17 Luglio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, centocinquesima parte – Fabio Calabrese

Non abbiamo finito con il 2022, e neppure con il mese di novembre, infatti, dopo un periodo estivo relativamente povero di notizie riguardanti la nostra eredità ancestrale, nel periodo autunno-inverno, esse hanno assunto un ritmo torrenziale e, come avete visto, non è bastato dedicarmi interamente ad esse per tutta l’ultima parte dell’anno, dalla metà di novembre in poi.

Ricominciamo con una notizia del 22 novembre che viene da MSN.com: un gruppo di ricercatori dell’Università di Göteborg in Svezia ha fatto una scoperta abbastanza singolare: sovrapponendo la mappa delle strade romane in Europa alle foto satellitari notturne che evidenziano le zone illuminate (considerando l’intensità dell’illuminazione un indicatore abbastanza attendibile dello sviluppo economico), si vede che le strade romane collegano proprio le aree maggiormente sviluppate del nostro continente. In altre parole, questi nostri antenati hanno dimostrato un notevole intuito nel capire quali aree erano suscettibili di maggiore sviluppo economico. Quanto più li conosciamo, tanto più ci sorprendono, e cresce il nostro rispetto per loro.

Ciò di cui mi occupo ora, forse alcuni di voi lo giudicheranno un “uscire dal seminato”, ma io non sono di questa idea. Infatti, stavolta non parliamo di preistoria, di antichità e neppure di medioevo, ma della nostra storia recente, recente e dolorosa, ma forse che non sono nostri antenati, e a maggior ragione, oltre a quelli lontani nelle nebbie del tempo, quelli separati da noi da una o due generazioni?

Parto da una comunicazione del 23 novembre di Gianfranco Drioli. Drioli non è solo l’autore degli splendidi libri Ahnenerbe e Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta (entrambi edizioni Ritter), ma è anche il presidente della sezione triestina dell’Associazione d’arma dei Lagunari, e in questa veste ha recentemente assistito a una cerimonia privata, con la quale la Croazia ci ha restituito (dopo oltre tre quarti di secolo!) le spoglie di caduti italiani riesumate nella località oggi croata di Ossero. I resti sono stati ora affidati al Dipartimento di Medicina Legale dell’Università di Trieste allo scopo di tentare, se possibile, un’identificazione.

Un ulteriore tassello che si aggiunge al quadro che ormai ben conosciamo, dell’immane tragedia subita degli italiani del confine orientale nel 1943-45 e anche negli anni successivi. Non si tratta infatti dei resti di caduti in combattimento, ma di militari della Decima Mas e della Guardia Nazionale Repubblicana che, dopo essere caduti prigionieri dei partigiani comunisti jugoslavi, sono stati brutalmente assassinati in totale spregio alle convenzioni internazionali di guerra.

Una volta di più, si ripropone un quadro che ben conosciamo: la verità incontrovertibile è che i cosiddetti “fascisti” hanno difeso l’italianità delle nostre terre fino all’ultimo, mentre i partigiani comunisti jugoslavi hanno cancellato la presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico con una violenza brutale di cui i comunisti cosiddetti italiani sono stati spesso complici, e la repubblica postbellica, democratica e antifascista porta la macchia indelebile di vergogna di essersi resa connivente, occultando per decenni ai nostri connazionali la tragedia degli italiani del confine orientale.

“Partigiano”, questa parola osannata dalla democrazia antifascista è in realtà sinonimo di inaudita, brutale violenza e odio verso tutto ciò che è italiano.

Mi stacco da tutto ciò con un certo sforzo per tornare a tematiche più congeniali a questa serie di articoli. Ricomincio con il segnalare un’uscita libraria. Per i tipi della Bollati-Boringhieri è stato recentemente pubblicato il testo di Harald Haarmann Sulle tracce degli Indoeuropei che reca il sottotitolo Dai nomadi neolitici alle prime civiltà avanzate, e aggiunge ancora, sempre in prima di copertina: Uno studio imprescindibile che getta luce sulla protolingua indoeuropea e sulle nostre origini comuni.

Con una presentazione di questo genere, c’è da aspettarsi un testo alquanto succoso, e in effetti il libro compie un’operazione alquanto inedita, incrociando i dati forniti dalla linguistica, dall’archeologia, dalla genetica, mentre sappiamo che di solito gli specialisti di queste discipline tendono ad andare ciascuno per conto proprio, giungendo spesso a risultati contrastanti. Il quadro che ne emerge presenta non solo una ricostruzione della protolingua indoeuropea, ma vuole rispondere alla domanda perché le lingue indoeuropee si siano diffuse in un tempo relativamente breve dall’estremità occidentale dell’Europa al golfo del Bengala, e in che modo le varie culture a cui gli Indoeuropei si sono sovrapposti abbiano influito sulla differenziazione delle lingue indoeuropee stesse.

Proprio per non farci mancare nulla, segnaliamo anche un convegno sulle tematiche antropologiche ed etnografiche: giovedì 24 novembre a Mesagne (Brindisi) la “Presentazione del X laboratorio di antropologia sociale e visuale” che ha per tema Il viaggio, esplorazioni, migrazioni, etnografie. La manifestazione è organizzata da LASEV, Laboratorio di Antropologia Sociale e Virtuale, dall’Associazione Giuseppe Di Vittorio, e da DADA, rivista di Antropologia Post-Globale. Recentemente vi avevo segnalato con soddisfazione l’interesse nell’ambito del Veneto per le nostre tematiche. Fa piacere costatare che ogni tanto qualcosa si muove anche al sud.

Vediamo cosa ci offre in questo periodo “Ancient Origins”. Possiamo vedere che continua la rassegna sulla mitologia classica, ormai giunta a un livello notevole di completezza e di articolazione. Un articolo del 22 dicembre di Dhwty ci parla delle sirene, e della strana metamorfosi subita nel tempo da queste creature fantastiche da donne-uccello a donne-pesce, senza scordarsi di menzionare il loro incontro con Ulisse raccontato nell’Odissea.

Un articolo, sempre del 22 dicembre, di Salex Leigh, ci riporta su un tema propriamente archeologico, non si tratta per la verità di una scoperta recente, ma che risale a quasi un secolo fa, tuttavia assai poco conosciuta, l’elmo d’oro di Cotofenesti. Nel 1929, nel villaggio romeno di Poiana Cotofenesti un bambino, Traian Simion, ritrovò casualmente un antico elmo o casco d’oro finemente lavorato. Studiando le elaborate decorazioni presenti su di esso raffiguranti scene mitologiche, gli archeologi hanno stabilito che si tratta di un elmo tracio, appartenente in particolare alla cultura della popolazione tracia dei Geti. I Traci nell’antichità erano famosi come combattivi guerrieri ed eccellenti metallurghi, le due cose erano strettamente collegate in quanto l’arte della metallurgia era prevalentemente dedicata alla produzione di armi e armature.

Un reperto importante, perché, se conosciamo bene il modo antico greco-romano, degli antichi popoli europei situati immediatamente oltre i suoi confini, sappiamo in effetti molto poco.

Il 24 novembre ci arriva una notizia da MSN.com di provenienza cinese: nella provincia dello Shandong situata nella Cina orientale, è stato scoperto un sito paleolitico risalente a un’età provvisoriamente stimata tra 50 e 30.000 anni fa. Dal sito sono emerse lame e raschiatoi di selce e di quarzo, e molti resti di grandi animali che erano probabilmente cacciagione e avanzi di pasti. Una scoperta, sarebbe superfluo dirlo, che rafforza le posizioni di coloro che vedono le origini dell’umanità in Eurasia piuttosto che in Africa.

Segnalo poi che il 21 novembre (ma il filmato è comparso su You Tube un po’ più tardi, il 25), l’emittente TVCity ha mandato in onda per la serie “Oltre la storia”, I misteri della civiltà megalitica, un’intervista con l’ingegner Felice Vinci sul suo nuovo libro che segue a Omero nel Baltico. Secondo Vinci, le prove archeologiche come i megaliti, unite a quelle fornite dalla linguistica, dai miti e dalle tradizioni di popoli sparsi in ogni parte del mondo, indicherebbero che 12-13.000 anni fa sarebbe esistita una civiltà planetaria globale, poi cancellata dai cataclismi che hanno contrassegnato la fine dell’età glaciale.

Forse non dovrei dirlo, ma qualche giorno prima avevo postato su Facebook un commento sullo stesso tema rilevando come alla stessa conclusione di Vinci sono giunti indipendentemente altri due ricercatori “fuori dagli schemi”, Graham Hancock e Roberto Giacobbo, e questo ne rafforza la credibilità e impone di prenderla in seria considerazione.

Sempre il 25 novembre, l’edizione on line de “Il Giornale”, poi ripresa da MSN.com, ha pubblicato un articolo di Luca Bocci su Vetulonia, la città scomparsa e ritrovata.

Questa antica città, situata tra Grosseto e Castiglion della Pescaia, era in epoca preromana una delle più potenti città stato etrusche, al punto da rivaleggiare con Cartagine e con l’emergente potenza romana. Distrutta dai Romani, scomparve letteralmente dalla storia, se ne perse il ricordo, fino a quando in epoca moderna, il casuale rinvenimento di una moneta antica in un campo, portò alla scoperta dei suoi ruderi.

Il 26 novembre MSN.com torna a occuparsi di quella che sembrerebbe essere la scoperta archeologica dell’anno, almeno per quanto riguarda l’Italia, vale a dire i ben 24 bronzi risalenti a un periodo tra il I secolo avanti Cristo e il secondo secolo dopo Cristo riemersi dal fango della piscina votiva di San Casciano dei Bagni (Siena). Le novità importanti rispetto a quanto già rilevato in precedenza, sono due. La prima è che accluso all’articolo c’è un servizio fotografico in cui i bronzi compaiono assieme agli uomini che li hanno recuperati, e questo permette di farsi un’idea delle loro effettive dimensioni.

In particolare cinque di queste statue non hanno certo la taglia di figurine da presepe, ma sono alte poco meno di un metro, il che rende il confronto che è stato fatto con i bronzi di Riace niente affatto improponibile. L’altra novità è che sono state trovate delle iscrizioni in lingua etrusca, fatto che ci testimonia che l’uso di questa lingua è continuato nell’età romana ben oltre quanto finora si pensasse.

Facciamo ora un tuffo nella remota preistoria, difatti è lì che ci porta un altro post di MSN.com del 27 novembre, stavolta ripreso da Lol.news che ci parla dei nostri cugini (e parzialmente antenati) uomini di Neanderthal. Ricercatori della John Moores University di Liverpool hanno esaminato col microscopio elettronico a scansione i resti di una “focaccia” vecchia di 70.000 anni rinvenuta nella grotta irachena di Shanidar non distante da Bagdad, e scoperto che essa era composta di legumi, noci e semi macinati e cotta sul fuoco o su pietre roventi, anche se non presenta tracce di lievitazione.

Si è così potuto stabilire che, contrariamente a un diffuso stereotipo che lo vorrebbe un carnivoro quasi puro, i vegetali costituivano una componente importante della dieta dell’uomo di Neanderthal, non solo, ma che era abbastanza intelligente da saper usare il fuoco per cucinare.

Meglio conosciamo questo nostro lontano predecessore, più ci appare simile a noi.

A questo riguardo, sarà senz’altro il caso di menzionare il fatto che il 25 novembre è stato postato su You Tube un video intitolato Neanderthal da Nobel, paleogenomica e archeologia. Il passato per comprendere il presente, video che è il filmato di una conferenza del professor David Caramelli dell’Università di Firenze, tenuta a cura del Museo di Antropologia ed Etnologia dell’Università di Firenze e dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria.

L’oggetto, non è difficile da comprendere, è il recente Premio Nobel per la medicina assegnato a Svante Paabo, fondatore della paleogenetica, ossia lo studio del DNA antico, a cui si deve, tra l’altro, la scoperta della componente neanderthaliana presente nel DNA di tutti noi a eccezione dei subsahariani. A mio parere, si è trattato di un Nobel meritatissimo, andato a premiare un vero scienziato, soprattutto se pensiamo ai Nobel assurdi che in un passato recente sono stati assegnati in altri campi, dalla pace alla letteratura, ma questo non toglie che più di qualcuno abbia storto il naso: cosa c’entra la paleogenetica (o paleogenomica) con la medicina che si occupa di persone viventi oggi?

Quindi, ben venga il professor Caramelli a spiegarcelo.

Non si tratta soltanto del fatto che la vulnerabilità ad alcune patologie che ci affliggono ancora oggi, può essere messa in relazione con l’eredità genetica neanderthaliana, ma in generale nulla può aiutare non soltanto la medicina, ma la scienza in quanto tale, più di una comprensione precisa di ciò che effettivamente siamo.

Come avete visto, questa volta ci troviamo in una situazione alquanto insolita, mentre i siti a cui di solito faccio riferimento, come “Ancient Origins”, “The Archaeology News Network”, “The Archaeology Magazine” (stranieri), “ArcheoMedia” e “L’arazzo del tempo” (italiani), ci hanno offerto veramente poco, “Ancient Origins” un paio di articoli appena, e gli altri nulla affatto. Dopo un’esplosione di notizie grosso modo intorno al periodo dell’equinozio autunnale, sembra ripetersi la scarsità di notizie che ha caratterizzato questa estate (e a cui ho posto rimedio, per salvaguardare la continuità di questa serie di articoli, con alcune parti tampone, come la novantunesima “di ripasso” degli articoli archeologici che per un verso o l’altro non erano comparsi in L’eredità degli antenati, o la novantatreesima, un vero e proprio “speciale Michele Ruzzai”).

Naturalmente, si tratta di una scarsità relativa, perché questi siti hanno continuato perlopiù a occuparsi di piramidi egizie e maya, di Medio ed Estremo oriente, di culture polinesiane e amerindie precolombiane, tutte cose che ho lasciato fuori, perché non riguardano la nostra civiltà europea.

Dite che la mia è una scelta ideologica? Ebbene, non vi ho mai nascosto che lo è.

In contrasto con ciò, abbiamo trovato un florilegio di notizie su MSN.com e anche su un sito “istituzionale” come quello dell’Università di Firenze, dove è possibile trovare la notizia della conferenza del professor Caramelli sulla paleogenomica.

Singolare, considerando che MSN.com è un network generalista. Forse una scoperta importante come quella di San Casciano dei Bagni avrà fatto loro sperare in un risveglio nel grosso pubblico dell’interesse per il passato. Apprezzabile, ma dubito funzioni. Se vi fermate a parlare con la gente che incontrate per strada, scoprite che è assai meglio informata sui mondiali di calcio in Qatar, dai quali peraltro l’Italia è esclusa.

Adesso però prescindiamo dal discorso sulle fonti, ed evidenziamo cosa abbiamo visto di nuovo: soprattutto di ritrovamenti dello Shandong, che evidenziano una presenza umana in Asia centrale più o meno contemporanea alla presunta uscita africana secondo l’Out of Africa. Davvero, per arrivare in tempi rapidi a percorrere una distanza simile, i nostri antenati sarebbero dovuti essere degli Speedy Gonzales. Cosa dire poi del fatto che gli uomini di Neanderthal non solo, come abbiamo visto la volta scorsa, usavano il fuoco per cucinare, ma preparavano addirittura focacce come quella rinvenuta nella grotta di Shanidar? È chiaro che erano umani quanto noi, tra noi e loro non c’era una differenza di specie ma (uso una parola che riempie di terrore i democratici) di razza. E allora che significato ha voler sostenere che l’uomo sia “uscito dall’Africa” qualche decina di migliaia di anni fa, se era già presente in Eurasia da centinaia di migliaia di anni?

Nel momento in cui chiudo questo articolo, siamo a fine novembre 2022, ma voi lo leggerete a febbraio-marzo 2023, c’è un “collo di bottiglia” che questi articoli faticano a passare, ma in ogni caso è un male minore rispetto alla prospettiva di rimanere a corto di materiale. Io, in ogni caso, finché potrò, sarò qui ad accompagnarvi nel viaggio nelle nostre origini.

 

NOTA: Nell’illustrazione: le rovine di Vetulonia (da MSN.com).

 

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