11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, cinquantaduesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro esame dell’eredità ancestrale dalla metà di gennaio 2021. Io, onestamente, non so quando queste note compariranno sulle pagine di “Ereticamente” nonostante siamo passati, prima a un ritmo settimanale di due articoli de L’eredità degli antenati e uno di argomento vario e poi nei mesi di novembre e dicembre esclusivamente a L’eredità degli antenati, le “code” del 2020 sono state ancora molto lunghe, praticamente tali da tenerci impegnati tutto l’inverno, perché l’anno passato, come avete visto, pandemia o no, è stato estremamente ricco di scoperte e notizie, tale da imporci davvero di ripensare quanto credevamo di conoscere circa il nostro remoto passato.

L’abbiamo visto più volte, se c’è una regione italiana che ha un’archeologia preistorica e protostorica tanto ricca quanto poco conosciuta, un patrimonio megalitico fra i più notevoli, è con tutta probabilità la Sardegna, l’antica Icnussa, di cui qualcuno ha persino proposto l’identificazione con Atlantide.

Il 6 gennaio è comparsa una nuova pagina facebook di argomento archeologico: “Gli ultimi nuragici”, si tratta di una pagina creata per pubblicizzare un docufilm dedicato all’ancora così poco conosciuta cultura preistorica-protostorica dei nuraghi, Radici di bronzo, la terra dei sardi di Andrea Loddo. Lo stesso Andrea Loddo è l’amministratore della pagina.

Che dire? Solo che qualsiasi iniziativa che ci aiuta a comprendere meglio il nostro passato e la nostra identità, è sempre la benvenuta.

Rimaniamo per il momento in Sardegna. Sul gruppo facebook “Il pianeta delle scimmie: archeologia, storia, ed enigmi irrisolti”, il professor Leonardo Melis ha pubblicato un articolo sui giganti di Mont’e Prana, queste statue gigantesche, la cui datazione oscilla fra il XIII e l’VIII secolo avanti Cristo e che in ogni caso rappresenterebbero il più antico esempio conosciuto di statuaria europea di grandi dimensioni.

Una cosa che colpisce, sono gli occhi tondi, assolutamente non naturali di queste statue. Melis avanza un’ipotesi: i personaggi raffigurati indosserebbero delle maschere, degli elmi-maschera simili a quelli dei gladiatori dell’età classica, e le loro statue dovevano costituire la decorazione di un’antichissima palestra gladiatoria. Di certo, sappiamo che gli antichi Romani con la loro passione per l’arte gladiatoria, erano gli eredi di una tradizione già molto antica ai loro tempi, tanto è vero che la parola che designa l’allenatore di questi spettacolari combattenti, lanista è una parola etrusca. Qualcosa che è forse marginale, ma che ci fa capire quante cose ancora ci sfuggono del nostro remoto passato.

L’11 gennaio “Lo scarpone” notiziario del Club Alpino Italiano dedica un articolo a firma di Massimo (Max) Goldoni a L’arte che nacque nella montagna. È un fatto sul quale raramente ci soffermiamo, eppure è innegabile che le prime manifestazioni artistiche che conosciamo sono perlopiù pitture (ma anche incisioni) rupestri poste su pareti rocciose o all’interno di caverne situate nei fianchi montani solitamente ad alta quota, è come dire che l’arte è nata in montagna. Questo vale per l’Europa ma non solo, e Goldoni porta l’esempio di un antichissimo, ampio ciclo di pitture rupestri recentemente ritrovato in Colombia.

Sorprende poi piacevolmente la notizia che una visita alle pitture parietali paleolitiche della grotta di Altamira entusiasmò Pablo Picasso che al termine di essa commentò: “Tutto il resto è decadenza”.

Proseguiamo con una notizia di mercoledì 13 gennaio: “The Archaeology Magazine” ci parla in quelle data di un ritrovamento avvenuto in Gran Bretagna, notizia ripresa dal “Northampton Chronicle & Echo”, secondo la quale i ricercatori del Museum of London Archaeology avrebbero individuato nelle East Midland inglesi i resti di un insediamento e di un cimitero anglosassoni risalenti a 1500 anni fa, e tre tumuli e i resti di quattro edifici dell’Età del Bronzo risalenti a 4000 anni fa. Le sepolture anglosassoni hanno restituito armi, kit cosmetici, pettini, migliaia di perline, circa 150 spille, 75 fermagli al polso e 15 collane. Per il momento i tumuli dell’Età del Bronzo non sono ancora stati scavati e non si sa cosa possano contenere.

Torno di nuovo a farmi la domanda: veramente le testimonianze del passato delle Isole Britanniche sono tanto più ricche delle nostre, o non è che gli Inglesi hanno un’attenzione molto maggiore per le loro origini rispetto a quanta ve ne sia da noi?

“The Archaeology News Network” in un articolo del 12 gennaio ci parla di una nostra vecchia conoscenza, Maria Martinon Torres. Questa ricercatrice spagnola, lo ricorderete, attraverso lo studio della conformazione delle corone dentali, il cui sviluppo non è influenzato dall’ambiente e riflettono, si può dire, direttamente la base genetica, ha ricostruito un albero genealogico della specie umana che smentisce chiaramente la sua presunta origine africana, e punta invece verso l’Eurasia come luogo della sua origine.

Bene, il più recente studio della Torres, condotto insieme a Jose Bermùdez De Castro, membro come lei del CENIEH (Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana) ha dato un’importante conferma alle sue tesi. Lo studio ha riguardato quattro denti umani fossili ritrovati a Meipu nella Cina meridionale all’inizio degli anni ’70 del XX secolo, e finora non analizzati. Questi denti, risalenti a un’epoca fra 780 e 990.000 anni fa, presentano caratteristiche che li collocano come ancestrali sia rispetto all’Homo erectus (il confronto è stato fatto con gli erectus di Dmanisi (Georgia), sia all’Homo antecessor di Atapuerca (Spagna). Quest’ultimo fossile, si ricorderà, ha messo parecchio in imbarazzo i ricercatori, perché, pur essendo contemporaneo di erectus presenta caratteristiche di fatto indistinguibili da sapiens, e getta un’ombra di dubbio non solo sull’Out of Africa, ma sulla stessa teoria evoluzionista.

Qui viene a proposito citare brevemente un articolo di Andrew Collins pubblicato su “Ancient Origins” nel luglio 2019 e ultimamente ripescato – proprio al momento giusto – Non credo di dovermi scusare di non averlo citato allora, la rete, come sapete, è un mare magnum e qualcosa può sempre sfuggire, tanto più che a metà del 2019 eravamo proprio nel pieno della campagna di colorizzazione intesa a presentarci inglesi, vichinghi, etruschi, romani neri o quanto meno multietnici.

L’articolo di Andrew Collins è dedicato a un fossile umano, la mandibola Xiahe ritrovata in Cina, che è un reperto denisoviano, e presenta una caratteristica peculiare, ha il terzo molare con tre radici invece che con due. Questa è una caratteristica che si ritrova anche nell’umanità attuale, particolarmente nelle popolazioni asiatiche di ceppo mongolico e nei nativi americani, con un’incidenza che va dal 5 al 40% dei casi, e sarebbe appunto una riprova che nel loro genoma c’è una non trascurabile componente denisoviana.

Ora rifletteteci: se gli uomini di Neanderthal e di Denisova si sono ripetutamente incrociati con gli uomini di Cro Magnon dando luogo a una discendenza fertile, l’umanità attuale, noi, ciò significa che i tre gruppi appartenevano alla medesima specie, Homo sapiens, e differivano semmai dal punto di vista razziale. Allora, che significato ha l’Out of Africa, ricondurre l’origine della nostra specie a una migrazione dall’Africa che sarebbe avvenuta alcune decine di migliaia di anni fa, se Homo sapiens era già presente in Eurasia da centinaia di migliaia di anni? Evidentemente nessuno, salvo quello di essere una bufala escogitata per motivi politici, di accettazione dell’immigrazione che ci sono ben chiari.

Torniamo a parlare dell’attività del gruppo facebook “MANvantara”, di cui è amministratore il nostro amico Michele Ruzzai. Il gruppo è da tempo impegnato in un lavoro di grande respiro: realizzare la prima traduzione italiana integrale del monumentale libro di Hermann Wirth Der Aufgang der Menscheit ovvero L’alba dell’umanità.

Si tratta forse del testo più esaustivo esistente sulle origini umane, ma difficilmente potrebbe non essere snobbato dalla cultura accademica nel clima “scientifico” attuale per il quale l’origine africana della nostra specie è un dogma imprescindibile (nonostante tutte le prove in senso contrario che esistono, e di cui vi ho ripetutamente parlato in questa sede), perché Wirth, appunto, sostiene il concetto dell’origine boreale, conformemente al pensiero degli autori tradizionali.

Nell’attesa di portare a termine la traduzione dell’opera e di trovare un editore, il 13 gennaio sulle pagine di “MANvantara” ha pubblicato una piccola bibliografia degli autori e dei testi già ora disponibili in lingua italiana che in varia misura e da diversi punti di vista hanno contestato l’origine africana della nostra specie e/o sostenuto quella nordico-boreale.

A conti fatti, non si tratta di un elenco tanto smilzo, 25 testi, che comprende tra l’altro alcuni classici come La dimora artica nei Veda di Tilak, diversi libri di Julius Evola, Forme tradizionali e cicli cosmici di René Guenon, Gli Indoeuropei di Adriano Romualdi, Il selvaggio, saggio sulla degenerazione umana di Silvano Lorenzoni, Omero nel Baltico di Felice Vinci, Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta di Gianfranco Drioli.

Il 15 gennaio “Ancient Origins” ha “ripescato” in prima pagina un articolo un po’ vecchiotto (del 2015) con una firma bizzarra, Marilò TA, che tratta del Mito ancestrale della Terra cava. Secondo questo mito (o teoria), il nostro pianeta sarebbe una sfera cava con due aperture in corrispondenza dei poli che permetterebbero l’accesso al “mondo interno”. Un’idea che effettivamente è molto antica, e diffusa in diverse culture, soprattutto in area buddista. Secondo essa, all’interno del nostro pianeta si troverebbero i regni sotterranei di Shamballah e di Agharti. Essa in epoca moderna interessò l’astronomo Edmund Halley, ed ebbe diffusione soprattutto negli Stati Uniti nel XIX secolo, e poi nel XX secolo nella Germania nazionalsocialista. Quest’ultimo è un particolare di cui chi ha letto il libro Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier è ben a conoscenza.

Riguardo al resoconto di Pauwels e Bergier, devo dire che c’è un particolare che mi ha sempre colpito: poiché alcuni gerarchi nazionalsocialisti aderivano a questa concezione, mentre altri preferivano la cosmologia di Hoerbiger, fu chiesto a Hitler di dirimere la questione, ed egli decise che potessero avere circolazione entrambe. Stranamente, Pauwels e Bergier presentano la cosa come una riprova della follia del nazionalsocialismo, invece che della tolleranza per ciò che non riguardasse direttamente la politica. Non c’è niente da fare: i fascismi devono a ogni modo risultare in tutto il “male assoluto”, e pur di ottenere questo risultato, i metri di giudizio della democrazia sono più bizzarri di qualsiasi cosmologia.

L’altra considerazione da fare a questo proposito è che sembra che su “Ancient Origins” compaiono sempre più spesso tematiche eterodosse o (per usare una parola a noi cara) eretiche: Atlantide, Hi Brazeal, l’Età dell’Oro, e ora la Terra cava. Che finalmente la muraglia dell’ortodossia “scientifica” cominci a mostrare le prime crepe?

Non è certo una novità il fatto che la maggior parte delle informazioni sui nostri antenati, provengano dalle sepolture che ci hanno restituito, oltre alle loro ossa, un gran numero di oggetti utili per comprendere i loro modi di vita.

Ultimamente “The Archaeology News Network” presenta tre articoli dedicati alle sepolture. Due di essi, per la verità, sono datati 31.12.2020 (Questo 2020 interminabile) ma in realtà sono comparsi materialmente sulla pubblicazione dopo la metà di gennaio, mentre il terzo è regolarmente datato al 14 gennaio.

Il primo ci parla del ritrovamento di una sepoltura principesca dell’Età del Bronzo a Giberville nella piana di Caen nel Calvados in Normandia. Qui, lo scavo delle fondamenta di un complesso residenziale ha portato alla luce uno strato archeologicamente interessante contenente resti che vanno dal mesolitico all’età moderna. Il sito scoperto di quasi 4,5 ettari è stato esaminato da un team di ricercatori dell’INRAP (Istituto Nazionale di Ricerca Archeologica Preventiva) guidato da Emmanuel Gheschiere.

Fra le altre cose, sono emersi i resti di una sepoltura principesca dell’Età del Bronzo datata fra il 1800 e il 1600 avanti Cristo che ha restituito un ricco materiale funerario: un pugnale di bronzo, frammenti di ornamenti ambrati, originari del Baltico, e 14 punte di freccia affilate, note come armoricane, finemente scolpite nella selce. Si suppone che la sepoltura fosse sormontata da un tumulo di cui non è rimasta traccia.

Non è tutto, perché vicino alla tomba sono stati trovati i resti di un’abitazione datati a un periodo fra il 1700 e il 1500 a C., e non distanti, i resti di una necropoli del periodo gallico (52 a. C. – 486 d. C.) contenente 45 sepolture.

Il secondo articolo ci parla di una scoperta avvenuta a Berkel-Enschot nel Brabante settentrionale, Paesi Bassi. Anche in questo caso, a permettere la scoperta sono stati i lavori per la costruzione di un complesso residenziale. È emerso un esteso campo di urne. Finora sono state individuate 225 tombe con le urne contenenti i resti cremati dei defunti, ma potrebbero essere molti di più, perché per ora è stata scavata solo una parte della necropoli. Queste sepolture risalgono anch’esse all’Età del Bronzo, sono però più recenti di quelle francesi, e datate tra il 1100 e l’800 avanti Cristo. Le ricerche sono state affidate all’archeologo municipale di Tilburg, Guido van den Eynde.

Sono stati esaminati 40 monumenti funerari, tra cui 30 fossati a cerchio e 10 lunghi tumuli. Sono stati trovati più di 100 pezzi di ceramica funeraria, tra cui 31 urne quasi intatte utilizzate per i resti di cremazione.

Il terzo articolo, quello finalmente con la data corretta, ci porta in Russia, più precisamente nell’isola di Yuzhniy Oleniy Ostrov nel lago Onega nella Repubblica di Carelia, qui è emersa una necropoli preistorica di 8.200 anni fa che è stata studiata da un team guidato dall’archeologa Kristiina Mannermaa dell’Università di Helsinki. La cosa più interessante di queste sepolture è che attorno ai resti dei defunti sono stati ritrovati numerosi denti traforati che erano probabilmente dei pendagli che adornavano i loro vestiti che ovviamente non si sono conservati, ma la disposizione dei denti consente ancora di individuarne la forma. Questi denti sono di castoro e di orso, ma soprattutto di alce, a riprova del fatto che l’alce era con ogni probabilità la preda preferita di questi antichi cacciatori russi.

L’articolo è corredato da un’illustrazione, che è la stessa che allego qui, che è la ricostruzione di una delle salme inumate, quella di una giovane donna. Notate i lineamenti prettamente europidi di questa donna di 8.200 anni fa. I ricercatori russi, che non sono condizionati dall’ideologia democratica “politicamente corretta” che prescrive come dogma una totale mistificazione delle nostre origini, dimostrano di non dare alcun credito alla favola secondo la quale fino al neolitico e oltre, gli antichi europei avrebbero presentato caratteristiche simili a quelle subsahariane.

Noi possiamo constatare, e direi più che mai oggi possiamo constatare con sollievo, che le tracce del passato, di un passato che certi non sappiamo bene se sprovveduti o malintenzionati, vorrebbero cancellare o quanto meno falsare, sono presenti ovunque intorno a noi.

NOTA: Nell’illustrazione, ricostruzione della defunta inumata nella tomba n. 127 della necropoli di Yuzhniy Oleniy Ostrov (da “The Archaeology News Network” 14.1.2021).

1 Comment

  • Daniele Bettini 11 Aprile 2021

    Intanto Un altro mito Covid che muore miseramente
    “Il contatto con una superficie contaminata ha meno di 1 possibilità su 10.000 di causare un’infezione”
    https://anti-empire.com/another-covid-myth-dies-the-death/
    Ormai manca solo che dichiarino falsa la teoria del contagio , convalidando la teoria dei dott Lanka e dott Hamer dei virus come simbionti
    e di questa immane bufala non rimarrà piu’ nulla

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