La Kata Upanishad è una catabasi: Nachiketa discende e va negli inferi e incontra il dio Yama. Yama si dispiace della mancata ospitalità riservata a Nachiketa e quindi si offre di esaudirgli tre desideri. Il ragazzo vuole sapere come si fa a conquistare l’immortalità. Il dio Yama dapprima cerca di differire offrendogli qualcosa di altro, poi vista l’insistenza gli offre un insegnamento di tipo yogico. In questa Upanishad vi è anche la metafora del carro, cara a tutta la letteratura indoeuropea. Nel mito di Platone Er va a vedere il mondo aldilà con un carro. Qui invece il carro serve a dare questo insegnamento: il terreno su cui battono gli zoccoli dei cavalli sono gli oggetti dei sensi; gli zoccoli sono i sensi che percepiscono gli oggetti; le redini sono la mente che coordina le facoltà motorie e percettive; l’auriga è la mente che discrimina tra bene e male; il passeggero che non fa niente ma osserva tutto è lo spirito. Questa visione si rifà in qualche modo alla darshana (scuola filosofica indiana) detta Sāṃkhya, che prevede la opposizione tra materia e mente da una parte e spirito dall’altra. Ma tale visione è ancora monista.
Il dio Yama dà in questa Upanishad la prima definizione esplicita di Yoga, un’altra darshana, strettamente collegata con il Sāṃkhya. Kata Upanishad II. III. 11: tām yogamiti manyante sthirāmindriyadhāraṇām, “Questa stabile unione dei sensi viene considerata Yoga”. In sanscrito i vocaboli formano dei composti, vengono uniti in un solo termine. La parola sthira deriva da una radice sta, la stessa di “stare”, e quindi significa stabile, ma nei due sensi: immobile e che dura nel tempo. La parola indriya indica i sensi. Dharana deriva da una radice che significa “tenere”, è il termine che nello Yoga si usa per indicare il primo ingresso nella meditazione, il significato fondamentale è tenere unito, come dharma, ciò che tiene insieme l’universo con le sue leggi di modo che sia un ordine e non un caos, quindi dharana significa unire i sensi verso un solo scopo. Allora lo Yoga è il saldo (sthira) tener fermi (dharana) i sensi (indriya) affinché la mente sia libera di meditare. Nella meditazione lo spirito si stacca progressivamente dalla mente e dalla materia e quindi ottiene l’immortalità.
Invece il testo dal quale nasce lo Yoga nella sua versione classica lo avremo con gli Yoga Sūtra di Patanjali (circa II secolo d. C.).
Pertanto sia per il Sāṃkhya sia per lo Yoga lo scopo dell’esistenza è quello di liberare lo spirito dai condizionamenti del corpo e della mente inferiore, che appartiene come il corpo alla materia. Spirito e materia sono tra loro opposti ma lo spirito crede di essere la mente e di essere il corpo. Il processo di distinzione dello spirito da ciò che non gli appartiene consiste nella liberazione induista.
Nasciamo in un mondo dal quale dobbiamo però liberarci. Tutto ciò che vediamo è un ostacolo così come tutto ciò che sentiamo: lo spirito se ne deve progressivamente allontanare.
Lo spirito è impassibile né può essere toccato dal corpo e dai pensieri, però si immedesima in ciò che sente e quindi ha la falsa percezione diche la materia gli nuoccia. Tale mistero è indicato da Īśvarakṛṣṇa (Sāṃkhyakārikā 20) con queste parole: “Lo spirito, pur essendo indifferente, si fa come attivo grazie all’attività propria degli elementi costitutivi”, guṇakartṛtve ca thatā karteva bhavaty udāsīnaḥ. Un vaso non è caldo di per sé, ma se riceve un liquido caldo si scalda. Allo stesso modo lo spirito è di per sé impassibile, ma si immedesima in ciò che vede. La liberazione sta nel riacquisire l’indifferenza.
Il Sāṃkhya è una darshana essenzialmente atea, mentre nello Yoga per alcuni ci sarebbe qualche riferimento alla divinità (Ishvara).
Nello Yoga il percorso si chiama la Via a Otto Membra (anga). In questa via predomina spesso la radice yama, che ha a che fare con il controllare. I primi due anga sono yama (etica verso l’esterno) e niyama (condotta interiore: purificazione del corpo, felicità, austerità, studio del Sé, adorazione ininterrotta e dono di sé a Dio) sono propedeutici, alcuni non li considerano come parte essenziale dello Yoga. Chi non si comporta bene e non segue diciamo un codice d’onore personale non riesce a meditare in quanto non sta in uno stato di serenità. Nell’induismo il dharma è un insieme di regole di condotta che fanno stare in equilibrio con l’universo. Il terzo anga è asana: in Pantanjali c’è poco spazio a questo anga, si dice però che il corpo non deve creare ostacolo alla meditazione e deve mantenere una posizione stabile, invece nello Yoga tantrico le posizioni del corpo servono a stimolare o chiudere certi canali per far fluire meglio l’energia. Il quarto anga è il pranayama (controllo del respiro), poi abbiamo il pratyahara (ritiro dei sensi dagli oggetti esteriori), il dharana (concentrazione dell’attenzione solo su un punto), il dhyana (meditazione come concentrazione stabile e ininterrotta), il samadhi (contemplazione e estasi divina). Nella pratica estrema del samadhi non c’è più la sensazione dell’oggetto, quindi si supera la dualità spirito e materia (mente e corpo), allora la mente (citti) si dissolve nella materia e lo spirito si libera definitivamente dalla materia.
Yoga Sūtra (2): yogaś cittavṛtti nirodhaḥ, “lo yoga è la soppressione delle fluttuazioni della mente (cittavritti)”. Yoga Sūtra (3): tadā draṣṭuḥ svarūpe’vasthānam, “in questo modo l’osservatore (=spirito) è stabile in sé stesso”.
Le fluttuazioni del citta (mente materiale) sono:
- Retta conoscenza (pramana): anch’essa è sbagliata, perché la retta conoscenza razionale è un inganno della materia
- Conoscenza errata
- Conoscenza inadeguata
- Sonno profondo
- Memoria.
Per superare la citta vrtti serve costante tirocinio e libertà dall’attaccamento. Al superamento delle cittavritti si oppongono i 5 klesha (veleni):
- Avidya (non conoscenza, ignoranza)
- Asmita (illusione dell’io)
- Raga (amore, desiderio)
- Dvesha (odio)
- Abhinvesha (attaccamento alla vita).
La forte componente pratica dell’insegnamento dello Yoga lo ha reso uno strumento utilizzato in quasi tutte le dottrine filosofiche e/o religiose dell’India. Lo Yoga pratico è stato praticato dalle più disparate sette arricchendosi di elementi molto diversi.
Secondo una successiva elaborazione dell’insegnamento di Patanjali egli avrebbe insegnato due tipi di Yoga:
- Kriya Yoga: yoga dell’azione, preparatorio (5 anga iniziali)
- Raja Yoga: la vera e propria meditazione (3 anga finali).
Prima del Raja Yoga, vengono in seguito anteposti 3 altri tipi di Yoga:
- Mantra yoga, recitazione di formule sacre foriere di forze misteriose
- Hatha yoga, purificazione attraverso “sforzi violenti”
- Laya yoga, purificazione secondo elementi del tantra. Laya= dissoluzione dello spirito individuale in quello totale.
Nelle grandi correnti del pensiero, indiano, greco, islamico, e così via, si usa un certo tipo di concettualizzazione che ricorre assai spesso. Ci sono molte contaminazioni anche nel linguaggio adottato.
Il sufismo è una corrente esoterica dell’Islam. Le religioni monoteiste hanno un aspetto essoterico, rivolto a tutti, e un aspetto esoterico, iniziatico. Nell’ebraismo quello iniziatico è costituito soprattutto dalla cabala, nel cristianesimo dalla gnosi.
I primi sufi ante litteram erano persone senza fissa dimora che, non avendo niente, si misero a seguire il Profeta Maometto e andarono a vivere nella sua moschea, ove per loro il Profeta fece costruire una tettoia (sufa). Questi sufi ante litteram affermavano di aver ricevuto dal profeta “due sacchi di insegnamento”, uno noto a tutti, che sta attualmente nel Corano, e uno segreto, che sembra stridere con quello ufficiale, cioè con la lettera, ma è quello vero. Questo scontro tra l’insegnamento ufficiale e quello esoterico si vede ancora oggi: gli integralisti islamici hanno una visione molto restrittiva dell’Islam, allora sono molto in contrasto con il sufismo, che da loro viene osteggiato.
Uno dei depositari dell’insegnamento esoterico del Profeta era senz’altro il genero ‘Alī ibn Abī Ṭālib. C’è in particolare un giovane suo intimo compagno con cui fece un dialogo raccolto ne L’Epistola di Kumai. Un giorno Kumai chiede a Ṭālib quale sia la verità suprema. La verità suprema è: “Lo svelamento delle glorie della Maestà divina, senza alcun segno”. Ancora: “È l’annullamento dell’illusione con la limpidezza della conoscenza”. Ancora: “È la lacerazione del velo per il prevalere del segreto”. Ancora: “È una luce che si leva dall’alba della pre-eternità e con le sue tracce risplende sui templi dell’Unione”. E conclude: “Spegni la lampada perché l’alba è ormai sorta”.
L’importante sufi Kashani identificava alcune stazioni nella purificazione dell’anima e la sua ascesa verso l’Unità di Dio:
- Stazione dell’anima: si presenta all’individuo già all’inizio, quando egli inizia ad avere uno svelamento delle realtà dell’anima;
- Stazione del cuore: quando l’individuo arriva al centro dell’essere;
- Stazione dello spirito: quando l’essere passa dall’individuo ad un essere superiore, fuori dal cosmo, al Trono di Dio.
Allora anche per il sufismo l’uomo deve abbandonare i meandri della materia, la caverna di Platone, per innalzarsi verso mondi soprasensibili fino alla identificazione con Dio. L’anima deve abbandonare il corpo e la materia e ritornare all’Unità divina.
Il sufismo parla diffusamente della santità (walaya), ma con una sfumatura diversa rispetto al cristianesimo. Per il sufismo il santo è l’amico (wali) di Dio, cioè colui che gli sta vicino, stando al significato fondamentale di questa radice araba. Non per nulla nel sufismo nella nozione di vicinanza (qurb) ruota tutta la tradizione che riguarda la santità. Un famoso hadith del Profeta recita: “Il mio servo non si avvicina a me con nulla di meglio di quello che gli ho reso obbligatorio”. Avvicinarsi a Dio non è una scelta dell’individuo. “Egli non cessa di avvicinarsi a me (= a Dio) fino a quando io lo amo, e quando io lo amo sono il l’udito con cui sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina, e io gli concederò tutto quello che chiede” nell’islam quindi anche nel sufismo è preponderante la nozione di obbedienza a Dio. Di fronte a Dio la volontà individuale cessa. Islam è un termine arabo che deriva dalla quarta forma di un radicale con il senso di “sottomissione”.
Il massimo della vicinanza a Dio è la identificazione con questo Principio fino all’annullamento. Non si tratta di una semplice intimità.
Per il sufismo ci sono due tipi di santi: quelli che si adeguando alla legge di Dio e quelli che hanno una grazia (mynna) da Dio. La grazia è una attrazione divina, il Principio li attrae a sé, li strappa dal proprio io e li mette davanti alla divinità.
Ma per il sufismo per ottenere l’identità con il Principio non bastano le opere, conformemente all’insegnamento induista per il quale l’azione non libera dall’azione (karma). È necessario un elemento diverso. Per il sufismo è la grazia che Dio concede alla persona che egli ama, permettendole di raggiungere la salvezza. Per l’induismo è la purificazione.
Esiste un solo Principio, un solo Dio che è tutto: quando Maometto lanciò una lancia, Dio gli disse: Non sei stato tu, ma io ad averla scagliata. Ma questa Unicità divina può essere intesa in rapporto agli esseri in senso gerarchico.
Nella sura 112 del Corano Dio è detto samadu, una parola araba difficile da tradurre, dovrebbe significare che Dio è un tutto che comprende ogni cosa. Secondo una tradizione, per indicare la similarità tra l’uomo e Dio, si dice che Dio è l’uomo (Ahmad, formato da A, che ha valore numerico 1, assieme alle lettere H, M, D) senza la lettera M, cioè le lettere A, H, D: ora AHD forma la parola Uno.
Ibn ‘Arabi è stato un autore sufi dalla grandezza estrema, il sufismo giunto alla sua dottrina incontra un punto di svolta: dopo Ibn ‘Arabi non se ne può più fare a meno. Egli scriveva (Libro della estinzione nella contemplazione): “La realtà divina essenziale è troppo elevata per poter essere contemplata dall’occhio contemplante, fin quando in esso permane una traccia della condizione creaturale. Ma quando viene meno ciò che non è mai stato, che per natura è caduco, e resta ciò che non ha mai cessato di essere, e che per sua natura è durevole, allora si leva il sole della prova decisiva per la visione autentica. Allora si produce la sublimazione assoluta nella Assoluta Bellezza, chiamata l’Occhio della Sintesi e della Realizzazione Spirituale per eccellenza. Tale Occhio divino vede allora i numeri come un Unico, che compie un viaggio attraverso i gradi della molteplicità, in cui rende manifeste le entità dei numeri”.
Abbiamo a che fare con concezioni antiche che l’uomo moderno occidentale ha perduto. Il capitalismo ha creato quel “disincanto del mondo” (Weber) che ha allontanato l’uomo dai valori spirituali. Per il mondo antico e ancora oggi per molte società straniere Dio è tutto. Hanno una forma di religiosità che qui si sta perdendo definitivamente, anche se non del tutto. Solo qui il filosofo lituano Levinas poteva scrivere: “L’essere è il non-senso: ha senso solamente l’esistente, l’uomo”.
L’occidente industrializzato ha stravolto i valori del passato, si è posto al posto di Dio e ciò che prima era tributato a Dio, ora lo tributa a sé stesso, al progresso dell’umanità.
La desacralizzazione della società è iniziata con il Rinascimento, che ha inaugurato l’età moderna. Il primo romanzo veramente moderno è stato il Gargantua e Pantagruele di Rabelais, che ha iniziato a rivisitare le certezze religiose del medioevo in chiave parodistica.
Il Rinascimento è stato l’esaltazione della cultura umanistica, che ha riscoperto l’uomo e la sua dignità. Ma non è stato solamente un chiaro monito al progresso e alle capacità umane. Epoca tormentata anche da un profondo pessimismo e da non indifferenti lacerazioni. Erasmo da Rotterdam scrisse un eloquente Elogio della follia, che possiamo considerare una sorta di anticipazione e realizzazione del profondo buio interiore al quale si stava preparando l’età moderna.
Oggi gli antropologi, per descrivere il profondo senso religioso che ancora permane nelle popolazioni non industrializzate, ma non solo, pensiamo anche all’islam vissuto all’estero, parlano di “contemporaneità del non contemporaneo”.
Ma è giusto vedere ogni cambiamento in seno alle società occidentali come progresso? “Se Dio è morto, tutto è possibile”, scriveva Dostoevskji. I campi di concentramento nazisti, ma non solo, sono la prova del fallimento di tutta una cultura.
L’umanesimo rinascimentale è stato portato a pieno sviluppo dal Romanticismo, secondo la nota tesi di Korff, quando l’emergere di nuove tensioni dell’animo ha fatto risorgere il desiderio di libertà e progresso espresso per la prima volta dal Quattrocento. Soprattutto nel Romanticismo poteva essere rivisitato con grande successo il mito del Dr. Faust che fa un patto con il demonio per sete di conoscenza e di potere. Quello streben, quella tensione presente in tutto il Faust di Goethe, è emblema del nuovo spirito borghese che cerca di ribellarsi al passato e alle solite idee religiose in cerca di qualcosa di altro, puntando la bussola non più sul dogma ma sulle esigenze dell’uomo. Non sembra qualcosa di ancora molto attuale in Occidente?
L’uomo occidentale moderno, sradicatosi da Dio e puntando su sé stesso, si è scoperto semplice materia senza lo spirito, vale a dire un mucchio di polvere e cenere. “Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione, conosce ben poco della nostra epoca”, scriveva Jünger. L’uomo moderno ha cercato di ridurre le cose superflue dimenticando che, cercando l’essenziale, ha finito con il togliere l’essenziale dall’orizzonte della propria vita. Heidegger vedeva nella nostra epoca un tempo di erramento del mondo, che ha contagiato il resto dell’umanità.
All’inizio di ogni inizio vi è sempre una frattura. Nella genesis, “nascita”, avviene sempre una lacerazione. Gli orfici avviarono la filosofia indagando ciò che nell’essere ha provocato il dramma del divenire, quella frattura che diviene tale scostandosi dall’essere. In India questo alone di idee ha preso la forma del sacrificio: il mondo nasce dal sacrificio, per cui il dio creatore Prajapati produce le molte cose sbranandosi. Anche l’inizio dell’era moderna coincide con il sacrificio di tutto il resto.
È antica l’idea che la decadenza di una civiltà dipenda da una crisi nel rapporto con la divinità. Quando i tebani del re Edipo si accorsero che la città stava andando male, si affrettarono per capire cosa volevano gli dei. Spesso gli dei vogliono sacrifici. In tutto il mondo indoeuropeo vi è la libagione, cioè versare un liquido sul fuoco. In epoca minoica la abbiamo sul sarcofago di Hagia Triada. In Omero gli eroi la compiono molto spesso. La conoscevano i latini. In India è famosa quella del Soma sul fuoco. Ma il senso più recondito della libagione e del sacrificio sta nell’offerta della propria vita agli dei. Perché? Perché il dio del sacrificio e l’officiante del rito devono diventare la stessa cosa.
Eraclito (fr. 45) diceva che non possiamo trovare gli psychēs peirata, i “confini dell’anima”. L’anima sta da per tutto e comunica Dio. Quindi non possiamo eliminare la divinità dal nostro sentire. Dio ci è connaturato come la parte più intima che abbiamo. Talete (Platone, Leggi 899 b): “C’è qualcuno che oserà insistere che tutte le cose non sono piene di dei?”, theōn einai plērē panta. Per Pindaro nell’Inno a Zeus Dio non è legato a eventi della storia, ma è un senso che sta da per tutto. Eliminare Dio dalla nostra vita equivale a eliminare qualcosa di essenziale, anzi parte di noi stessi.
Ma l’uomo è libero e può giocare con questa libertà anche eliminando Dio dal proprio orizzonte. Agostino diceva che l’umanità è Massa Damnationis. Il cristianesimo primitivo mutuò dal diritto penale romano la parola damnatio come la massima condanna cui può incorrere l’uomo. L’uomo è libero anche di tradire sé stesso e Dio!
Il senso del peccato pervade tutto il cristianesimo e in particolar modo quello del Medioevo. Jacopone da Todi nella lauda O Signore, per cortesia, compie una operazione assai originale. Questo autore, rovesciando le consuete preghiere contro i mali, chiede a Dio che gli venga scaricato addosso un cumulo interminabile di malattie: e tutto ciò non è ancora sufficiente per espiare la colpa dell’uccisione di Cristo! Questa lauda doveva aver avuto un effetto dirompente in una società dominata dal terrore dei mali fisici. In essa si fonde la solita dismisura jacoponica con l’autopunitismo degli asceti scatenando nel lettore un eccesso mistico. Jacopone era talmente consapevole delle proprie colpe che chiede a Dio addirittura il martirio.
In India ci sono degli asceti che, una volta scoperta la grandezza del loro peccato, cioè le azioni contro il dharma, la legge divina, non si mettono più seduti generando con il tempo nel loro corpo dolori lancinanti e piaghe. Nella filosofia indiana yoga, “unione”, impersona il figlio di Dharma, la legge divina, e di Kriyā, l’azione religiosa: come a dire che l’uomo di buona condotta si comporta adeguatamente davanti agli uomini e davanti agli dei, unendo i due aspetti. Nell’antico Egitto esisteva la nozione di Maat, l’ordine cosmico e il peccato era andare contro la Maat: “Amo la Maat e odio il peccato”, si legge in un testo in egiziano antico.
Ma mai in nessun popolo il peccato assume una rilevanza come presso gli ebrei. L’ebraico biblico ha svariati termini per indicare il peccato, per esempio ḥāṭā’, che in origine significava “commettere un errore”, termine simile all’accadico kaṭu. Anche in greco biblico amartia evoca l’idea dello sbagliare il bersaglio. Nei testi di Qumran vi è un grande uso del sostantivo ebraico ‘āšam e aramaico ‘ašmāh. Il peccato è evidente ai qumraniani, possono riconoscerlo e misurarlo. Quindi l’ignoranza non è una scusa praticabile per una cattiva azione. In questa letteratura ritrovata a Qumran compare l’espressione bjt ‘šmh, “casa di colpa” per identificare i responsabili di una cattiva azione.
La parola vangelo deriva dal greco euanghelion e significa “buona (eu-) notizia (anghelia)”. Da duemila anni la chiesa tramanda che Cristo, il Dio fatto uomo, è morto in croce per espiare i nostri peccati, il terzo giorno risorse da morte e quindi ascese al cielo. Sono stati i nostri peccati ad averlo ucciso.
Il suo corpo risorto, svincolato dal tempo e dallo spazio, è presente in ogni ostia consacrata sotto le apparenze del pane. Per questo nelle chiese ci si inginocchia davanti all’ostia consacrata nel Tabernacolo: il Dio dell’universo si è fatto pane. Si è fatto talmente povero da divenire un oggetto nelle nostre città, come prima si fece bimbo nel grembo della Vergine Maria. Nell’unica persona di Cristo la natura umana è indissolubilmente unita alla natura divina: quindi Maria, che ha verginalmente concepito e partorito Cristo per opera dello Spirito Santo, è Madre di Dio.
L’Eucaristia ha sotto gli accidenti del pane e del vino il corpo e il sangue di Gesù Cristo secondo la sostanza. Il sacerdote fa scendere sul pane e il vino lo Spirito Santo (epiclesi) e questo determina la transustanziazione: del pane e del vino rimangono solo gli accidenti (le specie, le apparenze), mentre la sostanza si trasforma nel corpo e nel sangue di Cristo.
Per la filosofia tomista, che si rifà a quella aristotelica, non può esistere l’accidente senza la sostanza, quindi nella transustanziazione Dio toglie al pane e al vino la sostanza del pane e del vino di modo che rimangano solo gli accidenti, i quali continuano a sussistere in quanto Dio dona loro una nuova sostanza, quella del corpo e del sangue di Cristo. Duns Scoto invece sosteneva che ogni realtà, anche un accidente, possiede una propria entità essenziale, perciò anche un proprio essere. L’inerenza alla sostanza da parte dell’accidente non è costitutiva dell’essenza dell’accidente assoluto. Quindi la dipendenza dell’accidente assoluto da una sostanza non è necessaria. Esiste una causa prima e cause seconde: la causa prima è la sostanza, ma esistono anche le cause seconde con propria possibilità di causare senza che la causa prima agisca direttamente. Quindi un accidente può sussistere anche svincolato dalla sostanza (causa prima), ma dipendente da qualche causa seconda.
Cristo è la Parola di Dio, quindi Egli esiste anche nella Sacra Scrittura. Egli si è abbassato anche scendendo nella parola degli uomini per illuminarli. Anche in ciò si attua la kenosis, lo “svuotamento” di Dio nei limiti della umana condizione.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 53, 6) riconosceva nel sacramento dell’Eucaristia tre elementi: sacramentum tantum (pane e vino), res et sacramentum (il vero corpo di Cristo), res tantum (l’effetto). Imitazione di Cristo (IV, 11, 4): “Due cose sento assolutamente necessarie in questa vita, senza le quali essa mi sarebbe insopportabile con le sue miserie. Imprigionato nel carcere di questo corpo, di due cose confesso di avere bisogno: di cibo e di luce. E per questo tu donasti a me infermo il tuo Corpo a ristoro dell’anima e del corpo mio, e ponesti ‘la tua parola come luce al mio cammino’ (Salmo 118, 105). Senza queste due cose, non potrei vivere bene; infatti la Parola di Dio è luce dell’anima e il tuo Sacramento è pane di vita”.
Per la teologia medioevale non c’è salvezza al di fuori della chiesa. Essa è la nave di Noè che porta in salvo il genere umano. Per questo nelle chiese ci sono spesso tre navate, da “nave”. La salvezza è concessa in virtù dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. In questo sacramento Cristo è presente ancora sulla terra per salvarci mediante gli effetti dell’Eucaristia.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 53, 1): “I sacramenti della Chiesa hanno lo scopo di provvedere all‘uomo nella vita spirituale. Ma la vita dello spirito assomiglia a quella del corpo, essendo le realtà corporali immagini di quelle spirituali. Ora, è evidente che come alla vita del corpo occorrono la generazione, con la quale l‘uomo inizia a vivere, e la crescita, con la quale egli raggiunge la perfezione della vita, così occorre anche l‘alimento perché si conservi in vita. Come quindi per la vita spirituale era necessario che ci fosse il battesimo, che è la rigenerazione spirituale, e la cresima, che è la crescita spirituale, così era necessario che ci fosse il sacramento dell‘Eucaristia, che è l‘alimento spirituale”.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 53, 4): “Questo sacramento ha tre significati. Il primo riguarda il passato, in quanto cioè esso commemora la passione del Signore, passione che fu un vero sacrificio, come si è spiegato sopra. E da questo punto di vista è detto sacrificio. Il secondo significato riguarda invece l‘effetto presente, cioè l‘unità ecclesiale, nella quale gli uomini vengono inseriti per mezzo di questo sacramento. E per tale motivo esso è detto comunione, o sinassi: spiega infatti il Damasceno che ‘è detto comunione perché attraverso di esso comunichiamo con Cristo, partecipiamo della sua umanità e divinità e facciamo comunione unendoci fra di noi scambievolmente’. Il terzo significato infine riguarda il futuro: poiché questo sacramento è prefigurativo della fruizione di Dio che avverrà nella patria del Cielo. E sotto questo aspetto esso è detto viatico, in quanto ci fornisce la via per giungervi”.
Dopo la Messa del Giovedì Santo (la quale è memoriale dell’Ultima Cena nella quale Cristo istituisce l’Eucaristia) il sacerdote fa rivivere alla comunità la prossima morte di Cristo in quanto toglie l’ostia dal Tabernacolo e la depone in uno spazio separato (Altare della reposizione). Cristo si è nascosto alla vista dei suoi, come duemila anni fa quando venne arrestato e poi deposto nel sepolcro. Il Venerdì santo al posto dell’ostia si adora la croce. È mediante la sua morte in croce che i nostri peccati sono stati cancellati. L’Artefice di tutto il creato è appeso a un patibolo. È nella morte e nella sofferenza che Dio onnipotente ha scelto di manifestarsi, per questo la croce è la regola dell’universo (von Balthasar) e è stata trasfigurata divenendo, come dice la liturgia, “trono, talamo e altare”. Al sarcasmo di chi lo invitava a scendere dalla croce, Cristo rispose eleggendola come luogo privilegiato della gloria vera e così sconfiggendo la superbia dell’antico Avversario, che per sé scelse una gloria illusoria.
Inoltre, con la risurrezione di Cristo dai morti, la morte è stata vinta: Cristo ha aperto a tutti i credenti le porte della vita eterna. Con la sua morte Cristo ha aperto i sepolcri.
Nel Libro della Sapienza, un delizioso testo dell’Antico Testamento in greco, è scritto: “La loro speranza è piena di immortalità, ē elpis autōn athanasias plērēs” (3, 4). Siamo ancora nei tempi precristiani, ancor non è avvenuto l’annuncio evangelico. Quindi non bisogna confondere questa immortalità con la vita eterna.
Cerchiamo di spiegarci meglio. Innanzitutto nel mondo greco classico e in quello giudaico la speranza significa una attesa dei beni, come la paura è attesa dei mali. Ma tra i due contesti culturali cambia l’oggetto: per i greci questa è una attesa tutta mondana, di beni mondani, del progresso, dell’interesse proprio e dell’umanità; invece per gli ebrei la speranza è attesa dei doni della bontà di Dio, è qualcosa di squisitamente religioso in connessione con la fede. Poi l’immortalità nel greco tardo non è da intendersi esclusivamente come vita eterna, ma come attesa di quei beni eterni, immortali, cioè del mondo divino, e Dio è immortale, i quali però sono beni presenti. Scarpat citava un passo del Corpus Hermeticum: “Allontanatevi dalla luce tenebrosa, partecipate alla immortalità, metalabate tēs athanasias”: qui si parla della immortalità come di un bene presente, non corruttibile in quanto concesso dalle sfere superiori ma sempre attuale, infatti il discorso verteva sulla bellezza della pietà e della conoscenza. Pertanto il Libro della Sapienza non vuole affermare la dottrina dell’immortalità dell’anima su stampo platonico, ma vuole dirci che i giusti attendono un dono religioso da parte di Dio, e pertanto tale dono è “immortale”, cioè appartenente alla sfera delle cose non corruttibili, cioè divine. Quale è questo dono? Ci risponde l’autore del libricino biblico in 6, 21: “Se dunque andate orgogliosi di troni e scettri, o re dei popoli, onorate la sapienza, per regnare per sempre”.
È il cristianesimo che inaugura la vera e definitiva vittoria sulla morte. Nell’Antico Testamento il credente era considerato il vivente per eccellenza, ma non in senso di salvezza finale come si evince nel cristianesimo.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 53, 2): “Come si è già notato, la risurrezione di Cristo era necessaria per fondare la nostra fede. Ora, la nostra fede ha per oggetto sia l‘umanità sia la divinità di Cristo: infatti, secondo le spiegazioni date, non basta credere nell‘una senza credere nell‘altra. Quindi per confermare la fede nella sua divinità era necessario che egli risorgesse presto, senza aspettare la fine del mondo; per confermare invece la fede nella realtà della sua umanità e della sua morte bisognava che ci fosse un intervallo tra la morte e la risurrezione. Se infatti fosse risorto immediatamente dopo la morte, poteva parere che non si fosse trattato di una vera morte, e quindi neppure di una vera risurrezione. Ma per mostrare la realtà della morte di Cristo bastava che la sua risurrezione fosse ritardata fino al terzo giorno: poiché non può essere che in un tempo così lungo non appaia in un morto apparente qualche segno di vita. Inoltre con la risurrezione al terzo giorno viene posta in evidenza la perfezione del numero tre, che secondo Aristotele (De caelo 1, 1) ‘è il numero di tutta la realtà, abbracciando il principio, il punto di mezzo e il termine finale’. E in più appare così un altro significato simbolico, che cioè Cristo ‘mediante l‘unica sua morte’, che è luce a causa della giustizia, ‘distrusse le nostre due morti’, del corpo cioè e dell‘anima, che sono tenebrose a causa del peccato (Agostino, De Trinitate 4, 3). Per cui, come spiega ancora S. Agostino (ib., c. 6), Cristo rimase nella morte un solo giorno intero e due notti. Inoltre ciò sta a significare che con la risurrezione di Cristo cominciava la terza èra. La prima infatti fu anteriore alla legge; la seconda sotto la legge; la terza sotto la grazia. Inizia poi anche con la risurrezione di Cristo il terzo stato dei Santi. Infatti il primo si svolse sotto le figure della legge, il secondo nella verità della fede, il terzo sarà nell‘eternità della gloria, alla quale Cristo diede inizio con la sua risurrezione”.
Ogni cristiano riceve il perdono dei peccati, l’assunzione a figlio di Dio e la vita eterna mediante il battesimo. Per Paolo, nel battesimo, la discesa nell’acqua significa l’unione alla morte di Cristo, mentre la risalita in superficie l’unione alla sua risurrezione. Chi muore con Cristo, con lui anche risorgerà. Esiste anche il battesimo di desiderio (quando si ha solo la volontà di essere battezzati ma si è nell’impossibilità di ricevere il sacramento) e il battesimo di sangue (per il catecumeno che muore martire prima di essere battezzato sacramentalmente).
Si tratta, per quella del battesimo, di una risurrezione spirituale: invece quella della carne riguarderà ogni uomo dopo il giudizio universale, quando Cristo ritornerà nella gloria. Nel frattempo chi va in Paradiso ci va unicamente con l’anima, in attesa che il corpo risorga alla fine dei tempi.
La domenica di Pasqua la comunità rivive la risurrezione di Cristo. Ogni celebrazione non è un semplice ricordo, ma un invito a rivivere nel rito e nella propria vita quello che accadde due millenni fa. Il Nazianzeno invitava i cristiani a immedesimarsi in un personaggio evangelico e a comportarsi come lui si era comportato nella passione, morte e risurrezione di Cristo.
Il suo corpo, barbaramente ucciso e relegato in un sepolcro, viene trasfigurato dalla Gloria divina e diventa un corpo spirituale. La crocifissione, un supplizio di origine persiana, era la peggiore condanna che i romani riservavano ai grandi criminali, come gli zeloti, terroristi anti-romani che rivendicavano i diritti del popolo ebraico sulla terra della Palestina. I giudei lo vollero condannare perché si fece Figlio di Dio (Giovanni 19, 7: oti uion theou eauton epoiēsen), invece il procuratore romano Pilato forse per accogliere la richiesta di chi lo scambiò per un zelota: “Chiunque si fa re, si mette contro Cesare” (Giovanni 19, 12: pas o basilea eauton poiōn antilegei tō Kaisari). La crocifissione era una condanna talmente infamante che i cittadini romani ne erano esentati. Per questo Paolo, che era un cittadino romano, non venne crocifisso, al contrario di Pietro, bensì decapitato.
Cristo è il primo risorto: è vivo oggi e sempre in anima e corpo. Maria è la seconda: dopo il suo transito in Cielo in anima e corpo senza sperimentare la morte (dormitio), il corpo della Madonna risorse. Tutti gli altri risorgeranno alla fine dei tempi.
Gregorio di Nissa (Sull’anima e la risurrezione 148): “La risurrezione è la ricostituzione della nostra natura nella sua condizione originaria, anastasis estin ē eis to archaion tēs physeōs ēmōn apokatastasis. Nella vita originaria, della quale Dio stesso è stato creatore, non esisteva né vecchiaia né infanzia, né sofferenze dovute a malattie di vario tipo, né alcun’altra miseria fisica, bensì la natura umana era una cosa divina, alla theion ti chrēma ēn ē anthrōpinē physis, prima che l’essere umano acquisisse l’impulso verso il male”.
Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles IV, 82): la morte è un difetto della natura in conseguenza del peccato, ma con la sua risurrezione Cristo ha riparato i difetti della natura conseguenti al peccato. Questo perché è più efficace il merito di Cristo nell’eliminare la morte che il peccato di Adamo nell’indurla. Quindi quelli che risorgeranno, perché liberati da Cristo dalla morte, non dovranno più subirla. Nel capitolo 83 l’Aquinate scriveva: “la vita dei risorti è ordinata al possesso della vera beatitudine. Ora la beatitudine e la felicità dell’uomo non consistono nei piaceri materiali, quali quelli dei cibi e quelli venerei, quindi essi vanno esclusi nei risorti.
Dio ha creato l’io personale, il quale è contrario a Dio. L’Anonimo francofortese, un dotto autore della fine del Trecento che ha scritto la Teologia tedesca (51), un’opera immortale della spiritualità cristiana, insegnava che Dio permette questa apparente contraddizione in quanto Dio deve in questo modo manifestare la sua azione. La ragione e la volontà dell’uomo sono qualità assai nobili, che lo rendono diverso dalle bestie, ma il compito della ragione sta nel dimostrare alla volontà e a sé stessa che sono qualche cosa di imperfetto, quindi che devono annichilirsi in Dio.
Ma continua l’Anonimo francofortese. Dio in sé non è opera né atto, cioè è senza volontà, ma così non avrebbe efficacia. Quindi crea la volontà dell’uomo (volontà creata) affinché Dio, volendo attraverso l’uomo, abbia efficacia nel mondo. Questa volontà creata è la piena unione di uomo e Dio: l’uomo non vuole attraverso di essa in proprio, ma volendo vuole solo ciò che vuole Dio. In questo modo Dio può avere efficacia nel mondo. Ma il peccato ha staccato la perfetta unione di uomo e Dio espressa nella volontà creata e ha introdotto una volontà imperfetta in cui l’uomo volendo non vuole solo ciò che vuole Dio, ma vuole qualcosa di proprio, solo per l’utile terreno, umano, non divino. Fin quando c’è la volontà propria non ci sarà mai piena beatitudine in quanto l’uomo, tramite questa imperfezione, non è più unito a Dio.
Possiamo dire in qualche modo che il fine ultimo della vita umana consiste, grazie a tutte le esperienze terrene, nel riaccendere la nostalgia di Dio fino alla trasformazione in lui, alla divinizzazione dell’uomo, tema caro alle chiese orientali. Ora, i risorti sono l’uomo reintegrato nella natura primordiale, nella quale non vi era separazione con Dio. I risorti costituiscono il raggiungimento della perfezione umana, la piena unione con Dio.
Il fine ultimo della vita umana è la salvezza eterna. Siamo dei salvati in potenza. Il Vangelo di Giovanni presenta il tema della escatologia già realizzata su questa terra. In un testo di Qumran (1QH 7, 6) si dice che tutta la storia umana è orientata verso la salvezza, che verrà concessa in eterno al vero credente. La radice ebraica jš’, “salvare”, ricorre in abbondanza in questi manoscritti del Mar Morto. Questa radice ricorre spesso in nomi propri semitici (amorreo, ugaritico, ebraico, nabateo, sudarabico). La più antica attestazione la abbiamo nel nome proprio amorreo la-šu-‘il di Ur del 2048 a. C. circa. Giosuè, Giosia e Gesù sono nomi ebraici che derivano da questa radice “salvare”. Da altri è stato sostenuto che tale radice semitica sia imparentata con l’aramaico wasi’a, “essere ampio”, ‘awasa’, “dare spazio”. La salvezza allora sarebbe come il dare spazio, liberare da limiti opprimenti oppure come l’opera di Dio che allarga il proprio cuore a favore dell’uomo. Questa ipotesi della spaziosità, della larghezza, non si trova prima di Schultens, 1761. Oggi i semitisti non la accettano più per questo motivo: dalla comparazione tra i nomi semitici nei quali la radice compare, risulta che essi risalgano tutti a un protosemitico *jt; ora, l’etimologia aramaica comporta un insolito collegamento tra la *t del semitico nord-occidentale e la s dell’aramaico, tra la *j del semitico meridionale e la w dell’aramaico). In ogni modo, nonostante questa discussa etimologia, la “redenzione” (lutrōsis) operata da Cristo è stata modellata sull’istituto giuridico ebraico del go’el, il “riscattatore”, “liberatore”, “redentore”, cioè quella persona che riscattava dalla carcerazione chi era stato imprigionato per debiti. La radice di go’el è quasi esclusivamente ebraica: compare solo in un nome proprio di persona Ga’ilalum in amorreo. Le attestazioni in aramaico giudaico sono in dipendenza dell’uso che ne fa la Bibbia ebraica. Pertanto il significato fondamentale della radice non è desumibile da basi etimologiche (anche se Johnson aveva ipotizzato in qualche modo quello di “proteggere, coprire”).
Nella Bibbia ebraica la radice compare sia in contesto giuridico sia in quello della salvezza dell’uomo operata da Dio. Quindi la “redenzione” di Cristo è dello stesso genere di quella del Dio dell’Antico Testamento. Questa particolare concezione del peccato come debito nei confronti di Dio, che egli scrive sul suo libro dei debiti, è evidente nella lingua aramaica, quella parlata da Gesù, in cui il termine hoba’ significa sia “debito” sia “peccato”. In questo senso nella versione di Matteo del Padre nostro (6, 9-13) si dice in greco: “Rimetti a noi i nostri debiti”. Invece Luca, che scriveva il suo vangelo per cristiani venuti dal paganesimo, i quali quindi non potevano capire la fraseologia semitica di Matteo, nella sua versione del Padre nostro (11, 2-4) esplicitava l’immagine scrivendo in greco: “Perdonaci i nostri peccati”.
La redenzione di Cristo si è attuata per distruggere le opere del diavolo, soprattutto la morte fisica (conseguenza del peccato originale dei progenitori) e la dannazione eterna, ma non solo. Nel battesimo si dice di rinunciare a Satana e a tutte le sue opere. La teologia insegna che ogni opera del demonio è permessa da Dio. Satana e i suoi angeli del male sono stati sconfitti da Dio grazie alla sua incarnazione, morte e risurrezione, ma prima della fine del mondo possono ancora agire: il loro tempo è limitato e la permissione da parte di Dio della loro azione è detta Mistero di Iniquità. Oggi la demonologia e la esorcistica classificano le azioni del demonio in due categorie: ordinaria (a cui tutti sono soggetti) e straordinaria (che colpisce solo poche persone).
La prima è la tentazione, con il quale il diavolo vuole spingere la persona a peccare, seducendola al male per dannarla eternamente. Il nucleo della tentazione è la offerta di un bene apparente che poi risulta nocivo alla salute dell’anima, delle relazioni, ma molto spesso anche del corpo. Il fine ultimo dell’uomo e la fonte della sua beatitudine è la unione con Dio mediante il rispetto della sua legge: il peccato, facendo deviare dalla volontà di Dio, nuoce gravemente all’uomo, togliendogli la vera beatitudine e sostituendola con una felicità illusoria.
Invece l’azione straordinaria è costituita da: vessazione, ossessione, possessione, infestazione di luoghi e oggetti. La vessazione è un male fisico procurato dal demonio: graffi, malattie, percosse, stupri, tentativi di omicidio o omicidi come, nel libro di Tobia, il diavolo Asmodeo fece con tutti i sette mariti di Sara. L’ossessione è più grave della semplice tentazione, è un pensiero ricorrente a cui difficilmente si può resistere, assieme a allucinazioni e a deliri.
Di solito i mali fisici e mentali procurati per azione del demonio hanno caratteristiche diverse da quelli naturali, anche se a volte li simulano alla perfezione: possono comparire di notte, comunque a ore fisse, si manifestano in occasioni particolari (la bocca che si chiude quando si prende l’ostia, voglia di bestemmiare durante la consacrazione della Messa), compaiono durante l’esorcismo caratterizzandosi spesso come avversione al sacro, sono resistenti alle terapie mediche e psicologiche, scompaiono o traggono miglioramento dalle preghiere e dalle benedizioni. Spesso i mali demoniaci si accompagnano a ansia e angoscia, dolori muscolari e ossei, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno. Il disturbo del sonno dovuto al diavolo è particolarmente subdolo per distruggere la persona: difficoltà a addormentarsi o sonno disturbato, insonnia, incubi, presenze ai lati del letto ledono profondamente l’attività diurna della persona facendole cambiare atteggiamenti e carattere in poco tempo, la agitano, i familiari dicono di non riconoscerla più rispetto a come era prima. Inoltre, il demonio può anche accelerare mali fisici e mentali naturali che sorgono spontaneamente, così da aggravarli.
Si ha possessione quando il diavolo prende il controllo del corpo della vittima facendole commettere atti che essa non vorrebbe commettere: raptus, svenimento, forza straordinaria, levitazione, cambiamenti della voce, parlare lingue sconosciute, sapere cose occulte, viso demoniaco, e così via. Non sempre un diavolo che entra nel corpo della vittima determina una possessione, a volte può solo usarlo come mezzo di trasporto. Si ha infestazione quando i diavoli entrano in una casa o in oggetti particolari. La casa infestata presenta rumori insoliti, schizzi di sangue sulle pareti, puzze inspiegabili, più insetti del normale, molto freddo, si avvertono presenze invisibili, si percepisce di essere osservati, e così via. Ma anche un semplice oggetto può essere infestato, sia per opera di un maleficio di un mago (la cosa in questione sarà maledetta e, se entra in contatto con qualcuno, determinerà gli effetti di una fattura) sia per spontanea attività dei diavoli. Nel passato si consigliava di distruggere gli oggetti della casa della presunta strega per via delle forze demoniache ivi presenti. È possibile che anche un animale sia infestato perché Satana può entrare dovunque e in chiunque, oltre che manifestarsi come un animale (i cosiddetti “famigli” dei satanisti, che questi ultimi adoperano per portare a compimento i riti).
Per invidia o volontà di nuocere di qualcuno, un mago può essere assoldato per lanciare una fattura a chiunque, ma difficilmente chi è in grazia di Dio e prega subisce i gravi effetti di una stregoneria. Il mago nero lo mette in atto, come abbiamo detto, facendo trovare un oggetto del maleficio infestato o comunque caricato con energie maledette vicino l’abitazione della vittima, magari anche dentro casa, dove viene trasportato dai diavoli che sono agli ordini del mago. Ma anche maledicendo in diversi modi un feticcio (una bambolina di stoffa che richiami in qualche modo la vittima) oppure la sua fotografia.
Contro tutte le opere del diavolo, ordinarie e straordinarie, stare in grazia di Dio, fare spesso la comunione e pregare, costituiscono una armatura perenne difficilmente scalfibile dal demonio. Chi pecca, si avvicina al mondo dell’esoterismo o smette semplicemente di pregare può essere attaccato molto facilmente. I peccati più gravi che aprono la strada alla azione straordinaria del demonio sono: allontanarsi dalla fede seguendo una via esoterica e il peccato sessuale. Il sesso ha il potere di legare il cuore di una persona al partner sessuale, quindi mai come il sesso può scardinare le relazioni, la pace interiore, la stabilità di una famiglia, la coerenza nelle proprie scelte, la dignità di una persona, oltre che molto facilmente offrire il destro per altri gravi peccati. I sacerdoti cattolici affermano che se valutassimo veramente le conseguenze del sesso nella vita delle persone, saremmo gravemente spaventati. È facile che una casa di prostituzione o nella quale è stato commesso un omicidio diventi infestata dai diavoli. Gli spiriti maligni attaccano in modo straordinario una persona sia se è un santo per cercare di distruggerlo sviandolo dalla retta via sia un grande peccatore. Ma questo ultimo caso è più raro in quanto il peccatore viene di solito assecondato dai diavoli per farlo resistere nella sua condotta peccaminosa. Infatti, il peccatore di solito viene solo sviato mediante la tentazione affinché questi si distrugga con le proprie mani.
Quindi, soprattutto in caso di azione straordinaria del demonio, gli esorcisti consigliano di riavvicinarsi alla preghiera e ai sacramenti, di perdonare i nemici e di stare in grazia di Dio. Nei casi più gravi si può benedire ripetutamente la persona, il suo cibo, gli angoli della casa. Poi esistono gruppi di preghiera di liberazione che scacciano le influenze malefiche. L’esorcismo è un rito particolare fatto dal vescovo o da un sacerdote da questi delegato contro la possessione demoniaca. A volte può essere fatto per scopo diagnostico: se la persona è posseduta, durante il rito manifesterà dei segni particolari, soprattutto quelli richiamati testé: e poi irrigidisce le mani, inizia a sudare, diventa furiosa, cade in trance, bestemmia, ritrae le pupille, gli si arricciano i capelli, non riesce a tenere in mano il crocifisso (e tutto questo solo in quell’occasione, mentre nella vita ordinaria è una persona normalissima).
I demoni clausi fanno entrare la vittima in trance chiudendole gli occhi, mentre sotto le pupille essi restano bianchi. I demoni aperti fanno diventare la vittima furiosa ma vigile e con gli occhi aperti. Però ci sono anche i demoni occulti, che provocano possessione senza determinare nessun sintomo di avversione al sacro durante l’esorcismo. L’esorcista durante il rito può ordinare al demonio oppure alle altre entità che provocano la possessione di dire la verità senza che queste presenze si possano rifiutare. Bisogna distinguere tra posseduto e il soggetto che ha fato il patto con il diavolo: il secondo non ha necessariamente il diavolo nel proprio corpo in grado di guidarlo senza che lui possa fare alcunché per impedirlo, ma spesso essere satanista, partecipare alle Messe Nere (o a qualsiasi rito esoterico), offrire il figlio a Satana, costituiscono causa di possessione demoniaca. È possibile che l’anima del feto faccia il patto con il demonio o, come si raccontava nel Medioevo, che il feto e il neonato vengano sostituiti da demoni dall’apparenza umana. Nel Medioevo si raccontava anche che i demoni incubi appaiono alle donne per avere con loro una relazione sessuale, mentre i demoni succubi lo fanno con gli uomini. Oggi si ritiene che l’idea di gravidanze demoniache sia completamente inventata. Inoltre, il demonio potrebbe fare ogni miracolo nell’ordine dell’immanente, anche se ci sarebbero gerarchie di demoni dalla potenza assai diversa. La strega e lo stregone farebbero un patto con il diavolo per avere da questi, per arte di magia nera, una potenza simile alla sua.
Ma ogni Messa è un esorcismo in quanto si prega Dio di liberare i fedeli da ogni male. Il Santo Rosario alla Beata Vergine ha una efficacia molto potente contro il diavolo e tutte le sue azioni, ordinarie e straordinarie: San Pio da Pietralcina lo chiamava l’Arma contro gli assalti del Nemico. Ci sono santi particolarmente efficacia contro il demonio: San Benedetto da Norcia, la Beata Eustochio, Sant’Antonio da Padova, e così via. Si prega anche San Michele Arcangelo.
I fenomeni occulti o razionalmente non spiegabili non sono causati solo dai diavoli. Un angelo può colpire una persona per avvicinarla a Dio facendola ravvedere dalla sua condotta o per punire i suoi peccati. Le anime del purgatorio possono manifestarsi con infestazioni o altri segnali per chiedere preghiere. L’anima di un mago può staccarsi dal corpo e possedere una persona, così come può farlo un defunto.
Ma in molti casi si tratta solamente di mali fisici naturali, mali mentali naturali oppure suggestione. La vera tattica del diavolo è quella di nascondersi per attaccare subdolamente la persona. Infatti, un matrimonio in crisi, tradimenti, liti, problemi sul lavoro, esaurimento fisico e nervoso, e altro, potrebbero migliorare rapidamente se la persona, sospettando la presenza del Nemico, iniziasse di nuovo a pregare. La prima tattica di un diavolo quando vuole iniziare a distruggere una persona è allontanarla subdolamente dalla preghiera gettando discredito sul clero, su un parroco in particolare e in genere sull’opera salvifica di Cristo, morto e risorto per salvarci.
Il diavolo gioca su false verità spingendo così le persone a credere alle sue menzogne. È vero che il peccato dei cristiani è esecrabile, ma il fatto che chi pratica una via sia nel peccato, non pregiudica direttamente la validità della via stessa. Che un giudice sia un corrotto non dice nulla riguardo la validità o meno della giustizia. Il diavolo fomenta odio verso i peccati degli uomini di chiesa (e di ogni altra religione) per allontanare i fedeli, misconoscendo che in realtà tutte le persone non sono perfette quando si prodigano a seguire un codice di valori, quale esso sia.
Il diavolo, inoltre, per raggiungere il suo scopo si accontenta di far fare piccoli passi: se vuole far perdere una persona, prima gli manifesta la presunta inefficacia di una religione spingendola non subito nell’empietà ma a non partecipare ai riti e a pregare da sola, solo dopo la spingerà anche a non pregare affatto, e solo alla fine la tenterà a non credere in qualsivoglia energia spirituale inducendola così a ritenere che ogni peccato sia giustificato. Il segreto del diavolo sono i piccoli passi, riesce a sviare la vittima poco alla volta. La tentazione genera confusione, la vittima non vede più il bene e i valori che la guiderebbero e solo dopo il diavolo può tranquillamente tentarla al peccato. Fozio (Mistagogia del Santo Spirito 60): “Costoro (gli eretici) hanno un pensiero disordinato e una confusione che sovverte la natura e l’ordine dei fatti in rivolgimento e disordine”.
Gesù stesso aveva previsto il peccato degli uomini e non voleva una chiesa di perfetti. Addirittura tra gli apostoli Giuda lo ha tradito e Pietro lo ha rinnegato. Nella parabola del seminatore (Matteo 13, 1-9) Gesù diceva che la sua Parola ha diversi gradi di adesione: in chi produce frutto e in chi meno e in chi niente affatto. Anche nella parabola della zizzania (Matteo 13, 24-30) Cristo rivelava che l’erba cattiva deve crescere assieme all’erba buona e che egli non sradica l’erba cattiva per non recar danno anche a quella buona, bisognerà attendere per questo la fine dei tempi.
La forza di seduzione del Maligno è impressionante e molti gli vanno dietro, dentro e fuori la chiesa. I sacerdoti e i cristiani in genere sono più attaccati dal demonio rispetto alle altre persone. Satana cerca di farli cadere dalla via della santità. È un modo con il quale le forze del male insidiano la discendenza della Donna, destinata a schiacciargli la testa. Apocalisse 12, 17: “Allora il dragone si infuriò, ōrghisthē, contro la Donna e andò a far guerra, apēlthen poiēsai polemon, al resto della discendenza di lei, quelli che osservano i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesù”. Pertanto ogni cristiano è chiamato al combattimento spirituale contro la malvagità e le insidie del demonio. Questo combattimento spirituale è iniziato con il peccato originale e si protrarrà sino alla fine del mondo. Il magistero della chiesa rifiuta ogni deriva millenarista, che vorrebbe mille anni di pace già su questa terra. Gaudium et Spes 37: “Tutta intera la storia dell’umanità è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio”.
La lotta sussiste, sino alla fine, nella vita umana sia individuale sia collettiva, come il magistero della chiesa proclama espressamente in Gaudium et Spes 13.
Infatti, al termine della preghiera dell’Ave, Maria si invoca la Santa Vergine: “Prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”. Per tutta la vita fino all’estrema ora il cristiano e ogni uomo sono impegnati a livello personale contro gli attacchi del demonio. I santi dicono addirittura che verso la fine della vita le influenze del male si intensificano e allora si fa particolarmente vicina la Madonna per strappare da Satana l’anima del buon cristiano.
Quindi non stupisce che i cristiani siano anche perseguitati fisicamente dagli uomini guidati da Satana sin dagli inizi, come Gesù Cristo morto in croce. Ai tempi dei romani Tacito diceva: Non licet esse christianos, “non è lecito essere cristiani”. Quasi tutti i papi fino al IV secolo sono morti martiri. Il martirio era talmente diffuso nei primi secoli che i cristiani addirittura lo ricercavano credendo di fare la volontà di Dio, cosa che però le leggi della chiesa impedivano. Tertulliano diceva che il sangue dei martiri è il seme dei nuovi cristiani. E oggi in tutto il mondo le persecuzioni al cristianesimo sono di gran lunga maggiori rispetto al passato. Matteo 10, 22: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”. Luca 17, 33: “Chi cercherà di preservare la propria vita la perderà, ma chi la perderà la salverà”.
Pasqua è una festa del popolo ebraico che deriva da una antichissima festività primaverile. La parola proviene dalla radice ebraica PSCH, “passare oltre”. Questo perché Dio colpì i primogeniti degli egiziani: per scampare da questa piaga, gli ebrei che vivevano in Egitto misero sulle loro porte un segno di sangue per far “passare oltre” l’angelo sterminatore. Esodo 12, 27: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli ebrei in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case”. Con il nome Pasqua gli ebrei chiamarono il sacrificio dell’agnello che essi mangiarono la notte prima dell’uscita dall’Egitto, quando fuggirono dal paese che li teneva prigionieri incamminandosi nel deserto verso la Terra Promessa. La parola ebraica può essere letta anche come Pe Sach, “la bocca racconta”, in quanto gli ebrei ricordano ancora oggi il miracolo di Dio verso di loro. I cristiani hanno mutuato questa festa dagli ebrei: essa ricorda per loro la risurrezione di Cristo dai morti. Egli era un ebreo e vinse la morte il giorno stesso nel quale gli ebrei festeggiavano la Pasqua. Per gli autori antichi la parola Pasqua deriverebbe dal greco “soffrire”, paschein, in quanto Cristo prima di risorgere soffrì per i nostri peccati. Nel calendario cristiano il giorno di Pasqua è variabile: cade la prima domenica dopo il primo giorno di luna piena che segue l’equinozio di primavera.
Il senso della Pasqua è che dalla croce rinasce la rosa della nostra beatitudine. La risurrezione di Cristo è un dono della sua passione. Per via della sua obbedienza fino al sangue alla volontà del Padre, Cristo ha riscattato l’umanità intera dal peccato e dalle sue conseguenze, come la morte fisica. Tommaso d’Aquino (Conferenza sul Credo in Deum) osservava come “la passione di Cristo è sufficiente per orientare tutta la nostra vita”. Ogni virtù si ritrova nella passione di Cristo e noi, imitando quelle virtù, possiamo conquistare la santità. Ci sono santi talmente innamorati dell’esempio del buon Gesù sulla croce che hanno chiesto a Dio di partecipare a un minimo delle sofferenze da lui patite. Santa Rita da Cascia ottenne il dono di ricevere sulla fronte una dolorosa spina della corona di spine di Cristo, che ella portò con amore per 15 anni.
Pensiamo a quanto l’arte figurativa, la letteratura e ogni altra forma artistica abbiano attinto a questo patrimonio scritturistico. Veramente la Bibbia è il Grande Codice (Frye) della cultura occidentale. La più antica icona di Cristo risorto è il Cristo Pantokrator (IV secolo) nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai. La penisola sinaitica è a forma di triangolo capovolto, con una altezza di 480 km e una base di 280 km. Da un lato ha il Mar Rosso, dall’altro il Golfo di Aqaba. In basso c’è un raggrinzimento montuoso, di montagne granitiche. Secondo il percorso tradizionale dell’Esodo, gli ebrei che fuggirono dagli egiziani, attraversarono tutta la penisola sinaitica costeggiando il mare da Ovest (Egitto) a Est (Palestina). Il Monte Sinai è un ventaglio cromatico: in una settimana avviene la variazione di circa una dozzina di colori, anche a causa della particolare composizione delle rocce. Questo Monte è il luogo del silenzio totale, mentre il rumore del vento che gioca nelle gole dei monti fa da contrasto. Il Monte Sinai è un acrocoro montuoso costituito da tre monti con al centro una pianura alta 1500 m, con qualche cespuglio. Il deserto è prevalentemente stepposo, ma certe volte è simile a quello africano, cioè sabbioso.
Sebbene l’etimologia di Sinai sia ancora sconosciuta, alcuni ipotizzano che il nome derivi dal sostantivo ebraico seneh, “cespuglio spinoso”. Etimologia già sostenuta dai primi esegeti ebrei. Secondo r. El’azar di Modi’im (morto attorno al 135 d. C.) il Monte si sarebbe chiamato in origine Horeb, ma il nome sarebbe stato cambiato in Sinai dopo che Dio si fu rivelato a Mosè nel seneh, nel “roveto”. Per Haupt il nome Sinai deriverebbe da uno degli arbusti che crescono lì, chiamato senna. Invece Fürst faceva derivare il nome Sinai dalla radice ebraica swn, “pieno di picchi”: quindi il nome significherebbe “pieno di rupi, dai molti picchi”. Baethgen dal dio lunare Sin. Per Lepsius dal deserto di Sin. Invece Paolo (Galati 4, 25) faceva una allusione etimologica e scriveva: “Poiché Agar significa Sinai”: effettivamente in arabo esiste una parola sina dal significato di “pietra”, detta anche agar, Paolo doveva fare riferimento a questa etimologia, pertanto per von Gall Sinai significherebbe “Monte aguzzo”.
Una delle più importanti oasi è quella di Elim, importante tappa dei viaggi dei beduini ma anche centro dei culti. Lontano 20 km da questa oasi sono state ritrovate le iscrizioni sinaitiche, per alcuni la prima testimonianza di una scrittura alfabetica, per altri sarebbe sillabica. Tra i due tipi di deserti, quello stepposo e quello sabbioso, il preferito dai beduini è quello stepposo in quanto in esso gli armenti possono sopravvivere contando su qualche tracciato di verde. Una poesia araba di questa zona recita: “Quando riesci a vedere un solo filo di verde, allora ricordati che Allah ti ha salutato”. Si tratta di tracce rare e misere, ma che gli armenti sanno individuare benissimo.
Si ritiene che Santa Caterina sia stata sepolta da un angelo in uno dei monti dell’acrocoro, il monte Horeb, dove venne costruito da Giustiniano il Monastero di Santa Caterina, ai piedi, nella pianura. Nell’Horeb sarebbe avvenuto il miracolo del roveto ardente e Mosè ricevette i comandamenti. Oggi i filologi biblici ritengono che i comandamenti di Mosè, che sono tramandati nella Bibbia in due versioni differenti (Esodo e Deuteronomio) e non sono solo dieci, non siano stati una rivelazione divina avvenuta storicamente. Quelle antiche parole ebraiche, infatti, rivelano dei punti in comune con precedenti testi legislativi dell’antichità, soprattutto il Libro dei Morti egiziano. Allora si ritiene che i comandamenti siano un riassunto delle antiche leggi dei popoli vicini. In ogni modo sono testi assai antichi, i quali, pur non essendo originali, rivelano molto delle concezioni di allora.
I testi legislativi più remoti dell’umanità li abbiamo nella Mesopotamia del III millennio. Il più antico è sumerico: è quello di Urnammu, in 40 brevi paragrafi. Il più antico babilonese è quello di Dadusha di Eshnunna. Il famoso Codice di Hammurabi è un documento babilonese più recente, databile alla metà del II millennio. È un testo giuntoci completo, è costituito di 282 paragrafi e copre tutto lo scibile legale del tempo (diritto penale, familiare, commerciale). È posto sotto l’egida del dio solare Shamash, che tutto vede, raffigurato in testa al documento. Hammurabi chiama le singole leggi dīnāt mīšarim. Molte punizioni del Codice di Hammurabi sono corporali, segno di una idea di giustizia ancora ferma alla legge del taglione, assai arcaicamente concreta. Per esempio in un paragrafo è scritto: šumma mārum abāšu imtahaṣ, rittašu inakkisū. Queste parole in babilonese vogliono dire: “se il figlio ha colpito (imtahaṣ è un perfetto, si riconosce dall’infisso –ta-) suo padre, si taglierà la sua mano”. Il verbo “si taglierà” (inakkisū) è un presente (si riconosce dal raddoppiamento della seconda radicale) che significa letteralmente “tagliano”, ma il presente ha anche valore di futuro e la terza persona plurale può essere intesa qui come un impersonale. Ma esistono punizioni anche più astratte, come le multe. Per esempio, šumma muškēnum lēt muškēnim imtahaṣ, ešeret šiqil kaspam išaqqal, “se un uomo semilibero (muškēnum) ha colpito la guancia di un semilibero, pagherà dieci scicli d’argento. Il verbo “pagherà” (išaqqal) è un presente terza persona singolare.
Il Monastero di Santa Caterina è il più antico cristiano ancora esistente, è greco-ortodosso, ha rapporti di fratellanza con ortodossi, cattolici e musulmani. All’interno è conservato un firmano, un documento di Alì, il genero di Maometto: il Profeta dell’Islam ringrazia i monaci per l’ospitalità che essi gli hanno tributato quando vi pellegrinò e gli concede protezione, cosa che puntualmente avvenne nei secoli. Maometto intinse la propria mano nell’inchiostro e lasciò sulla carta il segno della propria mano.
In questo Monastero vi è la Cappella della Trasfigurazione. Per commemorare questo evento evangelico è stato scelto il Monte Sinai in quanto qui si incontrarono Mosè e Elia, che comparvero anche nella Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo. L’abate più famoso è stato Giovanni Climaco. Dopo la Biblioteca Vaticana, la biblioteca del Monastero è la seconda per importanza nel mondo. In essa è stato ritrovato dal barone von Tischendorf il Codice Sinaitico, autorevole testimone del Nuovo Testamento, oggi conservato altrove. Il barone giunse al Monastero nel 1844 per studiare i manoscritti. Un giorno notò che alcuni monaci stavano demolendo una parete, dietro la quale si trovavano dei manoscritti che venivano buttati via. Lì egli notò il Codice Sinaitico: 347 fogli preziosissimi, risalenti al 350, scritti in greco in Egitto, che contengono tutta la Bibbia. Egli, dopo averli ricopiati, consigliò i monaci di darlo allo zar affinché non si perdesse. In seguito Stalin lo mise all’asta e, per 100.000 sterline, lo comprò il British Museum, ove attualmente risiede, tranne per 44 pagine che il barone regalò al principe di Palatinato a Lipsia. Nel 1979, mentre i monaci risistemavano qualche stanza, è stata trovata la parte mancante: 9 fogli ora ad Atene.
I monaci di questo Monastero vivono con tale regola: otto ore per la preghiera, otto per il lavoro, otto per il riposo. Visto che il terreno è esiguo, quando i monaci muoiono vengono seppelliti fino a che tutta la carne non si consumi, vengono allora dissotterrati e le ossa vengono conservate per generi (sepolcri con tutti crani, oppure con tutte braccia, e così via). Il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, c’è un episodio strano. Nella Cappella della Trasfigurazione vi è la raffigurazione del sole e della luna: ora, proprio in quella data, di giorno il sole illumina l’immagine del sole, mentre di notte la luna illumina quella della luna.
La fauna sinaitica è rarissima, ma ci sono alcuni uccelli chiamati dai beduini “compagni del cielo”. In questa zona arrivavano contingenti di antichi egiziani (300-800 persone) con un capo spedizione che sapeva la pista per fare sosta sotto un santuario (Tempio della Signora della Turchese). Il capo spedizione dormiva in una delle tre celle aspettando la incubazione, cioè che la divinità durante la notte si manifestasse rivelando i percorsi per trovare rame, turchese, e così via. Una volta trovata la materia, si metteva una stele. Ad oggi sono state ritrovate decine di steli per un periodo di duemila anni.
I vangeli non ci dicono nulla del volto di Cristo. Nei primi secoli due filoni di pensiero lo immaginavano ora bello (Efrem il Siro, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Girolamo) ora brutto (Origene, Oracoli Sibillini, Ireneo, Tertulliano, Giustino, Agostino).
Invece la più antica raffigurazione dell’Ultima Cena la abbiamo nelle Catacombe di Priscilla. Forse la più antica immagine della Crocifissione la abbiamo nel Graffito di Alexàmenos (III secolo), per alcuni una burla nei confronti di un cristiano: Cristo infatti è raffigurato in croce con la testa di asino (ma l’asino era la sua cavalcatura quando entrò trionfalmente a Gerusalemme).
Gli autori spirituali insegnano che molto amore abbiamo spontaneamente per Colui che tanto ha sofferto per noi a causa dei nostri peccati. 1Pietro 1, 8: “Senza averlo visto, lo amate; e senza vederlo credete in lui”.
Basilio Magno riconosceva che il peccato dell’uomo sta nel non pensare durante la giornata a Dio. I santi dicono che Dio quando ama vuole essere amato. Riferiscono di aver sperimentato un Dio “pazzo di amore” per le sue creature. Egli come un mendico va in giro cercando di essere consolato dall’amore delle persone. La beata Speranza di Gesù di Collevalenza in Umbria si è fatta portavoce dell’Amore Misericordioso di Dio verso tutti, che anche gli uomini devono testimoniare, infatti il motto della congregazione di ancelle e figli da lei voluta per incarico di Dio è: “tutto per amore”. I santi dicono che il peccatore non deve essere spaventato da Dio, il quale nutre per l’uomo un amore inconcepibile, che nessuna intelligenza umana né angelica potrebbe sviscerare nemmeno pensandoci per tutta l’eternità: quanto più è grande il peccatore tanto più egli ha diritti nella sua inconcepibile misericordia.
I teologi dicono che il peccato sta nell’allontanarsi da Dio e nel dirigersi alle creature e alle altre cose del mondo (aversio a Deo et conversio ad creaturas). I maestri spirituali insegnano che l’anima ha un sesto senso, viene attratta dalle cose dello spirito: la materia le nuoce gravemente, essa deve essere abbandonata per una spiritualizzazione di tutto l’uomo e del creato stesso.
Basilio Magno (Omelia 20.3): “La sublimità dell’uomo, upsos anthrōpou, la sua gloria e la sua maestà consistono nel conoscere ciò che è veramente grande, alēthōs gnōnai to mega, nell’attaccarsi ad esso e nel chiedere la gloria dal Signore della gloria”. Cosa c’è di più grande di Dio?
Dio è tutto ciò che c’è e il resto è solo un’illusione. Quindi staccarsi spiritualmente da Dio e tornare alle creature e al mondo materiale significa staccarci dalla sorgente che ci tiene in vita. È come dissetarsi con la propria saliva. Cercare il proprio senso nel mondo della materia equivale ad allontanarsi ancora di più dal vero e unico senso e scopo della nostra vita.
Solo se abbiamo Dio nel cuore, possiamo poi amare anche i fratelli, come segno indefettibile dell’amore di Dio. La carità verso gli altri è una grande virtù e segno di diletto divino. Basilio Magno (Omelia 6.3) parlando della carità, ammoniva: “Ma di tutto ciò non ti preoccupi, dato che trascuri i beni sperati per l’impegno che metti nelle cose presenti”. Un delizioso testo spirituale medioevale, La nube della non conoscenza (XXIV), osservava: “La carità in sé altro non è che amore di Dio sopra tutte le creature, e amore di tutti gli esseri umani, come di noi stessi, a causa di Dio”.
Ma anche l’amore per il prossimo è un bene che va abbandonato per uno più grande: quello esclusivo per Dio. Il grande vertice della perfezione sta, come scriveva Ignazio di Loyola negli Esercizi, nel diventare “indifferenti verso tutte le cose create”.
Anṣārī di Herāt scriveva: “Come un mendico, Signore, Ti chiedo più di quanto potrebbero chiederTi mille re. Ognuno vuole qualcosa, che chiede a Te. Io vengo a chiederTi di darmi Te stesso”. Secondo la filosofia tomista, il fine ultimo dell’uomo è Dio, le creature sono solo degli strumenti per attuare l’unione con Dio mediante l’amore esclusivamente rivolto a Lui. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles III, 66): “Nell’uomo due sono i mezzi con i quali può aderire a Dio, cioè l’intelletto e la volontà: poiché infatti con le potenze inferiori dell’anima non può aderire a Dio, ma alle cose inferiori. Ma l’adesione dell’intelletto riceve il suo completamento da quella della volontà: poiché è mediante la volontà che l’uomo in qualche modo si acquieta in ciò che l’intelletto apprende. Ora, la volontà aderisce a qualcosa o per amore o per timore: però in maniera diversa. Poiché alla cosa cui aderisce per timore, aderisce per qualcosa di altro: cioè per evitare il male che minaccia in caso di non adesione. Invece alla cosa cui aderisce per amore, aderisce per sé stessa. Ora, ciò che è per sé stesso è sempre superiore a ciò che è per altre cose. Quindi l’adesione a Dio per amore è il modo principale per aderire a Lui”.
Nell’antichità non vi era un mondo laico accanto a quello sacro: era tutto religioso. La laicità nasce con la Rivoluzione francese. Il tempio nelle civiltà antiche era il luogo dove la divinità risiedeva e emanava le sue energie positive. Non si poteva concepire la civiltà e l’uomo stesso senza la manifestazione del dio. Nella tomba di Petosiri a Ermopoli, uno dei documenti che abbiamo dell’epoca tarda della civiltà egiziana, è scritto che il Tempio di Thot a Ermopoli è “il luogo dove il dio Ra si è manifestato per la prima volta sulla terra (bw Ra inef em sef sepy er ta) quando essa era circondata dal nulla (per er endu)”. L’oceano primordiale è il nulla che avvolgeva la terra e Ra si manifestò per la prima volta facendo iniziare la creazione proprio nel Tempio di Thot. In questo senso l’amore e la devozione al dio sono alla base della creazione e della sopravvivenza.
Per quanto riguarda Dio, non possiamo parlare ma solo intuire e amare la sua Luce divina mediante la nostra anima. Di fronte all’Inconcepibile le parole non possono dire alcunché.
La filosofia greca ellenistica cessò di essere un logos e divenne una teurgia, cioè un contemplare le divinità mediante l’anima che fuoriesce dai limiti del corpo. Il filosofo medioplatonico Massimo di Tiro (Dissertazioni 16, 6) scriveva: “Le visioni di un filosofo, a cosa le comparerò? A un sogno ben manifesto e che porta ovunque, dove il corpo non è condotto in nessun luogo, mentre l’anima avanza su tutta la terra, dalla terra al cielo, percorrendo l’intero mare, attraversando tutta la terra, involandosi per tutta l’aria, correndo insieme al sole e ruotando insieme alla luna, strettamente unita al coro degli astri, in una sola notte amministrando e disponendo gli enti assieme a Zeus. O che viaggio beato, che belle visioni e che veridici sogni!”.
Plotino (Enneadi V, 3, 17): “L’anima, che corre dietro a tutte le verità, si eclissa tuttavia quando si esige che essa parli e pensi logicamente, dal momento che è necessario che il pensiero discorsivo, per poter dire qualcosa, colga i concetti l’uno dopo l’altro: solo così si ha il processo del pensiero. Ma in chi che è assolutamente semplice quale processo è possibile? Nessuno; ma basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto non si avrà né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi si potrà ragionarci sopra. Ma in quell’istante bisogna credere di aver visto, quando l’anima coglie, improvvisamente, la luce. Poiché questa luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso. in quell’istante bisogna credere che Egli sia presente, allorché, come un nuovo io, avvicinandosi alla casa di chi lo ha invitato, lo illumini: e se non si avvicina, non lo illumina. È così: un’anima non illuminata è priva di Dio; ma se è illuminata possiede ciò che cercava. Questo è il vero fine dell’anima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella stessa luce, non con la luce di un altro, ma con quella stessa luce con la quale essa vede. Poiché la luce, dalla quale è illuminata, è la luce che essa deve contemplare, nemmeno il sole si vede mediante una luce diversa. Ma come questo può avvenire? Elimina ogni cosa, aphele panta”.
In ebraico la parola “libertà” (chofesh) ha la stessa radice della parola “cercare” (lechappes). È veramente libero colui che cerca la verità, ma sempre nella convinzione di non mai trovarla definitivamente. Perché la verità è Dio stesso, il quale è talmente altro da noi da non potere essere compreso razionalmente, bensì solamente amato.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 43 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.