Ricominciamo la nostra disamina dell’eredità ancestrale a partire dalla seconda settimana di marzo, ma, vediamo subito che i fatti di cui vi racconto risalgono quasi tutti alla settimana precedente, e che il primo articolo di questo mese l’ho dedicato quasi per intero a “code” di febbraio.
Stavolta comincerò con farvi una di quelle domande a cui tutti crediamo di avere una risposta, ma a conti fatti non si rivelano così scontate: chi ha scoperto l’America?
Oramai sappiamo da molto tempo che Cristoforo Colombo e la sua spedizione non furono i primi europei a toccare il continente americano. Cinque secoli prima di loro, il vichingo Leif Ericcson, figlio di Eric il Rosso scopritore della Groenlandia, guidò una spedizione appunto dalla Groenlandia verso occidente e toccò una terra che egli chiamò Vinland, “terra dei prati” (Si era nell’optimum climatico medioevale con temperature più alte di quelle attuali, e il termine “vin” in lingua norrena significa prato, quindi nulla a che fare con vigne o vigneti come qualcuno ha fantasticato).
Vinland è oggi identificata con Terranova, e infatti a Terranova sono state trovate le tracce di un insediamento vichingo, probabilente proprio quello di Leif, in una località nota come L’Anse aux Meadows (anche qui la toponomastica ha avuto una sorte strana: i coloni francesi del Canada battezzarono la località L’Anse aux Meduses, “La baia delle meduse”, che pullulavano nelle acque antistanti. Gli inglesi a essi subentrati, negati come al solito per le lingue straniere, trasformarono “meduses”, meduse in “meadows”, prati).
Bene, sembrerebbe che nemmeno Leif Ericcson sia stato il primo europeo a raggiungere le Americhe, anche se questa è una storia molto meno certa e avvolta nella leggenda.
Il 2 marzo “L’arazzo del tempo” ha pubblicato un articolo (firmato purtroppo solo “redazione” dedicato alla leggenda di san Brandano o Brendano (Brandon, nell’originale irlandese), un monaco irlandese che, come è riferito in un manoscritto del IX secolo, Navigatio Sancti Brendani Abbatis, in compagnia di altri monaci, avrebbe intrapreso un viaggio nell’Atlantico alla ricerca del paradiso terrestre. Ciò sarebbe avvenuto nel IV secolo, e si sarebbe trattato di un viaggio in più tappe, la spedizione del sant’uomo avrebbe toccato prima le Ebridi, poi le Faer Oer, quindi l’Islanda, la Groenlandia, per giungere infine a Terranova.
Negli anni ’70 del XX secolo, un ricercatore, Tim Severin, per dimostrare che tale viaggio era quanto meno possibile, dopo aver costruito una barca di legno e cuoio lunga 11 metri basata sulle descrizioni di quella di Brandano, con quattro compagni, si è provato a rifarne il percorso, giungendo a Terranova in 13 mesi.
Rimane il dubbio: chi ha veramente scoperto l’America? Io non esiterei comunque a rispondere Cristoforo Colombo, perché è a partire dalla spedizione del navigatore italiano che abbiamo non sporadici contatti che non portano nulla, ma una reale interazione tra il “vecchio” e il “nuovo” mondo, sui quali fin allora le vicende umane si erano svolte come su due palcoscenici separati.
Il 4 marzo un sito americano (ovviamente in lingua inglese), “Sapiens” ha pubblicato un articolo di Anna Goldfield, ricercatrice della California University che ci pone un quesito interessante: sappiamo che 42.000 anni fa è avvenuta un’inversione del campo magnetico terrestre nota come escursione di Leschamp, durata alcuni secoli. Essa potrebbe essere stata la causa dell’estinzione dell’uomo di Neanderthal?
Noi sappiamo che oggi molte persone sono afflitte da paure spesso immotivate, diffuse e amplificate dal web, tutti voi ricorderete ad esempio il panico per l’anno 2012 connesso a una profezia maya, e sapete che alla scadenza di quell’anno non si è verificato nulla delle previsioni apocalittiche implicate in questa profezia, e nemmeno l’arrivo dell’astronave aliena che alcuni attendevano. L’inversione (o meglio una nuova inversione) del campo magnetico terrestre è una di queste temute eventualità, e al riguardo sarà bene fissare qualche punto fermo.
Il campo magnetico terrestre, in effetti, è un’importante protezione del nostro pianeta contro gli effetti dannosi della radiazione solare, se esso dovesse scomparire, le conseguenze sarebbero catastrofiche per noi e per tutte le forme di vita, ma non è di questo che si parla. La Terra è un magnete, ma non dobbiamo farci fuorviare dall’analogia con una calamita. Le sue proprietà magnetiche dipendono dal fatto che il nucleo del nostro pianeta è costituito da una massa metallica liquida sottoposta a condizioni di temperatura e pressione enormi, non è statica e varia col tempo.
Lo studio dei materiali lavici che conservano l’orientamento magnetico del momento in cui si sono soldificati, ci ha mostrato che nel corso del tempo sono avvenute molte inversioni magnetiche (cioè i poli nord e sud si sono scambiati di posto), e questo non ha avuto effetti visibili sulla vita terrestre.
La scomparsa dei neanderthaliani ha avuto probabilmente altre cause: mutamenti climatici che hanno portato la megafauna che costituiva le sue principali prede a sparire dall’Europa, la concorrenza del nuovo arrivato uomo di Cro Magnon e anche la mescolanza con esso.
Ma sono poi veramente estinti? Sono ancora presenti almeno nel 3% del nostro patrimonio genetico.
Al disotto di una stanza è stata rinvenuta una grande urna funeraria contenente i resti di un uomo e di una donna assieme a un ricco corredo funebre. In particolare la donna era stata adornata con sontuosi gioielli e un raro diadema di argento, per cui gli archeologi pensano che fosse un personaggio di alto rango, forse una regina.
Cosa dire se non il fatto che questa Europa preistorica ci appare molto più civile di quel che avevamo immaginato, di quel che ci hanno sempre raccontato, che questi antichi europei costruivano palazzi mentre altri per lungo tempo, oltre le capanne di paglia e fango non erano capaci di andare?
Adesso partiamo da una fonte davvero insolita, “Esquire” che domenica 7 ci ha raccontato una storia davvero interessante: sembra che in Iran si siano trovate le tracce di una civiltà finora del tutto sconosciuta. In questo caso, la scoperta non si deve a un novello Schliemann, ma al fatto che è stata notata a partire dal 2001 la comparsa sul mercato nero dei reperti archeologici e nelle case d’aste di una serie di manufatti molto antichi di pregevole fattura che gli archeologi non sono riusciti a classificare come appartenenti a nessuna delle culture finora note.
Si trattava di sculture, vasi, recipienti in bronzo intarsiati, addirittura giochi da tavolo e anfore con decorazioni mai viste prima. Alcuni di questi manufatti presentavano intarsi con lapislazzuli e altre pietre preziose, le raffigurazioni sui vasi e le anfore rappresentavano palmeti, coltivazioni, guerrieri che affrontavano grandi felini e addirittura palazzi a forma di piramide e armi.
Con un paziente lavoro di indagini degno della migliore tradizione poliziesca, si è riusciti a ricostruire all’indietro il percorso di questi reperti e vedere che esso convergeva verso una precisa zona dell’Iran, un’area circa 40 chilometri a sud della città di Jifrot nella regione del Baluchistan, qui, appunto nel 2001 uno straripamento del fiume Halil ha portato alla luce una vasta e fin allora sconosciuta necropoli che i tombaroli locali si sono messi allegramente a saccheggiare.
Ora ovviamente le cose sono cambiate, e le autorità iraniane hanno affidato le ricerche a un team di archeologi guidato da Youssef Madjidzadeh, che avrebbe individuato nella zona nota come Konar Sandal i resti di un vasto insediamento urbano risalente a 5.000 anni fa.
Bene, ricorderete che nella cinquantasettesima parte vi ho parlato di Shahr-i-Sokta, la “Pompei d’oriente” sempre nella regione iraniana del Baluchistan, dove stanno lavorando gli archeologi italiani, e che è all’incirca coeva dell’insediamento di Konar Sandal. Mettendo insieme le due cose, appare chiaro che proprio qui, allo spartiacque tra mondo iranico e mondo indiano (Siamo a due passi dal confine col Pakistan) è esistita un’antichissima civiltà, precedente a quelle a noi note, e che potremmo definire come proto-indo-iranica.
Tuttavia ho l’impressione che di queste scoperte non si parlerà molto, e che in un certo senso esse rappresentino una delusione per gli archeologi, vediamo di spiegare perché.
Come sicuramente sapete, non molto distante da lì, in quello che oggi è il vicino Pakistan, è esistita quella che è nota come la civiltà della Valle dell’Indo, i cui centri principali sono Mohenjo Daro e Harappa. Per lungo tempo si è attribuita la sua creazione ai Dravidi, la popolazione “scura” che abitava l’India prima dell’invasione degli Arii. I ritrovamenti di resti umani nelle necropoli di Mohenjo Daro e le ricostruzioni al computer dei lineamenti dei suoi abitanti hanno recentemente smentito questa tesi; costoro non erano forse indoeuropei, ma erano certamente caucasici. Ricordiamo che quello di caucasico è un concetto antropologico, mentre quello di indoeuropeo è un concetto linguistico, e solo dal ritrovamento di uno scheletro non possiamo sapere che lingua parlasse l’uomo da vivo.
Per un certo tipo di ricercatori, deve essersi trattato di una delusione fortissima. Quella di una presunta civiltà della Valle dell’Indo dravidica pareva l’unica eccezione conosciuta alla regola che dove troviamo civiltà, regolarmente troviamo l’uomo bianco, caucasico, europide (anche per quanto riguarda, lo sappiamo, l’Asia orientale e le Americhe), immaginatevi una smentita simile oggi che è “di moda” (ma in realtà frutto di precise pressioni politiche che vengono dall’alto) denigrare tutto ciò che è caucasico, europide, bianco, europeo.
Ma possiamo essere sicuri che chi cerca una Mohenjo Daro di ricambio casca male, l’Iran è proprio la terra degli Arii per antonomasia, il suo nome viene proprio dalla stessa radice di “Arya”.
A questo riguardo, si può anche menzionare il fatto che un articolo sulla
“Pompei d’Oriente” di Shahr-i-Sokta è stato pubblicato il 1 marzo sul sito di “SiViaggia”. Qualcuno ha già pensato di farne, quando sarà finito il periodo del lockdown, la meta di un colto turismo archeologico. Un’idea che non ci può dispiacere, a condizione che gli antichi edifici che la formano siano messi adeguatamente in sicurezza.
Poiché siamo entrati in discorso sulle popolazioni indo-iraniche, è forse il momento di introdurre un chiarimento importante. Le lingue, e conseguentemente le popolazioni indoeuropee sono distinte in due rami: occidentale e orientale, ovvero centum e satem, dalla forma che assume il numerale cento rispettivamente in latino e in sanscrito. Del gruppo occidentale fanno parte le lingue latine, celtiche, germaniche e il greco, di quello orientale le lingue slave e indo-iraniche. Per l’antichità dove non esistevano società multietniche se non come fatto episodico del tutto eccezionale, possiamo dare per assodata la corrispondenza fra lingua ed etnia.
Si è a lungo ritenuto che gli Slavi avessero raggiunto le attuali sedi europee provenendo da sud-est, che il ceppo indo-iranico sia ancestrale a quello slavo, non solo, ma a tutti gli altri indoeuropei, noi compresi. E’ questo il motivo per il quale la nostra famiglia linguistica è chiamata INDOeuropea, laddove euro-indo-iranica sarebbe una denominazione senz’altro più corretta.
Il motivo di ciò è costituito dal fatto che il sanscrito, la lingua dei Veda, i libri sacri indiani, è la più antica lingua indoeuropea messa per iscritto che siamo in grado di leggere (la scrittura della civiltà del Danubio, i cui esemplari sono stati ritrovati sulle cosiddette tavolette di Tartaria, è verosimilmente più antica, ma, dato che non siamo in grado di decifrarla, lasciamo perdere), ma si tratta di un motivo fallace, che il sanscrito sia stato la più antica lingua indoeuropea scritta non significa minimamente che esso sia stato la più antica lingua indoeuropea a essere parlata.
Ma soprattutto storici, linguisti, archeologi e via dicendo, sono stati e continuano a essere abbagliati dalla falsissima leggenda della “luce da oriente”, della quale, come avrete certamente presente, sulle pagine di “Ereticamente” ho dedicato qualcosa come una trentina di articoli a dimostrare la falsità (e si tratta di un discorso tuttora non concluso, che mi riprometto quanto prima di riprendere).
Non occorre molto per capire che questa ricostruzione del nostro passato indoeuropeo è tutto meno che plausibile, basti pensare al fatto che quando gli Arii indo-iranici giunsero nel subcontinente indiano, lo trovarono densamente abitato da una popolazione del tutto diversa, i Dravidi (che, per inciso, costituiscono ancora oggi la componente maggioritaria della popolazione indiana).
E’ invece probabile che gli antenati degli indo-iranici siano giunti in quelle regioni provenendo da nord-ovest da quelle che erano le sedi originarie delle popolazioni slave, dall’Ucraina e Russia meridionale, seguendo forse all’incirca la Via della Seta, solo da ovest verso est e non il contrario.
Guarda caso, è proprio qui che troviamo la più antica cultura considerata indoeuropea o proto-indoeuropea, chiamata dagli archeologi “Jamna” o “Jamnaya”.
Ovviamente non possiamo escludere, anzi la cosa appare probabile, che questa regione che va all’incirca dalle foci del Danubio a quelle del Volga, sia stata a sua volta solo una tappa di un percorso cominciato molto prima, nel nord iperboreo, dato che il disgelo del permafrost russo e siberiano causato dal riscaldamento globale ci sta rivelando carcasse di grandi animali e indizi che intorno ai 10.000 anni fa le regioni nordiche avevano un clima molto più favorevole di oggi all’insediamento umano.
È strano, vero? Quando si abbandonano tutte le interpretazioni precostituite a base di favole orientali e africane che ci hanno sempre raccontato e continuano a raccontarci, e si fanno parlare liberamente i fatti, la bussola della ricerca delle nostre origini punta invariabilmente verso nord, verso l’Europa e l’uomo dalla pelle pallida.
NOTA: Nell’illustrazione, “Il signore degli animali” raffigurato su un peso in clorite rinvenuto a Jifrot (da “Exquire”).