediterraneo, alle fonti storico-mitografiche che ci parlano di popolazioni “pelasgiche”, si accompagnano le testimonianze della presenza etno-linguistica di Liguri, Sardi, Minoici, Lelegi (Anatolia sud-occidentale, pre Ionia),Iberi, Tartessici e Baschi, nella penisola Iberica, Etruschi, oltrechè le popolazioni sicule di Sicani ed Elimi. Per quanto attiene il Danielou, questi teorizza una cultura “Munda”, dal nome della tribò dravidica dell’India meridionale che, a suo dire, avrebbe influenzato ed accomunato una vasta area geografica, dal subcontinente indiano, passando per la Valle dell’Indo sino ai contrafforti del Mediterraneo.

A detta degli studi dei vari Bachofen, Marja Gimbutas, Frazer, Graves ed altri ancora, queste civiltà, prevalentemente agricole e stanziali, sarebbero state caratterizzate da una netta prevalenza dell’ elemento femminino, espresso dai culti legati alla Grande Madre o Madre Terra, dispensatrice di vita, fecondità e morte. Ne sono testimonianza tutte quelle statuette o steli lignee, raffiguranti una Dea Madre dalle sovrabbondanti forme fisiche, reperibili in tutta quella vasta area che va dal Mediterraneo al Vicino Oriente. Alla Grande Madre si accompagnavano altrettante divinità, sia maschili che femminili, con particolare risalto a quella delle tempeste del mare e dei terremoti, oltrechè a quelle del fulmine e del fuoco e degli astri, le cui preci ed orazioni erano per lo più, indirizzate con lo sguardo rivolto verso terra.

Ad accomunare questa immensa”koinè”, una civiltà essenzialmente agricola e pacifica, a testimonianza della quale, restano i megaliti e le gigantesche costruzioni in pietra, qua e là ammirabili per il mondo: da Stonehenge, ai resti della civiltà di Hallstadt, dai villaggi nuragici sardi, sino alle misteriose mura ciclopiche sparse dall’Italia alla Grecia pre ellenica (mura micenee…), da Gerico a Mohenjo Daro, non senza passare per l’Egitto, sino al remoto continente australiano. Al loro arrivo, i bellicosi Indoeuropei, sottomisero le popolazioni locali ed imposero il loro pantheon religioso maschile su quelli precedenti, non senza però, che venissero conservate alcune divinità femminili, sotto le mentite spoglie di alcune Dee; il tutto, a dire dei nostri autori, in una modalità che tanto avrebbe ricordato quella di un vero e proprio “golpe” religioso.

A dar più smalto a questa narrazione, le conclusioni delle ricerche in un ambito che va dalla filologia alla genetica, dall’archeologia all’antropologia, di una serie di autori come Martin Bernal (con la sua “Athena nera”), Charles Penglase (“Dall’Ekur all’Olimpo”), Antonio Semerano (“L’equivoco dell’infinito”) e Luigi Luca Cavalli Sforza (genetista) che, presi da una ubriacatura di puro progressismo, ancor più in là si spingono. A detta di tutti questi signori, gli Indoeuropei “si et si” non esistono. Pertanto, tutta le culture di matrice indoeuropea e quella ellenica in particolare, nulla avrebbero di originale, bensì tutto di originario, vantando quest’ultima, nella fattispecie, una stretta derivazione semitica e mesopotamica.

Penglase da una parte con la mitologia, Semerano dall’altra con la linguistica, Bernal con l’arte, ci propinano l’idea di una grecità la cui lingua ed il cui immaginario, sono, in verità, una diretta derivazione delle culture semitiche, mesopotamica in particolare. All’Odisseo semita, dalla carnagione olivastra, fa il paio l’immagine di una statuaria greca, raffigurante Dei e Dee in abiti sfavillanti, dalla pelle scura, il tutto accompagnato ad una lingua, il greco antico, i cui vocaboli sono tutti di derivazione accadica. A rinforzo delle tesi del Danielou, invece, Cavalli Sforza e la sua idea di una comune origine africana dell’umanità intera, assieme alla conclusione della completa inanità dell’idea di razza e di differenza tra un’umanità, pian piano ridotta ed ad un quanto mai confuso “rassemblement” di individualità, omologati ad una unica ed indistinta radice etnica e culturale.

Punto primo. Tanto per cominciare, quello dell’indoeuropeistica non è una fola, né il frutto di una qualche distorsione propagandistica, bensì il frutto di un percorso lungo tre secoli che prende le mosse dalla riscoperta delle radici “volkisch” da parte dei vari autori romantici, passando per autori come Bopp, Grimm, Humboldt, Schlegel, sino ad arrivare ai giorni nostri ad un George Dumezil e ad un Emile Benveniste, non senza passare per una studiosa del calibro della stessa Gimbutas. Tutti questi ed altri ancora, costituiscono la non irrilevante schiera di coloro che, in base a tutta una serie di considerazioni corredate da una notevole quantità di materiale archeologico, linguistico, storiografico, antropologico e via discorrendo, hanno condiviso l’idea di una comune matrice etno-linguistica per quanto attiene Greci, Latini, Germani, Celti, Slavi, Baltici, Ittiti, Traci, Armeni, oltre a tutte le popolazioni di etnia iranica quali Pharsi, Medi, Elamiti, non senza passare per gli Indiani ed altre ancora. La Gimbutas, in particolare, con la teoria dei Kurgan ( tumuli funerari a forma conica, situati in vaste aree dell’Asia Centrale….), prospettò una corrente migratoria proveniente da un alveo situato tra il nord del Caucaso ed approssimativamente l’attuale Turkmenistan, di contro all’ipotesi di Colin Renfrew che fa partire l’ondata migratoria indoeuropea dal 7000 AC, dalla penisola anatolica; un’ipotesi questa, poi dallo stesso ridimensionata. Comunque sia la Gimbutas, nelle sue teorie sulle popolazioni pre indoeuropee, si è ben guardata dal sottovalutare o dal negare addirittura l’esistenza e la specificità indo-ariane, anzi.

Punto secondo. A proposito delle “pacifiche” civiltà pre-ariane, sono venuti allaluce molti manufatti per uso bellico, all’interno di villaggi fortificati, un po’ ovunque. Punto terzo. A parte che, in questo pout pourri, mito-storico, bisognerebbe distinguere chiaramente le civiltà non indoeuropee già avanzate, quali quelle di Mesopotamia, Egitto, valle dell’Indo, etc., la cui cultualità religiosa non era assolutamente rivolta a modelli esclusivamente matrilineari, tutt’altro. Pertanto, determinate considerazioni dovrebbero toccare le fasi proto e pre istoriche del Mediterraneo e del Vicino Oriente, fermo restando che, accanto al culto della Grande Madre, erano anche presenti culti a valenza maschile, come quello del mare ed altri consimili. Punto quarto. Quella degli Indoeuropei, sembra non sia stata una migrazione improvvisa, ma il frutto di successive ondate che, alla luce delle più recenti scoperte, sembrano siano iniziate ben antecedentemente al 700-1000 AC, in cui venivano datate. Tale gradualità, ci fa supporre un innesto della “welthanschaung” indo ariana, già presso popolazioni e civiltà sinora ritenute non indoeuropee, come gli Etruschi (anche grazie al lavoro ed agli studi del recentemente scomparso, Massimo Pittau) e probabilmente anche i Sardi.

Questa considerazione, si connette direttamente con le frettolose affermazioni di certa scienza, a proposito delle origini della specie umana e delle razze. Molti ritrovamenti nell’ambito della paleoantropologia ci parlano di una zona “antropofiletica”, situata tra India Occidentale ed Africa Orientale, da dove si sarebbe verificato il processo di “ominazione” che avrebbe dato luogo alla specie umana, fermo, però restando il fatto dei ritrovamenti di resti di ominidi classificati quali “Eurantropo”, “Sinantropo”, “Africantropo” e via dicendo. Il che, ci pone dinnanzi d una ben diversa idea sulle origini della specie umana, sin dai propri albori marcata dalla presenza delle razze, che farebbero supporre uno sviluppo della razza umana di tipo policentrico e sincronico, caratterizzato, cioè dal contemporaneo sviluppo di svariati focolai sparsi per il mondo.

La qual cosa, oltre a mandare in pappa l’idea di una origine esclusivamente africana dell’uomo, potrebbe anche rivoluzionare, e non poco, la cronologia e la storia della presenza dei popoli di razza caucasica e bianca, in genere,nel Vecchio Continente. Punto quinto. Dal punto di vista filologico, Semerano, nei suoi lavori, sembra ignorare totalmente le scoperte filologiche ed archeologiche che a partire dal XIX secolo hanno deposto a favore della teoria dell’indoeuropeo. Tanto per fare alcuni esempi, la decifrazione delle tavolette ittite, scritta in caratteri cuneiformi , ma riportanti una lingua indeuropea; le tavolette scritte in lineare B, una forma di greco arcaico del II millennio a.C. e l’esistenza del tocario, una lingua morta, parlata nel bacino del fiume Tarim, nell’attuale provincia cinese dello Xinjiang, di matrice indoeuropea. Semerano poi, ammette candidamente di non basarsi sui metodi della linguistica comparata, bensì su pure e semplici assonanze fonetiche ed affinità di significato, seguendo dunque un procedimento in gergo definito come “paretimologico”, ovvero procedendo letteralmente “ ad orecchio”. Metodo sicuramente simpatico, originale, denotante un certo spirito di osservazione ma, ahimè, superficiale e frettoloso. Infatti, il Semerano nelle sue elucubrazioni, non fa edotto il lettore, su quelle che dovrebbero essere le eventuali leggi linguistiche, alla base della trasformazione dell’accadico nelle varie lingue indoeuropee.

Ora di fronte a tutta una serie di dati scientifici, di cui qui, per motivi di brevità testuale, abbiamo riportato solo alcuni esempi, che comunque mettono certe ricostruzioni sotto una ben diversa luce, è necessario operare un doveroso distinguo che attiene ad una più generale e sostanziale impostazione del problema. Qui, nessuno vuol negare l’idea di una fase della umana civiltà più sbilanciata sulla predominanza dell’elemento femminino, piuttosto che quello mascolino, in certi contesti storico geografici, quali per esempio quelli del Vicino Oriente e del Bacino Mediterraneo, come si può ben evincere dalle risultanze archeologiche a nostra disposizione. Un’idea questa, portata avanti anche dal punto di vista di un’analisi più prettamente psicanalitica, che tenga conto della progressione di vari stadi, nel raggiungimento della piena coscienza da parte dell’uomo della propria individualità, così come prospettato dallo junghiano Neumann (“Storia delle origini della coscienza”) ed altri autori ancora.

A dimostrazione di quanto detto, il fatto dell’evoluzione di quelle figure maschili che, inizialmente descritte come figure collettive (come i Dattili di Samotracia) attorniavano la Grande Madre e che, in quel processo di personificazione individuale, arrivano ad ottenere l’appellativo di “figlio della dea”, che diverrà così l’epiteto di talune divinità maschili, particolarmente legate alla terra, come nel caso di Dioniso. Lo stesso rapporto tra la Grande Dea e il suo compagno, sempre rappresentato nelle vesti di un amante più giovane di costei, dotato di meno poteri, assai simile ad un figlio (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).Il tutto, non senza omettere di parlare della complementarietà tra i sessi che, comunque, sussisteva all’interno di questo ambito culturale. In questo contesto, in molte sculture l’energia divina del fallo maschile, viene anche mostrata confusa nel corpo femminile, creatore della vita.

Potremmo anche parlare dello Civaismo della civiltà pre ariana della Valle dell’Indo, che, nello “Shiva Lingam” ha il proprio simbolo portante o della “potnia ton teron/potnia ton teron/compagna del toro” che affonda le proprie radici nella cultualità pre classica, in particolar modo minoica. Un ciclo vitale determinato da un continuo legame fra il regno della Madre (terra) e il regno del Padre (cielo), una vera e propria cosmologia della dualità, in cui ognuna delle due polarità rimanda indissolubilmente all’altra. Una sinergia, per esempio, ben rappresentata dalla simbologia dell’uovo (simbolo dell’essere in potenza) e che è presente anche in talune figuri di divinità maschili, quali per esempio, Kronos/Saturno e Hermes/Mercurio, che posseggono rappresentazioni androgine o ermafrodite, evidenzianti l’intrecciarsi tra uomini e donne, dei e dee, cielo e terra. Col tempo, la simbologia degli dei del cielo si sovrapporrà alla simbologia delle dee della terra, senza però annullarla.

Se è vero che tra le due forme di religiosità, pre indoeuropea ed indoeuropea propriamente detta, esiste una effettiva differenza d’impostazione, è anche vero che esse appartengono senza ombra di dubbio, all’alveo delle religioni tradizionali-politeiste, caratterizzate da alcune fondamentali linee-guida. Mentre le religioni montoeiste, si fanno portatrici di una concezione del tempo unilineare, finalizzata al raggiungimento della Gerusalemme Celeste, quella delle religioni tradizionali è una concezione ciclica, quasi atemporale. Nelle prime Dio, nel ruolo di Dremiurgo, con un atto di assoluta volontà individuale, crea il mondo “ex nihilo”, nelle seconde la creazione del mondo è frutto di un atto casuale generalmente risultato di un’azione tra due opposte polarità, o dualità che dir si voglia, come nel caso dell’accoppiamento tra Cielo e Terra, comune sia all’ambito religioso antico-europeo che a quello extra europeo.

A dimostrazione di quanto detto, il mito dell’uccisione di un gigante, Tiamat per gli Assiro-Babilonesi, Purusha per gli Hindu, Ymir per i norreni, Gayomart per gli iranici, sino alle concezioni del classico politeismo egizio delle scuole di Hermopolis ed Heliopolis, che vedono il cosmo creato con il concorso di vari elementi ed opposte polarità, nel caso della teologia eliopolitana, creati con il gesto dello sputo o all’eiculazione di Atum. Il Tempo, in ambito politeista, è un ciclico succedersi di ere ed eventi; una legge questa a cui sottostanno le divinità stesse che, non infrequentemente, scomparivano sic et simpliciter dallo scenario, come nel caso del greco-romano Saturno, Ecate, Gea( Terra), Diana ed altre ancora.

Pertanto, anche il caso della sovrapposizione delle divinità uraniche di matrice indoeuropea, a quelle ctonie di opposta matrice, può esser tranquillamente considerato nell’ambito della normale fenomenologia delle religioni tradizionali , che non prevedevano quelle drammatiche rotture, verificatesi, invece, con il passaggio dalle religioni politeiste a quelle monoteiste, come nel caso dell’avvento del Cristianesimo nel contesto del mondo tardo-classico. Altro punto di fondamentale importanza. Il fatto che vi siano analogie tra le divinità dell’ambito mediterraneo non significa una diretta derivazione delle une dalle altre, bensì un fisiologico ripresentarsi di archetipi che giacciono nell’inconscio collettivo di tutto il genere umano e che vengono, via via, adattati e reinterpretati a seconda delle culture di riferimento. Quella che gli Indoeuropei apportarono, non fu solamente una concezione del trascendente rivolta alla dimensione uranica ma, anche e soprattutto, un modo di intendere la società secondo una ben determinata visione tri partita, dal Dumezil abbondantemente esplicata.

Una visione accompagnata da un importante correlato glottologico e linguistico, di cui il Benveniste (in questo preceduto da altri esimi studiosi…), tratta abbondantemente. Come tutte le lingue, anche quelle indoeuropee e/o l’indoeuropeo antico, sono portatrici di una determinata visione del mondo, in questo caso rappresentata dalla coniugazione di quel verbo “Essere/Einai/Einai” che ci porta diritto diritto, alla grande novità rappresentata dalla riflessione filosofica, ovverosia dalla spinta a dare una definizione dell’essenza della realtà, in tutte le sue espressioni, immanenti o trascendenti che siano. Una forma di conoscenza questa, figlia di quel fuoco donato dal Titano Prometeo, che spalanca all’uomo indoeuropeo la possibilità di esercitare un dominio, prima impensabile, sull’intera realtà, facendo di questi un vero e proprio semidio.

La razza umana percepisce questo dono da un Gigante Titano, simbolo archetipo delle forze elementari del Chaos, ovverosia del regno delle infinite potenzialità in divenire. Quelle stesse forze che Zeus/Nous/Nous”ha sconfitto, nella battaglia primordiale per ribadire una volta in più, quell‘ ”ananke /ananke/necessità” di un ordine cosmico, da cui l’uomo potrà poi, attingere a piene mani . Dall’altra parte, nell’Oriente Hindu, con gli scritti della “Bagnavad Gita” si fa strada l’idea che colui che è “Arya/Areion/Areion/Valoroso”, al fine di perseguire la piena Virtus, possa superare il bene ed il male, così come farà l’eroe Arjuna (Ar-valore…) protagonista del poema citato.

Gli Indoeuropei si fanno così portatori della prima rivoluzione antropocentrica della storia. Da semplice amante-figlio sacrificale, da semplice entità confusa e indistinta all’interno di un ordine cosmico dominato da una Grande Madre, amorevole ed al contempo spietata, l’uomo Indoeuropeo abbatte il Drago femminino del Chaos e dell’indistinzione e dopo aver messo, all’interno di un nuovo Pantheon di Dei Uranici, in minoranza le antiche Dee, va egli stesso assumendo un ruolo sempre più centrale all’interno della vicenda cosmica. Se da Occidente, l’uomo Indoeuropeo mutuerà la fiaccola della conoscenza, da Oriente, invece, partirà la strisciante tentazione di collocarsi al di là dei confini del bene e del male, in un dimensione sovrumana, perseguendo la più perfetta virtù contemplativa attraverso l’azione nel mondo. La doppiezza androginica di quei Giganti dal germanico Ymir, all’iranico Gayomart, all’Hindu Purusha, dalle cui membra vengono tratti l’universo e la razza umana, quella stessa consustanziale ambiguità e doppiezza, va trasferendosi sul piano dell’essenza costitutiva dei popoli indo-ariani. Ad Ovest la conoscenza dell’essenza ultima della realtà, al fine di assumere il dominio dell’Essere, ad Est la Contemplazione quale totale distacco dal mondo, perseguita agendo su questo, al fine di giungere ad uno stato di perfezione interiore tale, da ascendere ad una dimensione sovrumana ed a dominare l’Essere. I

n seguito, sempre all’insegna dell’istanza del dominio sull’Essere, l’Occidente assumerà in sé quelle che, degli antichi Indoeuropei d’Oriente ed Occidente furono principali caratteri costitutivi delle rispettive identità, in una inedita sintesi, animata da una irresolubile dualità. Contemplazione e Azione, Immanenza e Trascendenza ,Essere e Divenire, fanno dell’Occidente un unicum, nel bene e nel male, la cui primaria matrice è unicamente riscontrabile in quelle tanto disprezzate e sottovalutate radici indoeuropee. Radici da cui oggi abbiamo deviato, nel nome di una parodistica e rovesciata visione del mondo che, di quella “Techne”, donataci dal Titano Prometeo, fa un vero e proprio fine e non un giusto mezzo per procurarci quella tanto agognata “eudaimonia/eudaimonia/felicità”, tanto magistralmente rappresentata, sia dal culto solare del latino Sol Invictus che da quello iranico del Fuoco Sacro.

E pertanto, quando si parla di Indoeuropei, non di stupido razzismo si tratta , né di ottusi nostalgismi, ma della piena coscienza che la vera salvezza di noi “moderni”, proverrà proprio dal riscoprire quelle radici, quei fondamenti alla base dell’esistenza di un popolo, da cui la Vita riparte con nuove e più esaltanti prospettive.

UMBERTO BIANCHI

 

2 Comments

  • Nebel 17 Dicembre 2019

    Ma stiamo scherzando? E come finirà, che davanti a una nuova inquisizione dovremo affermare che non sono gli indoeuropei all’origine della civiltà e cultura europee ma gli africani? Ci sentiranno sussurrare, una volta salvi, “Eppur fu Omero…”

  • Giulio 18 Dicembre 2019

    Bellissimo Articolo. Una curiositá, non avevano smentito che le statuette fossero delle rappresentazioni della dea madre???

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