Il concetto contenuto nel titolo del presente saggio vuole rendere esplicito l’Evento, provvidenziale per l’Europa, della manifestazione (Epifania) di Roma quale irruzione dall’Alto e dell’Alto nel divenire, nella vicenda degli uomini, come Azione spirituale indoeuropea di natura rivoluzionaria che fonda la Civitas e il Diritto Pubblico occidentale.
Nei nostri libri[1] sulla cultura e la forma mentale giuridico-religiosa romana, sempre orientati verso le Origini, abbiamo infatti espresso, anche in forma implicita, la certezza, come fatto scientifico acquisito, che, in tutta la vicenda romana, il concetto del “Pubblico” è tutt’uno con il “Sacro” e che anzi tutto ciò che è riconducibile semanticamente a quella categoria appartiene alla sfera di quest’ultimo. Ciò non significa che per il modo di pensare e di vedere del Romano (dall’età arcaica sino al tardo Impero…) il “Pubblico” è sacralizzato, entrando, dopo la costituzione come tale, nella sfera del Sacro. Ciò d’altronde sarebbe stato già enormemente capace di generare legittimità e potenza, come è accaduto nella cristianità medievale (nella stupida ed insipiente “laicità” moderna sarebbe poi l’unica terapia capace di salvare il “pubblico” dalla lenta agonia a cui pare condannato a causa della metastasi cancerosa che lo ha colpito!…).
Non è in tali termini la questione! Nella Romanità è ancora più radicale! In essa infatti il Pubblico non può esistere se non come Sacro nel senso che, nel momento in cui si costituisce, il Pubblico si costituisce come Sacro e tutto ciò che è Pubblico è Sacro, nulla può esserci di Pubblico che non sia Sacro o di Sacro che non sia Pubblico. Insomma il Romano non può pensare alla categoria del Pubblico, alla sua stessa esistenza se non come conseguenza di una identità che è originaria e primaria, in termini logici e quindi cronologici, ed è la identificazione simultanea delle “due” sfere che solo i moderni, separandole a causa del dualismo cristiano, vedono per l’appunto in guisa duale. Dice infatti il Digesto: “sono sacre quelle cose che sono state consacrate pubblicamente: non le private” (1, 8, 6);
Digesto: “sono sacri quei luoghi che sono stati dedicati pubblicamente” (1, 8,9). Dice Gaio: “è ritenuto sacro soltanto ciò che è stato consacrato per iniziativa (ex auctoritate) del Popolo Romano, sia mediante legislazione (lege de ea re lata) che mediante Senatoconsulto” (2,5). Ancora il Digesto: “se uno volesse, agendo da privato, determinare qualche cosa di sacro per proprio conto (sibi sacrum constituerit) ciò non sarebbe sacro ma sarebbe profano” (1,8,9). Orazio precisa: “fuit haec sapientia quondam publica privata secernere, sacra profanis” (Ars, 394). Non può essere espressa in modo più chiaro ed esplicito la sapienza giuridico-religiosa dei Romani; nei brani su riferiti vi è la teoria dello Stato romano, nella sua ininterrotta continuità ideale e storica.
Prima di indagare i processi di nascita e consolidamento di tale “forma mentis“, è necessario avviare la ricerca sul significato o meglio sui significati, “stranamente” contraddittori, di alcuni termini che, sia nella lingua latina che in quella italiana, assumono valori semantici che divengono comprensibili solo alla luce di una logica tanto arcaica quanto dimenticata come la trama dialettica che ne è la “ratio”. Non sembri una digressione, quanto stiamo per esplicitare, nei confronti del discorso avviato innanzi; ne è invece la chiarificazione essenziale. Il termine “privato” in italiano, e quindi anche in latino (derivando quello da questo) assomma in sé due significati che hanno ognuno una valenza circoscritta ed altrettanto differente anzi contrapposta. Il primo significato di “privato” fa riferimento a tutto ciò che appartiene alla sfera di un soggetto o di più soggetti intesi come singoli a prescindere dalle prerogative sociali e politiche che sono loro proprie ed è un aggettivo; il secondo significato di “privato” vuol dire in pratica il contrario o quasi del primo: fa riferimento cioè a colui che manca di qualcosa, o colui al quale è stato tolto o sottratto qualcosa ed è infatti il participio passato del verbo “privare”; ambedue i termini derivano dal verbo latino privare il quale a sua volta deriva dal termine privus = che sta da sé, singolo.
Come è possibile che una stessa parola, che per giunta deriva dallo stesso termine latino, abbia, sia in questa lingua che in italiano, due significati tanto contrapposti? Il singolo quale titolare di diritti e di obblighi, di una sua libertà, proprietà e di tutto ciò che lo rende “civis” e quindi uomo libero in possesso di un complesso di realtà materiali e spirituali, come può essere nel contempo colui al quale è stato tolto qualcosa, colui che è stato “privato” di qualcosa e che quindi manca, è deficitario di qualcosa? È evidente che i due significati stridono tra loro ed entrano in conflitto.
È necessario tematizzare tali problematiche che, proprio perché mai affrontate, restano oscure apparendo pertanto di poco conto. Per trovare la ragione esplicativa di tutto ciò, dobbiamo introdurre l’esame di un ultimo termine, anch’esso avente la stessa radice etimologica ma due opposti significati: “profano”; significati conservati però, solo in latino e non più in italiano. Esso, infatti, come aggettivo, e cioè “profanus”, deriva dal verbo profanare che ha infatti due opposti significati: il primo si riferisce alla violazione del limite posto a difesa e tutela del Sacro, all’offendere tale sfera e alla violenza illegittima e quindi illegale insita in tale azione medesima; il secondo ha, sempre in latino, un significato radicalmente opposto, facendo riferimento infatti a ciò che è dedicato ad un tempio, ad un sacello e quindi in favore del Sacro! D’altronde profanare è una parola composta, essendo infatti frutto della combinazione di due voci: la prima è la proposizione pro e la seconda la parola fanum. Ora è noto che la prima è la proposizione che intende l’azione o l’atto “in favore di”, tanto che anche in italiano è rimasto tale significato (es.: parlare o agire “pro” o “contro” qualcuno o qualcosa.. .); la seconda, “fanum”, fa riferimento esplicito ed inequivocabile o all’edificio o al luogo sacro o che è in relazione con esso; tant’è vero che dalla stessa parola deriva l’aggettivo “fanatico” che in origine non aveva la carica negativa che in seguito ha assunto e significava solo: “colui che è vicino al Sacro o che è tutt’uno con quella sfera, essendone preso, avvolto ed investito”. Ci si chiederà, a questo punto, quale mai può essere la relazione tra tutto questo discorso e il tema del presente scritto.
È presto detto!
Gli opposti significati, le contraddittorie valenze di questi termini sono frutto e conseguenza di qualcosa di estremamente radicale e rivoluzionario che è avvenuto ai Primordi della Romanità, determinando al contempo la nascita della stessa e, quindi, della nostra civiltà giuridica e politica. Questi significati che, come residui superstiti di una grande battaglia culturale, nel senso antropologico del termine, troviamo in contrasto tra loro, tanto nella cultura latina ormai storica e matura quanto nella lingua, e così valendo anche per la lingua italiana, sono testimonianze probanti proprio di quella scelta spirituale, religiosa e politica, di quell’atto definitivo irreversibile che è avvenuto all’alba della Civitas romana, fondandola. Se non è chiaro tutto ciò, non può mai essere comprensibile la dialettica tipica romana su cui si fonda la logica che consiste nella polarità contrapposta tra, da un lato, i due termini: sacro e profano e dall’altro pubblico e privato, come abbiamo potuto constatare nelle citazioni precedentemente tratte dal Digesto e dall’ opera di Orazio. In tale dialettica è esplicitato il principio secondo il quale se il primo termine si contrappone al secondo, il terzo si contrappone al quarto e, per la proprietà trasmissiva dei valori semantici, il primo è abbinato al terzo ed il secondo al quarto. Questa logica che è l’essenza della mentalità giuridico-religiosa dei Romani è il risultato di quella scelta a cui accennavamo. In che cosa è consistita tale scelta? E come coincide con la fondazione della Civitas? È ormai acquisito, dalla storiografia più recente delle Istituzioni Pubbliche Romane, che, anteriormente all’emergere della Città e cioè prima che fosse costituita la Civitas come complesso religioso, politico e giuridico dei cives e cioè Populus, tutto ciò non esisteva poiché non ve ne era la coscienza. Il “pubblico” non era ancora comparso all’orizzonte della vicenda umana delle popolazioni, di ceppo prevalentemente indoeuropeo, che abitavano l’area ed i colli su cui sarebbe sorta l’Urbe. I Latini, pastori e guerrieri, i Sabini di cultura cerealicola, erano costituiti in realtà politico-giuridiche separate, in villaggi autonomi dove ognuno di essi aveva il suo fanum cioè il suo tempio o sacello, luogo sacro dedicato alla Divinità protettrice del villaggio medesimo o pagus. Se vi era una comunanza tra tali realtà autonome consisteva solo nella coscienza della comune origine dalla medesima stirpe e quindi nella presenza e nel riconoscimento del Nume tutelare della stessa che è da individuare in Giove Laziare (Jupiter Latiaris). In questo contesto la dialettica di cui sopra non può sussistere poiché le idee stesse di “pubblico”, quanto quella di “privato”, non hanno ragione d’essere; poiché il “pubblico” come realtà culturale ancora non esiste.
L’unica dialettica presente è quella pro-privus (da cui deriva l’italiano “proprio”) cioè “a favore del privus” quindi del singolo e pro-fanum cioè “a favore del fanum”. Il sacro, pertanto, in tale momento storico si identifica esclusivamente con il pro-fano, nel senso di quel qualcosa o qualcuno che è a favore del fanum, cioè del tempio del villaggio, dove l’unica forma larvale di autorità è riconducibile alla figura del pater delle gentes, cioè dell’insieme delle famiglie costituenti il medesimo villaggio, vigendo tra le stesse lo ius gentium, che è lo jus sanguinis.E’ evidente come in questa fase antropologica non vi sono contrapposizioni e diversificazioni di significati ideologico-linguistici, dove, infatti, la parola “profano” assume e possiede l’unico senso che è quello arcaico risalente alla sua stessa etimologia.
Certamente vi è stato un momento fatidico, in cui un’Aristocrazia di ceppo Latino e quindi indoeuropeo guidata da un Eroe eponimo, carico di carisma religioso e politico (e su ciò ormai la storiografia ultima non ha dubbi…) ha realizzato qualcosa di autenticamente inaudito, modificando integralmente l’intero assetto socio-culturale dell’area dei colli e della pianura, introducendo una nuova cultura che coincide con l’idea e la fondazione concreta di una prima organica comunità.
Roma nasce quando i “soggetti” costituenti i villaggi vengono “privati” del loro diritto religioso e giuridico relativo alla loro appartenenza esclusiva a quel fanum a cui è dedicato il villaggio e, diametralmente ed in opposizione a ciò nonché contestualmente, quando tutti questi soggetti che sono stati privati e che sono ormai tali, assumono la Coscienza di essere divenuti qualcosa di straordinariamente nuovo: di essere divenuti Populus, di appartenere ad una Comunità vivente ferreamente sentita come un tutto organico di natura essenzialmente Sacra,avendo e riconoscendo come propri gli Dèi poliadi (cioè della ormai nata Città) quali quelli costituenti la Triade Arcaica: Juppiter, Mars, Quirinus. È emersa la realtà del “Pubblico”, termine che deriva dall’arcaico latino pòplikos, da cui populus: significando tutto quanto di materiale e di spirituale fa riferimento al Popolo. L’intera sfera del “sacro” che apparteneva ai singoli pagi viene a coincidere, costituendolo, con il “pubblico”; la realtà del “privato”, a cui è stato tolto ogni carattere sacro, resta limitata e quasi emarginata nella sua prisca sede che è quella del “pro-fano”. Tale termine in questo preciso momento assume in netta prevalenza il significato più recente di esclusione del Sacro o, comunque, di estraneità allo stesso. Nella familia romana dei tempi storici, infatti, che pur dovrebbe essere luogo di dominio del cosiddetto “diritto privato”, la figura del pater familias è tanto arcaica quanto più pubblica che privata ed i sacra che egli amministra e di cui è sacerdote, sono i residui di quello di cui è stato “privato” ed assumono nei confronti dei Sacra Publica una valenza estremamente affievolita ed una potestas di esercizio limitata alle sole mura della domus. Questa è la logica fondatrice di cui parlavamo all’inizio, esposta nella sua dialettica: al Sacro della Città corrisponde il Pubblico come al profano dei singoli corrisponde il privato. E sono così chiarite le ragioni per cui termini come “privato” e “profano” hanno conservato quei significati contrapposti proprio perché sono fatti probatori nonché effettuali a quella primigenia scelta culturale fondativa dell’Urbe. Nella sua ratio la logica sottesa a tale dialettica nonché alla visione del mondo dalla quale proviene, essendone peraltro l’essenza più intima, è tanto evidente che è sufficiente esplicitare solo il senso profondamente occidentale ed indoeuropeo della Rivoluzione spirituale che diede vita alla Romanità. Con essa, infatti, è nata l’idea stessa del Diritto Pubblico, nel senso europeo del termine, che è da identificare con il Popolo e da ricondurre nella sfera del Sacro; la categoria spirituale del diritto pubblico è solo europea: nella storia culturale dell’Oriente non è mai esistita! Nel preciso momento in cui è avvenuta tale scelta, che è coincisa con l’alba della civiltà europea e con la sua Idea di Res Publica, si è manifestamente affermato il principio categorico e fondamentale della cultura giuridico-religiosa e politica dell’Occidente, secondo il quale ciò che crea e fonda la comunità, la Città, la Civitas (come insieme di jura, ordinamenti, officia…) nonché la carica di Auctoritas e cioè di potenza, di legittimità delle leggi e del loro Imperium su tutti i cives (cioè sui privati) è il Sacro quale Forza cosmica che proviene dall’Alto con il quale, mediante la Sapienza e le tecniche giuridico-religiose del Rito (diritto Pontificale, diritto Augurale, diritto Feziale, ed osservanza scrupolosa degli obblighi inerenti la Religio come culto dovuto agli Dèi) è vitale stipulare ab initio il patto fondativo della stessa Città cioè la Pax Deorum che significa l’acquisizione del consenso o comunque la non opposizione degli Dèi della Città ad ogni sua azione nella storia che perciò diviene legittima e quindi legale. Da ciò discende la norma primaria del Diritto Pubblico Romano (e quindi di ogni Diritto Pubblico tout court…): la “costituzione”, gli istituti, le magistrature, i sacerdozi, le assemblee comiziali del Popolo, i comandi dello stesso, le Leggi, le Sentenze-decisioni del Pretore, i plebisciti come fonte normativa della Plebe, riconosciuti validi ed efficaci per tutta la Comunità, i Senatoconsulti, sono tutte realtà giuridico-politiche del Popolo Romano e quindi Sacre (la Res Publica è pertanto Res Sacra); sono la sua Voce, le sue Membra, la sua Mente e Volontà e non può esistere coscienza del dovere, dell’officium, inteso in guisa religiosa, obbedienza cosciente ed amore lucido verso la “cosa di tutti” = res publica, se la stessa non è sentita come sacra, inviolabile e quindi santa, che significa sancita, difesa cioè nei confronti di ogni offesa proveniente essa sia dall’interno che dall’esterno. Non può esistere il Popolo se lo stesso non ha consapevolezza della sacralità delle sue Istituzioni, poiché, in caso contrario, la legittimità del comando viene meno e non solo. Non può sussistere infatti il senso stesso della Comunità di Destino, dell’appartenenza allo stesso progetto di civiltà di cui si è attori, tutti, tanto i morti come antenati-protettori quanto i vivi come testimoni della volontà di quelli. Si regredisce, in tale ipotesi, alla fase dei singoli, dei privati, nel significato prepolitico di cui si è trattato ed è la fine medesima ed irreversibile di ogni traccia di esistenza di quella Comunità come Popolo. D’altronde ciò è puntualmente accaduto nella stessa romanità, in coincidenza con il tramonto della sua civiltà, come se essa fosse tornata alla fase prenatale. Quando, infatti, nel corso del tardo IV sec. ed inizi del V sec. d.C., nella lunga agonia dell’Autorità Imperiale e delle sue istituzioni, il pubblico ritornò allo stato larvale, riemerse il privato, che assunse anche forme di cogenza politica, che si incarnarono nelle figure dei grandi proprietari terrieri muniti di loro milizie private, i quali esercitavano una sovranità, ormai di fatto suppletiva di quella imperiale, sui loro territori. È la fase del primo feudalismo e ciò coincideva, e non casualmente, con il ritorno del Sacro nella domus o nei villaggi, pagi (da cui la parola paganesimo = religione dei pagi...); ciò per quanto concerneva l’antico culto degli Dèi. Il cristianesimo, invece, come nuova religione divenuta dominante era, per sua intrinseca natura, limitata alla sola sfera intima del soggetto, in rapporto personale con il suo Dio. Tale soggetto è inteso come un privato la cui anima appartiene alla civitas Dèi, avendo già, il cristianesimo medesimo, provveduto a desacralizzare radicalmente il Pubblico nel momento in cui, sia con il rifiuto del titolo di Pontefice Massimo operato dall’Imperatore Graziano che con i decreti imperiali emessi da Teodosio I e dai suoi successori, aveva vietato non solo il culto degli Dèi ma che lo Stato provvedesse a sue spese alla conservazione ed al mantenimento dei sacerdozi e dei Sacra pubblici i quali, in quel preciso momento ed a causa di ciò, venivano declassati a privati e lo Stato, rescisso il patto con gli Dèi (pax deorum), si avviava a divenire una realtà laica del tutto staccata da ogni legame con il Sacro e, pertanto, una pura ed anodina gestione del potere. Era nata la ideologia moderna dello Stato, che poi Hobbes e Machiavelli non hanno fatto altro che sistematizzare. Tale concezione si è imposta con il tramonto del concetto r
omano del Diritto Pubblico che è coinciso con lo strappare allo stesso la sfera religiosa del Sacro, privandolo della sua anima e quindi della sua legittimità; abbandonandolo, pertanto, alla fredda legalità, foriera sempre di violenza e di ingiustizia insite in questa quando si sia uccisa quella. Tutto questo discorso non può non indurre a riflettere sulla straordinaria somiglianza, nel senso di analogia, tra quel processo di decadimento del Pubblico, del Popolo e del Sacro e quindi del Diritto che in sostanza determinò la fine della Romanità e cioè della Civiltà Classica, e quanto sta accadendo nel nostro tempo. La pervicace guerra ideologica contro l’Autorità, la delegittimazione di ogni parvenza di imperium, la concezione dello Stato come Ente astratto senza anima, senza idee, senza progetto, che si limita ad amministrare e gestire (come una qualsiasi azienda.. .), la società, intesa come un enorme agglomerato di contratti di affari, rescindibili e risolvibili utilitaristicamente in ogni momento, hanno condotto, nel corso degli ultimi due secoli, all’attuale declino dello Stato nonché dello stesso concetto di Pubblico che, ormai, nella coscienza comune viene identificato come il nemico! In questo contesto, proprio come agli inizi del Medioevo e dopo la fine dell’ecumene romano, avanza prepotente ed onnipervadente l’ideologia e la prassi del privato, cioè dell’utile del singolo senza alcuna “religione” che non sia il suo particolare interesse, morendo così la società come Comunità organica legata da un rapporto funzionale e vivente. Pertanto la pur minima parvenza di pubblico, dopo la sua criminalizzazione, complice la inevitabile corruzione dello stesso a causa della scomparsa di ogni sua etica superiore, deve essere ridotta e modificata in privato: ed è l’attuale folle corsa, vera ubriacatura di massa, verso le cosiddette privatizzazioni! Tale fenomeno è solo in apparenza esclusivamente economico: ogni processo sociale sia esso giuridico, economico o religioso, ha come fonte di creazione e di promozione una ben precisa ideologia, intesa come complesso di idee, convinzioni, opinioni diffuse ed enormi interessi consolidati che si espande in ogni parte dello stesso complesso sociale. Insomma con la nostra civilizzazione, ed a causa della stessa quale era economicistica, ci stiamo avviando verso la fine dello Stato nazionale così come è sorto agli inizi dell’ età moderna. Ed anche qui l’analogia con quanto accadde nel cosiddetto Medioevo è semplicemente sconvolgente: ora come allora, al posto del Pubblico che tramonta si ergono Poteri privati di una potenza economico-finanziaria spaventosamente enorme i quali quasi come nuovi feudatari con capacità di azione però a livello planetario ed ispirandosi all’ideologia politico-religiosa del capitalismo e del Mondialismo, progettano di costituire un loro “impero” globale da imporre a tutto il pianeta: e, ripetendosi ciclicamente la vicenda umana, tale “impero” sarebbe la copia scimmiesca di quello che fu, nel Medioevo, il Sacro Romano Impero.
Tutto ciò è quanto appare in questi tempi e forse in quelli che verranno. Noi, per quello che ci riguarda, non è lecito che si dimentichi che la nostra Tradizione e la nostra Origine, come anima dell’Occidente, sono tutte racchiuse in ciò che Roma e il suo Diritto ci ha insegnato.
Nell’ essenza tale discorso, per chi voglia intenderlo, può essere espresso in questa constatazione: la storia della Romanità è esclusivamente storia del suo Diritto Pubblico, è storia giuridica e cioè della Costituzione Romana e quindi è storia, nella dimensione del Sacro, delle istituzioni che il Popolo Romano si è dato con il consenso degli Dèi.
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