E’ da poco nelle librerie l’ultimo libro di Giovanni Sessa. Si tratta di un volume significativo per la densità di pensiero che emerge dalle sue pagine. Ci riferiamo a, L’eco della Germania segreta. “Si fa di nuovo primavera”, comparso nel catalogo della OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 225, euro 18,00).
Tale decostruzione antimoderna è centrata sull’idea del Nuovo Inizio, non inteso nell’ingenua prospettiva tradizionalista e palingenetica, il ritorno dell’Età dell’oro, altra faccia dell’idea di progresso moderna, ma pensato quale dischiudersi del gioco tragico della rigenerazione di un Possibile non normabile, non prevedibile, non pianificabile. In tutti questi autori si mostra la riemersione di ciò che Sessa, memore delle prime testimonianze filosofiche d’Europa, quelle dei Sapienti cari a Colli, definisce lógos physikós.
Un sapere che ha al centro dei suoi interessi la Natura, intesa quale forza generatrice e dissolvitrice, unica trascendenza a cui l’uomo, stoicamente, possa far riferimento. Merito di Sessa è di aver letto in modalità originale, cioè facendo riferimento ad una filosofia dell’origine, e al di fuori delle consolidate ermeneutiche storiografiche, i cinque autori ricordati. Lo ha fatto peraltro, non semplicemente in termini storico-filosofici, ma formulando una chiara proposta teoretica. Egli scrive, infatti, che, a questo studio, ha voluto attribuire un compito: «certamente non modesto, […] suggerire una via atta a farci guardare il mondo quale eterna fioritura, eterna primavera dionisiaca» (p. 53). Ed eccolo, allora, ricordare, nel primo capitolo, come la musica di Wagner, momento apicale del ritorno della musica tonale in Europa, presentasse nella propria grammatica una manifestazione dell’idea di tempo pre-cristiana, il tempo sferico o tridimensionale. Ogni nota wagneriana contiene in sé la precedente e rinvia alla successiva, celebrando l’abbraccio dell’ “attimo immenso” e dell’ “eterno”. Sessa rileva, inoltre, servendosi dell’esegesi del mito di Orfeo propria del filosofo Massimo Donà, come, ab origine, nel pensiero ellenico si alludesse ad una possibilità ulteriore, rispetto a quella staticizzante, istituita dal theorein e dal logocentrismo, di esperire il reale: la visione poietica, atta a dinamizzare il reale e a restituirci il perenne essere all’opera delle cose di natura.
L’autore ci introduce nel pensiero di Klages, filosofia costruita su una delle più potenti elaborazioni novecentesche relative al: «nesso tra vita, pensiero e immagine» (p. 21). Per il tedesco, l’assoluto della vita animata ed animante della physis è immagine, non concetto. L’intera vicenda del modernismo è segnata, nella prospettiva klagesiana, dalla superstizione imposta dallo Spirito, antagonista dell’Anima, ma non nel senso delle prospettive dualiste e oppositive. Infatti, lo Spirito, sintesi del logocentrismo occidentale, altro non è che Anima staticizzatasi per il predominio del principio d’identità, nell’iter gnoseologico che da Parmenide conduce a Carnap, responsabile del fisicidio, della tacitazione delle ragioni della Natura, manifestatosi nella filosofia e nella scienza moderne. L’immagine klagesiana consente il recupero del “canto” di Orfeo, permette di leggere il mondo nel suo costituivo ancora-da-essere, nel suo divenire perennemente nuovo, sempre diverso da sé. Tale sapere può restituire la primavera eterna della vita.
Nella medesima prospettiva, Sessa compie l’esegesi del pensiero-poetante di George. Per il Meister, il fare poetico, di natura ritmico-musicale risacralizza il reale nel senso del sacer, non del sanctus: «sottraendolo a ogni oggettivazione e quindi a ogni conquista, possedibilità, manipolabilità» (p. 22), chiosa Gasparotti. Nella creazione artistica, il soggetto stesso si fa uno con la Natura, coincidendo con i processi metamorfici di quest’ultima. A dire dello scrittore, il più significativo recupero del lógos physikós del Novecento, lo si evince dalle opere di Löwith. Questi fu critico radicale delle filosofie della storia: lo storicismo moderno, nella sua interpretazione, altro non è, se non l’immanentizzazione della visione escatologica-soteriologica di origine ebraico-cristiana.
Lo stesso Heidegger rimase impigliato in tale visione, in quanto pensò tanto l’esser-ci che l’essere, in termini di temporalità. La filosofia “naturalista” di Löwith ha, al contrario, matrice spinoziana: in essa la physis è l’esser-così delle cose, irriducibile, pertanto, a qualsivoglia approccio staticizzante. Anche Jünger, rileva Sessa, fu pensatore che tentò un recupero della dimensione “cosmica” della vita. In particolare, lo si comprende da quanto scrisse in merito alla concezione astrologica del temporalità, nella quale si manifestano continui Nuovi Inizi, tanto imprevedibili quanto imprevisti. L’ultimo capitolo del libro si occupa di Walter Benjamin, che il nostro legge alla luce della categoria dell’ “immemorare”. Benjamin ci ha insegnato che ogni passato custodisce un che di “inespresso”, che può essere riattualizzato, secondo modalità inusitate, nel presente. In tale prospettiva, il messia della tradizione ebraica è esperito dal filosofo quale azione messa in atto dal Possibile, che sovrasta la vita umana. In quanto tale, l’origine può tornare a darsi in modalità sempre nuove o, al contrario, essere definitivamente tacitata. Sessa sostiene che se il pensiero di Benjamin può essere definito materialista, esso non è affatto inquadrabile nel “materialismo storico”, semmai si tratta di “materialismo stoico”.
In questo volume, l’autore tenta di inaugurare un colloquio teorico tra il pensiero di Tradizione e gli autori su ricordati, il che rappresenta una novità. Ciò spiega la postfazione di Damiano, che esplicita in modalità esemplare il rapporto Evola-Klages. Un libro importante, quindi, che rintraccia una via lungo la quale il tradizionalismo può lasciarsi alle spalle il necessitarismo storico, esito di una lettura scolastica della “dottrina dei cicli”.
Giacomo Rossi