I MARTIRI FASCISTI DI FERRARA DEL 20 DICEMBRE 1920
Il movimento fascista si è manifestato non in mera violenza: ma nella controviolenza propria di un’insorgenza.
Vincenzo Caputo,
L’insorgenza fascista ferrarese
Particolare impatto ebbe in Emilia e in Romagna la strage di Ferrara del 20 Dicembre 1920, giorno nel quale caddero uccisi dalle Guardie Rosse un passante e tre fascisti: Franco Gozzi di 20 anni, Angelo Pagnoni di 24 anni e Natalino Magnani di 15 anni. Tutti giovanissimi.
Erano giorni febbrili quelli. Il fascismo cominciava a macinare consensi e, dopo i sanguinosi fatti di Palazzo d’Accurso a Bologna (21 Novembre 1920), l’opinione pubblica chiedeva la fine delle violenze sovversive e il ritorno dell’ordine con sempre maggiore forza. Il Fascio di Ferrara, tuttavia, stentava ancora a prendere piede, anche se durante le ultime settimane si era posto al centro dell’attenzione, quando aveva reagito contro le imposizioni effettuate dai socialisti nelle elezioni amministrative. I militanti del PSI, con tutta la loro forza persuasiva, approfittavano del fatto che erano i partiti a dare agli elettori le schede per la votazione da imbucare nelle urne, cercando palesemente di indirizzare l’esito finale della consultazione. Come ha ricordato Vincenzo Caputo nel suo fondamentale studio L’insorgenza fascista ferrarese:
[Il 31 Ottobre 1920] in diverse frazioni del Comune di Ferrara – San Martino, San Bartolomeo al Bosco, Gaibanella, Sant’Egidio e via dicendo – v’era addirittura un servizio di “polizia elettorale”, se così può dirsi, [organizzato dal PSI], “affidato a squadre di donne che si distinguevano per il bracciale rosso colla falce e martello. Gli elettori, accompagnati in Lega, venivano accuratamente perquisiti […] e solo quando davano sicurezza di non possedere che l’unica scheda del Partito [Socialista], venivano accompagnati nell’aula [del seggio elettorale] e non abbandonati per un solo istante finché non l’avessero deposta nell’urna” e tali soprusi cessarono soltanto con l’intervento, imprevisto e inatteso, di un’esigua squadra di fascisti che sconcertarono ed obbligarono quelle donne a dileguarsi. Ed è stato, questo, l’esordio delle azioni fasciste[1].
In Emilia e in Romagna, la tensione crebbe alle stelle dopo che, il 18 Dicembre, l’Onorevole Adelmo Niccolai, Vicesindaco di Bologna, era stato malmenato da alcuni fascisti come “rappresaglia” per l’assassinio di Giordani. Niccolai – tanto per rendere bene l’idea del “clima” che si viveva nel Biennio Rosso – era giunto in città per difendere due socialisti accusati di aver denudato un Prete e costretto a gridare in quello stato: «Viva Lenin!»[2].
Il PSI e la Camera del Lavoro di Ferrara, diffusasi la notizia del pestaggio, decisero allora di effettuare una manifestazione di protesta contro la violenza della “reazione”, indicendo per il 20 Dicembre un comizio pubblico. Saputa la notizia, il Fascio ferrarese annunciò una contromanifestazione.
Il Prefetto, ben sapendo che la città sarebbe stata oggetto di aspri scontri, cercò di dividere i contendenti e, autorizzando il corteo fascista, confinò la manifestazione socialista al teatro comunale, certo che così si sarebbe impedito alle due fazioni di venire in contatto diretto.
Lo scontro nacque quasi per caso, quando i fascisti che marciavano verso il Castello Estense si incontrarono con un gruppo di infermieri sindacalizzati che, in ritardo all’appuntamento, sfilava lungo la stessa via, bandiera rossa in testa. Fu un attimo. I militanti del Fascio avanzarono minacciosi. I socialisti reagirono esplodendo contro di loro alcuni colpi di pistola che ammazzarono il quindicenne fascista Magnani, che cadde a terra con il capo spappolato. Faceva parte dell’avanguardia bolognese che apriva il corteo.
Alcuni squadristi della prima fila della manifestazione, vista la scena, caricarono i sovversivi e scoppiò il finimondo, soprattutto per un evento inaspettato. Infatti, appostate sul Castello Estense vi erano le Guardie Rosse armate di tutto punto. Sentito il colpo di pistola che aveva ucciso il giovine Magnani, cominciarono a sparare sulla folla sottostante provocando strage. Al termine della giornata si contarono almeno dodici feriti e quattro morti: i fascisti Gozzi, Magnani e Pagnoni e il passante Giovanni Paolo Mirella, colpito in pieno petto da una fucilata: era iscritto al sindacato degli infermieri, ma quel giorno non aveva aderito a nessuna manifestazione politica.
L’operaio agricolo Giuseppe Salani – che partecipava al corteo socialista – colpito durante gli scontri da un proiettile sparato dalle Guardie Rosse, evitò di farsi medicare per non essere interrogato dalle Autorità di PS: la ferita però si infettò e morì per setticemia il 23 Febbraio successivo.
In totale, quindi, cinque morti, che vennero addebitati interamente dall’opinione pubblica ai sovversivi, tanto che i famigliari del socialista Salani fecero organizzare ai fascisti il funerale del loro caro, vittima delle Guardie Rosse (il Salani, ovviamente, non fu riconosciuto Caduto per la Causa nazionale).
Il prefetto De Carlo, in un telegramma al Ministero dell’Interno in data 21 Dicembre 1920, così raccontò i fatti di quella tragica giornata:
Gruppo fascista imbattutosi casualmente con gruppo socialista con bandiera rossa, avvenne colluttazione, e chi portava la bandiera rossa esplose primo colpo ed uccise fascista Franco Gozzi [sic; leggasi “Magnani”], determinando conflitto; ma incidenti avrebbero avuto ben minori conseguenze se dall’alto del Castello, sede Amministrazione provinciale, improvvisamente non fossero stati sparati colpi micidiali.
Non fu solo l’eccidio più pesante subito dal fascismo in questo anno di lotta antibolscevica, ma anche uno snodo cruciale per l’intero movimento mussoliniano. Perché contrassegnò un “cambio di marcia” della storia, ossia l’irruzione sulla scena politica nazionale del fascismo: il 22 Dicembre 1920, al funerale dei tre fascisti uccisi dalle Guardie Rosse – cui si aggiunse anche la salma del passante sindacalizzato Mirella per volere dei familiari della vittima – parteciparono oltre 10.000 persone. Una manifestazione compatta e decisa, come mai si era verificata nel Biennio Rosso. E dal giorno successivo, come era accaduto a Bologna dopo la strage di Palazzo d’Accursio, non si contarono più i ferraresi che chiesero la tessera del Fascio…
Per gran parte del 1920, come abbiamo visto, i Fasci erano rimasti quasi spettatori degli eventi pre-insurrezionali e sovversivi che si stavano verificando in Italia. Solo nell’Autunno, cominciarono ad essere sempre più presenti piccoli nuclei di fascisti che, sebbene ancora minoranza, si posero nelle piazze come antagonisti diretti di quel PSI trionfante, imponendosi – incredibilmente – non solo fisicamente contro masse ben più numerose ma, per la prima volta, riuscendo a registrare anche un consenso sempre più generalizzato tra tutti quei cittadini stanchi delle violenze anarco-massimaliste.
Il fascismo stava “mutando”. Da movimento cittadino, milanocentrico e saldamente tenuto nelle mani da Mussolini, si stava trasformando in movimento rurale, provinciale e sempre più autonomo dalla Direzione nazionale. I fatti di Ferrara, per l’appunto, simboleggiarono questo mutamento. Il 1921 vedrà non solo la drammatica eclissi del movimento socialista e la conseguente tragica conclusione del Biennio Rosso, ma anche il sorgere imponente dello squadrismo.
Tutti i caduti del fascismo di Ferrara, compresi i tre del 20 Dicembre 1920, saranno poi ricordati all’interno delle “Cappelle votive in memoria dei Caduti in guerra e dei Martiri fascisti” della Basilica di S. Maria in Vado.
Le due Cappelle, volute da Don Pellizzola e da Antonietta Pinghini, Presidente dell’Associazione Madri e Vedove dei Caduti in Guerra, furono realizzate tra il 1923 e il 1925, con una spesa di L. 50.000, e inaugurate la Domenica 15 Marzo 1925 alla presenza di una grande folla composta di Autorità quali Italo Balbo, di milizie, di studenti. La cronaca della “Gazzetta Ferrarese” descrive la cerimonia: le Autorità si radunarono nella sede dell’Associazione da cui partì il corteo diretto verso la Basilica Santa Maria in Vado illuminata da lampadine elettriche distribuite lungo cornicioni e affollata di gente che agitava bandiere e gagliardetti. Le note dell’Inno del Piave e di brani per arco, arpa ed armonium, eseguiti da Professori e allievi dell’Istituto Musicale “Frescobaldi” e della Società Orchestrale, accompagnarono la Messa officiata dal Vescovo e presenziata dalle vedove di guerra e dalle madri dei Caduti, fra cui la madre dell’Aviatore Francesco Baracca. La cerimonia si concluse con la benedizione alle Cappelle e alle bandiere[3].
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i nomi dei fascisti caduti vennero rimossi, profanando così la volontà di chi aveva edificato questo altare di amore patriottico e con bel altri ideali.
Nel 1926, l’Università Ca’ de Foscari di Venezia concesse a Franco Gozzi, Bersagliere reduce della Grande Guerra, Radazzo del ’99 e Martire fascista, la laurea ad honorem:
Stando alla cronaca riportata nel Bollettino dell’Associazione, l’ambiente entro cui si sviluppò il rito – l’Aula Magna – si presentava ormai fascistizzato: dietro al tavolo riservato agli oratori, e accanto ai ritratti del Re, di Mussolini e di Gozzi [in divisa di Bersagliere], era collocata la bandiera dell’Istituto; due Alfieri in camicia nera reggevano, ai lati del tavolo, il gagliardetto e la fiamma del Gruppo Universitario Fascista; il servizio d’onore era prestato da un picchetto di Militi della Centuria Universitaria. La graduale sovrapposizione del simbolismo fascista ai riti patriottici riconsacrati, contestualmente in atto a livello nazionale, aveva allora investito anche le istituzioni scolastiche veneziane. Il caso dell’uso pubblico e politico della memoria di Gozzi fu esemplare in questo senso. Indicando nel suo discorso lo studente fascista quale esempio per le giovani generazioni, il Direttore Ferruccio Truffi non mancò di sottolineare quale fosse il preciso dovere educativo della Scuola: il titolo accademico che già fu conferito agli studenti morti in guerra e che la legge del 31 Marzo di quest’anno vuole attribuito anche a coloro che si immolarono dopo la guerra per la redenzione della Patria e la difesa della vittoria, segna un rapporto immediato fra le concezioni della coltura e gli episodi dell’eroismo, fra l’idea e la vita. E la Scuola assegnando il diploma e il titolo di Dottore a quelli dei suoi figli che seppero dare la vita in olocausto per un’idea, mira a sublimare la sua missione, che non è di fare mestieranti, ma di educare cittadini alla Patria.
Al momento della proclamazione, Truffi affidò al padre di Gozzi il diploma che avrebbe dovuto rappresentare «un legame che avvince in un modo indissolubile il figlio suo e la famiglia alla Scuola». Dopo i discorsi tenuti da Pietro Orsi, Commissario straordinario della città e già Professore di Ca’ Foscari, e dal Segretario politico del Gruppo Universitario Fascista, venne consegnato al padre del defunto un album con le firme di Professori e studenti fascisti. Il nominativo di Franco Gozzi sarebbe poi comparso, unico sotto la voce “Studente morto dopo la guerra per la redenzione della Patria e la difesa della Vittoria”, nell’Albo dei soci, segno – una volta di più – di quanto nelle pratiche memoriali elaborate in quella fase storica convivessero ad un tempo elementi di continuità e di discontinuità rispetto al passato[4].
Il 5 Maggio 1929-VII, nel cortile centrale dell’Università veneziana venne posto un busto in onore di Gozzi[5].
In quell’occasione importante fu il discorso del Segretario del GUF veneziano Dott. Ferdinando Marino:
«In faccia alla vecchia dimora dei Foscari, il fascismo universitario veneziano inaugura oggi il ricordo della riconoscenza e dell’amore a Franco Gozzi: Bersagliere, fondatore di Fasci universitari. Lo stile fascista esige che i morti si commemorino in silenzio con riti austeri ma con forti propositi che ci rendano degni dell’olocausto dei caduti e del travaglio dei vivi. Ma io penso che faremmo cosa ingrata se in questo momento di solenne esaltazione dimenticassimo la donna in gramaglie che il nostro eroe invocava durante gli spasimi della sua tremenda agonia. Mamma di Franco Gozzi, mamma nostra. Nessuna parola bella di oratore brillante potrà mai lenire la piaga che da nove anni sanguina nel tuo cuore tormentato; quando però attraverso i vetri della tua finestra vedrai marciare gagliarde e fiere le infinite Legioni dei Balilla, Avanguardisti e di Camicie Nere; quando sul Castello Estense vedrai garrire al vento il bel tricolore della Patria; quando apprenderai che Roma è divenuta centro di divulgazione della nuova civiltà di occidente; quando insomma ti renderai conto del miracolo avvenuto in questa nostra terra benedetta, pensa con orgoglio sia pure accorato che tutto è dovuto al sacrificio del tuo Franco e dei suoi tremila fratelli. Furono essi infatti che con il loro sangue vermiglio innaffiarono la pianticella generosa che si chiamava Fascismo di Combattimento per trasformarla poi in quella guercia massiccia ed imbattibile che oggi si chiama Regime fascista. “Onorevole Orsi, gli Universitari fascisti veneziani Le consegnano questo bianco monumento, simbolo dell’eroismo giovanile. Lo faccia coronare di alloro e lo lasci circondato dal profumo che emanano i bei fiori di Primavera. La consegna gliela facciamo con un solo grido, con una sola, possente, disperata invocazione: camerata Franco Gozzi! Presente!».
A questo rito intervenne anche il Segretario nazionale del PNF Augusto Turati, con un discorso che vale la pena rileggere integralmente:
«Tal uno si chiede perchè io ami tanto questa vostra giovinezza studiosa, pensosa e fremente. Tal uno si chiede perchè tra le infinite categorie di Italiani, che sono benemeriti per la loro opera, per le fatiche quotidiane, per l’eguale amore a questa nostra terra, io prediliga voi; la gioventù degli studi. È che la nostra gioventù studiosa, quando pareva che la Patria dovesse andare perduta, ha ritrovato dentro di sé la ragione per credere. Vi amo perchè penso che voi possiate essere la eterna Primavera della Patria. Vi amo perchè dagli Atenei è uscita la gioventù, che ha voluto la guerra quando tutti volevano la pace e il tradimento, vi amo perchè su tutte le trincee insanguinate d’Italia la gioventù uscita dagli Atenei, dagli studi, ha saputo insegnare all’Italia che era bello morire, che era bello soffrire per la Patria, per il Re e per la nostra razza, perchè dagli Atenei sono uscite queste magnifiche figure di soldati, di ribelli, figure alte e pure come quella di Franco Gozzi, anima tutta aperta ai bei sogni sorridenti della vita, anima capace di comprendere e di tenere dentro di sé il palpito della bellezza. Tornata dopo la trincea e dopo la guerra, questa giovinezza che poteva ormai pretendere di sorridere, di cantare le gioie della vita, ha sentito per la seconda volta che ancora bisognava soffrire, che era necessario forse morire. Tutto questo, forse, non era che la canzone di uno spirito, ma io amo pensare che fosse la risultante di due cose, che affido a voi, alla vostra passione e alla coscienza degli Italiani; questo giovane è stato tale perchè la madre sua nel darlo alla luce gli aveva detto di essere degno: “Fa di poter sempre nella vita tener alta la fronte, pensa che se vi è una ingiustizia tu devi batterti, pensa che se c’è una libertà, per questa tu devi combattere”. Penso che le prime parole mormorate da sua madre sono state di forza e di fede, penso che questa creatura di giovinezza ha trovato nell’atmosfera della sua casa una nuova religione: quella della Patria. Perchè altrimenti tutta la sua vita non avrebbe sentito così vivo ed imperioso il comandamento, come se fosse dentro al suo stesso sangue, dentro i suoi stessi nervi, dentro la sua stessa carne: il comandamento che la gioventù andasse cantando incontro alla morte. La guerra e la tragedia del dopo guerra! Questo giovane ha sentito la necessità della lotta, della resistenza, della buona battaglia per la santa causa, perchè dentro era maturato, oltre ai comandamenti, oltre agli insegnamenti che gli derivavano dalla sua infanzia e dalla sua giovinezza, tutto quello che era la passione, l’amore alla bellezza d’Italia, attraverso lo studio. Miei giovani camerati, amatela questa terra nostra, ma amatela non come poeti sognanti, amatela come una cosa viva, fatta tutta di potenza e di volontà. Amate e fate che essa viva dentro ognuno di voi, come una cosa bella, forte, degna. Badate di non umiliarla mai dentro di voi con un pensiero che sia triste, perchè quel giorno voi fareste un’altra volta morire gli eroi e un’altra volta voi uccidereste la Patria. Vorrei veramente che un giorno noi diventassimo quello che il Duce vuole: uomini quasi senza parola, con una volontà fredda, tenace come la lama di un pugnale, che andasse oltre ad un comandamento verso tutti gli ostacoli. Allora veramente saremo degni dei nostri eroi. Può darsi che allora, perchè oggi non v’è nelle anime tormentate ancora pace, può darsi veramente che nel giorno della più grande vittoria, essi, i nostri morti della guerra e della Patria, sorridendo finalmente sereni e sicuri, può darsi che allora noi li risentiamo tornare in mezzo a noi maestri, apostoli e comandanti, può darsi che allora veramente essi si distacchino dalle forme senza vita, si distacchino dai monumenti, risorgano dalle tombe e si mettano alla testa delle nostre belle legioni. Guardate ad essi, al loro ricordo e allora ognuno di voi, magnifica giovinezza italica, sarà non solamente un fiammeggiare di speranze, ma sarà un urlo solo di volontà, di gloria, di audacia e di ardimento per le vie del mondo, per portare quello che è il grido della stirpe, la voce della nostra civiltà, il segno indistruttibile della nostra potenza».
Infine, l’intervento del Podestà di Venezia On. Prof. Pietro Fortunato Maria Orsi:
«Le LL. EE. Turati e Teruzzi [Attilio, Capo di Stato Maggiore della Milizia] con nobilissimo pensiero, hanno voluto intervenire a questa cerimonia con cui s’inaugura il ricordo che abbiamo eretto al nostro caro Franco Gozzi, ricordo magnifico, desidero dirlo ad onore dello scultore Scarpabolla che lavora con disinteressato fervore, animato dal culto appassionato della grande arte. S.E. Turati con la sua infiammata parola accende nei cuori dei giovani una fede entusiastica nell’ascensione sicura delle fortune d’Italia; ed io gli esprimo vivi ringraziamenti per l’opera ch’egli compie oggi tra noi anche perchè sono il più anziano dei Professori fascisti di questa Scuola. Ed insieme con lui io ringrazio l’On. [Giacomo] Di Giacomo e gli altri valorosi rappresentanti del nostro Partito che sono oggi qui presenti e che tutti si segnalarono quando fu necessario combattere anche nell’interno per rialzare la nostra bandiera vilipesa e derisa dalle turbe traviate e riportarla a risplendere sul Campidoglio, segnacolo magnifico di grandezza. Io sono orgoglioso di ricevere in consegna a nome di Venezia questo nuovo simbolo della passione italica, che viene ad aggiungersi all’elenco glorioso degli studenti caduti sui nostri campi di battaglia. In questo palazzo, pieno di storia, queste due lapidi portano una nota nuova: la prova delle magnanime audacie compiute dalla nuova giovinezza d’Italia. Questi nuovi giovani eroi, caduti combattendo contro i nemici interni e contro lo straniero, noi li associamo tutti nel nostro memore rimpianto, noi li raccogliamo in un solo pensiero d’affetto e di riconoscenza. Essi non sono morti per noi; noi li sentiamo vicini a noi in tutti i momenti decisivi per la Patria; sono essi che montano la guardia al nuovo edificio che stiamo costruendo, e stanno là fieri e forti del diritto d’Italia e sicuri del suo avvenire perchè vedono con occhio amoroso crescere sotto le insegne del Littorio una generazione animata da quegli stessi altissimi ideali che li indussero ad affrontare ogni pericolo per l’Italia. Ed io che vivo in mezzo ai giovani provo ogni giorno il grande conforto di sentire questa loro anima nuova, pensosa dei destini della Patria, io vedo questa fiamma di fede operosa che arde nei loro cuori e ne traggo la fiducia che essi colla disciplina severa degli animi e con volontà tenace sapranno condurre l’Italia a sempre maggiore gloria e grandezza».
Ci siamo dilungati nel riportare gli interventi dei vari oratori per far comprendere meglio il culto dei caduti tipicamente fascista, inserito compiutamente in quella religione politica che fu il fascismo.
Anche il busto di Gozzi “scomparve” all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale quando in città calarono i partigiani…
Natalino Magnani fu inumato solennemente nel Sacrario dei Martiri fascisti di Bologna, dove ancor oggi riposa, proprio al fianco del grande Giulio Giordani, quell’Uomo assurto a simbolo del sacrificio per la Patria e della barbarie dei rossi, che il 20 Dicembre 1920 il quindicenne fascista voleva onorare.
Franco Gozzi, invece, fu sepolto nella tomba di famiglia presso la Certosa di Ferrara.
Durante il Regime, i tre caduti del 20 Dicembre furono onorati come “esempi”, con solenni celebrazioni presso la Basilica di S. Maria in Vado e presso la lapide che esisteva al centro delle arcate dell’attuale Corso Martiri della Libertà, all’incrocio con Corso della Giovecca, davanti al Castello Estense. Lapide inaugurata il 20 Dicembre 1936-XIV dal Ministro Edmondo Rossoni.
Il 20 Dicembre 1938-XVI, presso la Casa del Fascio di Ferrara, venne affissa un’ulteriore lapide commemorativa alla presenza del Vicesegretario nazionale del PNF Dott. Dino Gardini:
Nel 18° anniversario
dell’eccidio di Castello Estense
il fascismo ferrarese
ricorda
che in questa casa ebbe sede
il primo nucleo guerriero
delle squadre d’azione dei Fasci di Combattimento
uniti nei banchi della Federazione provinciale
e del Fascio di città
donde
mossero i Martiri all’olocausto e alla gloria
oggi come ieri
avanguardie dell’innumere esercito
che il Duce ha condotto
da Vittorio Veneto all’Impero
Tra queste cerimonie si ricorda la celebrazione svolta in occasione del XXII Anniversario della Marcia su Roma, il 28 Ottobre 1944. Quel giorno, davanti al Castello Estense, a rendere omaggio a Franco Gozzi, Angelo Pagnoni e Natalino Magnani venne schierata la XXIV Brigata Nera “Igino Ghisellini” e rappresentanze ufficiali della Wehrmacht. Il tutto in una dichiarata “continuità ideale”: squadrismo – Repubblica Sociale Italiana.
Ferrara venne occupata dai Britannici il 24 Aprile 1945. Poco dopo, entravano in città anche i partigiani. Iniziò così la caccia al fascista e massacri che non hanno precedenti nella storia d’Italia.
La lapide che ricordava i fatti del 20 Dicembre venne subito profanata e il luogo verrà ribattezzato Corso Martiri della Libertà, altri martiri ovviamente, in ricordo degli undici antifascisti lì fucilati dalle Camicie Nere per rappresaglia dopo l’assassinio del Federale Ghisellini, il 15 Novembre 1943.
Da allora, una nube densa e fitta ha ricoperto i tragici fatti del 20 Dicembre e i suoi caduti. Del resto, il Biennio Rosso non vi era mai stato… una nuova “alba radiosa” sarebbe presto sorta… nel nome di Stalin. Così, almeno, fu nelle entusiasmanti previsioni di tutti in quella Primavera di sangue del 1945.
Pietro Cappellari
NOTE
[1] V. Caputo, L’insorgenza fascista ferrarese 1920-1921. L’eccidio del Castello Estense, Settimo Sigillo, Roma 2007, pag. 77. Cfr. anche pag. 83.
[2] Cfr. Ibidem, pag. 89.
[3] http://www.emiliaromagna.beniculturali.it/index.php?it/108/ricerca-itinerari/47/605.
[4] S. Galanti, Alle spalle della Niobe. Onorare ed eternare a Ca’ Foscari (1918-1946), I Libri di Ca’ Foscari, Venezia 2018, pagg. 81-82.
[5] Cfr. Inaugurazione, in Ca’ Foscari, del monumento a Franco Gozzi, Bollettino dell’Associazione “Primo Lanzoni”, a. XXXI, n. 95, Gennaio-Maggio 1929 (VII), pagg. 10-15.
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