8 Ottobre 2024
Sport e Società

L’ego di Diego. Uno come noi – Lorenzo Merlo

La morte genera la vita: la scomparsa di Diego Armando Maradona ha generato una nazione composta di individui che altrimenti mai si sarebbero trovati insieme a piangerlo, a sentirne il vuoto, ad eleggerne il mito.

 

C’è un popolo che non sapeva di essere una nazione finché Diego Maradona non ha lasciato il corpo, la terra, la storia. È bastato un istante per radunare quelle genti eterogenee che mai avrebbero sospettato di potersi unire in un abbraccio necessario, sentito e voluto. Un gesto di concreta congiunzione, richiesto da quell’insorto senso di solitudine in cui Diego li aveva inattesamente lasciati. Quel popolo si è istantaneamente radunato in pianto, si è fermato, si è ritrovato in commossa preghiera. Quel popolo stava dimostrando la realtà immateriale dello spirito. Un istante dopo l’intimo cedimento, tutti i suoi individui si sono avvertiti corpo unico nella risonante celebrazione, nella simbolica santificazione, nell’elezione a suffragio universale, di uno come noi, a mito. Ed è accaduto senza diffusa, sconsiderata idolatria. Come se tutti fossero emancipati nei confronti del culto della personalità. Come se sapessero pienamente che non era Diego l’artefice di quanto li aveva ammaliati. Ma che, semplicemente, in lui si erano raccolte in un solo punto di forza tutte le invisibili linee della sorte necessarie all’eureka del genio del campo, mentre erano andate disperdendosi, più disordinatamente che in altri, quelle che le consuetudini sociali apprezzano ed ammirano.

“Fa più notizia l’addio a un uomo poco apprezzabile piuttosto che l’addio a tante donne violentate”. Frase evitabile? «La Pausini forse non sa che Maradona è stato molto di più del miglior calciatore della storia. Diego è un fatto sociale, è il riscatto dei poveri e degli ultimi. Se un’artista non se ne rende conto forse non capisce nemmeno dove vive».

Ci racconta il “suo” Maradona? «Ho avuto la fortuna di giocarci contro e di conoscerlo fuori dal campo. A me non frega niente del privato delle persone. Mi ha stregato da giocatore e mi ha emozionato come uomo. Diego trattava tutti allo stesso modo: presidenti, compagni di squadra, magazzinieri, massaggiatori, dirigenti, tifosi. Era unico». Da: Corriere dello Sport

Quella moltitudine eterogenea che lo spirito di Maradona ha coagulato in organismo comune non è composta solo dai compagni di squadra, da chi gli ha giocato contro, né da chi ha lo ha preso a modello ancora al tempo dei respiri e dei tacchetti. Vi si trova anche il giudice che lo ha condannato per frode fiscale e così i suoi colleghi di toga che, per altre colpe storiche commesse dal caro estinto, piangono, insieme ai mafiosi coi quali faceva spensierata baldoria, come il resto del suo – lo si può dire – popolo. Si avverte il senso caldo nel magistrato e nel picciotto, per averlo conosciuto, per averci parlato. Loro, stroncatori di vite per mestiere, compiono insieme il salto della storia per abbeverare il proprio spirito da una fonte pura. Quantomeno, non così corrotta da quelle comuni.

Il 25 novembre 2020, insieme al corpo sono svaniti i suoi eccessi accettabili e quelli deprecabili, (per andarci leggeri). Tuttavia, per una catarsi intellettualmente prevedibile ma comunque carnalmente sorprendente, non se ne è andato il suo sentimento. O meglio, per una trasmutazione magica come le sue giocate, è vivido in quegli uomini e in quelle donne per i quali Diego – contestualmente alla notizia della sua morte – ha rappresentato una sorta di purezza elevatrice dalle pesantezze della vita di tutti e a maggior ragione dei semplici. E lo ha fatto senza elevarsi su scranni e balconi, lo ha fatto vivendo senza il peccato della debolezza e della meschinità. Senza nascondersi, senza viltà. Con coraggio. Cioè con una modalità che affascina quel popolo così grande da comprendere tutti.

Quel giorno, passando l’ultima soglia, lo spazio lo licenziava dalla vita materiale e, contemporaneamente, il tempo lo accoglieva in quella mitica. Vive ora, possibilmente più di prima, nel regno mondato dalle debolezze, ovvero dalle premesse del cosiddetto lato peggiore dell’essere umano. La purificazione è stata istantanea. Già prima, c’era nei suoi confronti un’indulgenza piuttosto rara. Una diffusa disponibilità a chiudere un occhio sull’uomo affinché l’altro, fissato sul genio del calcio, non si perdesse una sola occasione per toccare la bellezza. La condiscendenza, un privilegio riservato a chi è una dimostrazione di se stesso più che ai bacchettoni che dimostrano saperi e morali. Un beneficio che non gli ha mai fatto credere d’essere superiore agli altri, che non gli ha dato diritto di arroganze e pretese. Che lo ha fatto comportare come un capitano altro dai suoi compagni. Senza lamento e senza vittimismo, ha pagato tutto e se non è tutto, tutto avrebbe pagato se qualcuno gli avesse presentato i conti ancora in sospeso. A volte, è sembrato che certe vicende amare siano state per lui un’endovena di intrugli guerrieri. La sua indipendenza non è mai venuta meno e così la sua spontaneità. Così, per amore e orgoglio ha messo la faccia e con essa, il suo inconsapevole peso politico, in vicende che normalmente intimano ai deboli di stare lontani. Come la vicenda delle Malvine e il diritto all’impiego della mano de dios per umiliare a sua volta, quasi lui da solo, gli inglesi e con loro i britannici; come l’abbraccio a Fidel Castro che era contemporaneamente un dissenso alle politiche estere degli Stati Uniti. O più semplicemente, a carriera giocata esaurita, partecipando sempre alle partite internazionali di beneficienza.

Portava la maglietta del Che e ora altri portano quella con il suo volto. Spesso è modificato affinché qualcuno ci veda il Che e altri vedano l’astro del calcio. Ma non è per inganno. È una celebrazione disegnata, simbolica, in nome della sua solidarietà con gli ultimi, quelli per cui Fidel e il Che hanno fatto del loro meglio. Che dalle t-shirt escano gli sguardi di Ernesto Guevara o di Diego Armando, una volta osservati e socchiusi gli occhi, entrambi ci mostrano il senso della libertà e la ragione per la quale possono sovrapporsi, mimetizzarsi dentro un solo volto. E per conoscere quella sensazione, forte come una scossa, leggera come una speranza, non serve studiare. Basta il nostro sentimento per giustificare che di verità si tratta, per giurare che sappiamo di cosa stiamo parlando. Di cosa serve all’uomo.

In tutti noi la dimensione razionale si afferma nell’infanzia. A volte si rinforza così tanto che, come un’aliena mano di Giger rinchiude l’infinito che siamo in poche norme socio-morali. Ci prende allora una patologia che ci estranea dalle doti profonde e potenti che abbiamo. Da creatori, ci riduciamo a esecutori. Ci riduciamo a credere che la realtà esista davvero al pari di un luogo dalle strade già tracciate. Un territorio mentale, in cui il solo obbligo e impegno per vantare autostima è seguirle. Per altri e per Diego emancipati nei confronti del canale amministrativo della vita, per quelli che si sono difesi da quella mano avvolgente, la vita è un campo dove ricamare arte. Forse è in questo il magnete al quale quel popolo si rivolge come segatura di ferro. Un punto di ammirazione per noi comuni e di non semplice gestione per chi lo rappresenta. Il degrado cocainico e il colonnello Kurz (Apocalypse Now) ce lo dicono.

[Prima che la ragione avvenga a dominare l’eros e la vis siamo nel pieno dell’attuazione della potenza. Senza rischio di scoraggiamento realizziamo forse la cosa più complessa dell’esistenza, imparare a camminare. In quel periodo nessun ostacolo costituisce un impedimento. Così accadrà ancora per qualche tempo, in cui una scopa è davvero un cavallo e una fiaba la formula magica per volare. Quell’età, in ambiente motorio e psicologico viene definita condizione psicomotoria. È un periodo della vita in cui nessuna mediazione interviene tra intenzione e azione, nessuna separazione tra pensiero e realtà. Psicomotorio è quel comportamento che rivela sempre la nostra intima condizione sentimentale. È una caratteristica delle emozioni che, anche negli adulti, si rivelano sempre attraverso le espressioni del corpo. È quell’abbraccio che saltando sul posto non esiti a rivolgere allo sconosciuto vicino di gradinata quando la tua squadra segna.] Superata l’infanzia si inizia a calcolare cosa fare e dire, si avviano le doti strategiche per ottenere lo scopo per le quali vengono messe in campo. È quello il bimbo che abbiamo visto in Diego più di quanto non si veda nella media delle persone. È lì che abbiamo sentito il fascino e il richiamo subliminale, che ci ha permesso di identificarci con lui nella spuma della vita, quella che così tanto la cultura ha castrato. Un meccanismo di identificazione che nulla ha di diverso da quello che accade al cospetto di certe pubblicità dove le caratteristiche del prodotto neppure appaiono nei titoli di coda, dove tutto è organizzato con un solo unico fine: emozionare. Infatti, alla faccia dei razionalisti, è sugli eterei ponti quantici delle emozioni che passano le comunicazioni. Non certo su quelli strutturati e presuntuosamente ritenuti perfetti e solidi della razionalità e della logica. Questi servono solo la superficie di noi stessi, quella dove si depositano i saperi cognitivi. In profondità, nel regno di ciò che è collettivo, sussistono altri ordini, assai più utili per comprendere gli uomini.

[Tutti noi, con sede neurale nella corteccia cerebrale, organizziamo il controllo neuromotorio, indispensabile coordinazione per tutti i gesti quotidiani e non solo. Tutti noi siamo soggetti ad automatismi neuro-motori che ci permettono di compiere gesti che, se pensati o scomposti in segmenti non saremmo capaci di creare o replicare a creazione avvenuta. Dunque, per l’apprendista pensare come eseguire per esempio una curva con gli sci o un palleggio con i piedi frena invece che accelerare la ri-creazione del gesto desiderato. Riducendolo alla sua struttura ritmica, per poi seguirla durante l’esecuzione del gesto in questione – come si fa ballando – si avvia l’affermazione di quei processi neuromotori chiamati automatismi sottocorticali. Circuiti privi di uno scheletro razionale, che permettono esecuzioni, personalizzazioni, prestazioni altrimenti impossibili. Chi più è estraneo a relazionarsi al mondo con atteggiamento di controllo e distanza, più si allontana dalla propria creatività naturale e da sé stesso. Cioè dalla linea genetica del suo successo nella vita.]

Ma l’ego di Diego è una formuletta facile e anche rappresentativa, ma sostanzialmente fuorviante. Per riconoscere il quid che ha fatto esclamare come un solo intonato canto di vuoto la sua nazione, è necessario non vedere cosa ha fatto in campo ma come ha potuto farlo.

Diego Armando Maradona era un esponente di quello che si intende per destrutturato. Una modalità di espressione che pone il suo punto di attenzione non sui particolari ma sull’insieme. Una modalità tutt’altro che razionale, spesso definita magica in quanto in grado di relazionarsi al tutto, in grado di sentire le energie del campo, di vederne le forze, quindi di essere preveggente. Come altrimenti interpretare molte sue giocate dove gli avversari sembrano recitare una parte della scena, piuttosto che apparire determinati ad impedire l’azione del 10 argentino.

Contrariamente all’idea lombrosiana, la sua struttura brevilinea celava un’intelligenza motoria immacolata. Una sorta di monolite puro totalmente adatto ad avvertire la realtà del campo di calcio in forma energetica, vibratoria. La sua azione poteva essere rappresentata da una sua relazione con il tutto nel quale si muoveva. Ragionamenti e idee, intenzioni e pretese erano per lui impedimenti alla percezione fine del mondo. Così coglieva il tempo per allungare la palla, coglieva su che piede poggiava il peso del difensore per scegliere la parte dalla quale superarlo, sentiva lo spazio libero e l’accorsa dei terzini. Vedeva la porta e aveva un pibe de oro.

La sua missione si compiva e la sua vita vibrante si è compiuta. Ne resta un fatto magico per molti, inspiegabile ma palpabile. È questo che vive e pulserà nel corpo della nazione di Diego.

Quel popolo non inseguiva l’ego di Diego ma lo spirito di libertà che lo ha attraversato.

Lorenzo Merlo ekarrrt – 011220

2 Comments

  • Ivano Macalli 6 Dicembre 2020

    Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, se mai di eroe si tratta. Certo, talento naturale, forse anche autoeducato e autoformato, ma non libero. La sua libertà da dove veniva? Dalla sua fragilità, dalla sua debolezza, da personaggio del mito, non della Storia. Nessun intento rivoluzionario credo, e certi accostamenti forse sono irriverenti. Irrazionale, istintivo, sanguigno con la gran fortuna di calciare benissimo che non è stata una conquista, in quel connubio di genio e sregolatezza che incanta proprio gli ultimi, ma affascina molto meno chi con consapevole tenacia persegue obiettivi che non richiedono solo grazia ricevuta, ma fatica, esercizio e che di vitaminiche frequentazioni fa a meno. Cosa rimarrà al popolo degli ultimi, pagani per necessità, quando del numero 10 rimarrà solo il ricordo da mausoleo? Un popolo unito? Quando mai un popolo unito ha evitato la Storia cercando appunto quel riscatto dalle miserie quotidiane? Cos’ha insegnato Maradona agli ultimi dello stadio? A sognare, certo, ma sognare cosa? Il successo, le donne, il denaro? Ma per quanti potenziali emuli sarà da proficua emulazione? Certo, le curve, il paganesimo, gli ultrà della politica che neppure sanno cosa sia, se intendiamo costruzione, bene comune. Non rimarrà nulla di questo mito, diseducativo, egotico, fallace, e se mai per alcuni o per i loro figli sarà un modello si dovrà ben distinguere tra i suoi vizi e le sue pubbliche virtù. Quindi non modello romantico di artista, ma artista di una solitudine disperata contro gli avvoltoi che beneficeranno della sua eredità o semplicemente ne indosseranno la matematica maglia destinata ben presto a finire in lavatrice. Nessun riscatto per gli ultimi del mondo pronti a ritornare nella miseria da cui provengono e a spegnersi come fuoco fatuo. Nessun egida da parte di Diego per questi ultimi che dopo il sogno ripiomberanno nell’incubo del quotidiano.

  • Ivano Macalli 10 Dicembre 2020

    Nei tg anche Paolo Rossi un eroe, dimenticando che difficilmente gli eroi muoiono nei loro letti di morte naturale, con tutta la compassione certamente, ma da qui ad inventare nuove mitologie ce ne vuole, e forse sarebbe sbagliatissimo. Senza il forse.

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