11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, decima parte – Fabio Calabrese

Ricominciamo la nostra rassegna delle più recenti informazioni riguardanti la nostra eredità ancestrale dalla fine di ottobre, il che vuol dire che, se anche a causa dei tempi tecnici di “Ereticamente” voi leggerete questo articolo con uno scarto di tempo non trascurabile, al momento è passato circa un mese dalla stesura della nona parte. Le acque sembrano essersi un po’ calmate rispetto al periodo estivo, ma – diciamolo pure – l’estate 2019 non è stata intensa e “calda” per l’avvicendarsi di nuove scoperte, ma perché abbiamo visto portare avanti dal potere mediatico e accademico, a sua volta strettamente ammanigliato al potere politico, un progetto di falsificazione della nostra storia teso a far credere che le culture e le società europee del passato fossero un pantano multietnico e multirazziale come quello in cui stanno cercando di trasformare l’Europa di oggi.

La cosa funziona esattamente allo stesso mode dell’inquisizione dei secoli XVI e XVII secolo: una volta enunciato un dogma democratico è proibito metterlo in discussione, per quanto le prove a suo sostegno siano più inesistenti che scarse, e le evidenze contrarie pesanti come macigni: l’abbiamo visto con la “teoria” di Richard Lewontin sull’inesistenza delle razze, e la stessa cosa si appresta a essere imposta per i dogmi dell’origine africana degli Europei e della presunta multietnicità e multirazzialità dell’Europa del passato. Oggi i metodi per ridurre al silenzio gli eretici sono meno cruenti di quelli dell’inquisizione, ma non meno efficaci, basati sul controllo mediatico e contrastati solo da poche voci dissidenti come la nostra. In democrazia dire la verità è pericoloso, ma il rischio è il prezzo per essere liberi, innanzi tutto dall’ipnosi del moloc sedicente democratico.

Vediamo dunque cosa ci offre questo squarcio di ottobre.

Io vi ho già parlato nei miei articoli precedenti di Olga Samarina, una ricercatrice russa indipendente e controcorrente (almeno per gli standard della “scienza dell’uomo” occidentale squallidamente africano-centrica, nella Russia post-sovietica le prospettive sembrano essere migliori), e dispiace che i sui interessantissimi articoli sul passato iperboreo non abbiano trovato da noi una collocazione in grado di darle una risonanza maggiore dei gruppi facebook, anche se MANvantara coi suoi 1600 e passa membri offre forse una platea meno scheletrica di altri e l’eccellente lavoro dei Moderatori gli ha conferito una certa autorevolezza.

Il 20 ottobre Olga Samarina ha pubblicato un post che purtroppo cita soltanto, non riporta per esteso un articolo apparso su Sibdepo.ru, una pubblicazione siberiana, l’argomento è comunque di grande interesse.

“Gli ariani erano venuti in India dalla Siberia. Questa è la conclusione di una ricerca condotta da un gruppo di scienziati di diversi paesi (Russia, Usa, India, Pakistan, Afganistan, Inghilterra, Canada, Italia, Portogallo ed altri) con a capo il genetista David Reich (Harvard). Il risultato dello studio dei 524 campioni DNA degli antichi resti umani è stato pubblicato nella rivista “Science” con il titolo “La formazione delle popolazioni umane nell’Asia Centrale e Meridionale”.

In base a questa analisi è confermata la teoria delle migrazioni dei portatori delle lingue indo-ariane dall’Eurasia verso l’India.

“La comparsa degli antichi indoariani sul territorio dell’India nel II millennio a.C. è legata alle migrazioni dalle zone delle steppe dell’Eurasia, compresa la Siberia occidentale (la cultura di Andronov)”.

La gente venuta dalle steppe è diventata l’élite: tra i bramini la percentuale del “geni della steppa” è maggiore rispetto ad altri gruppi”.

Non è una tematica che ci viene del tutto nuova, ci dà anzi l’occasione di tornare a chiarire un equivoco molto diffuso sulle origini indoeuropee. Quando i linguisti dell’ottocento misero in luce le affinità tra il tedesco, il latino, il greco, il sanscrito e via dicendo, affinità che facevano risalire a una lingua comune originaria e a un popolo ancestrale che l’aveva parlata, ne postularono l’origine in India, perché il sanscrito indiano, la lingua dei Veda era la più antica lingua indoeuropea conosciuta, ma anche perché pure loro suggestionati dall’ingannevole favola della luce da oriente, e non a caso le lingue che si supponeva da esso derivate furono chiamate INDO-europee. In più bisogna ricordare che all’epoca l’archeologia forniva pochi indizi e la genetica non esisteva proprio.

Era sbagliato: il fatto che il sanscrito fosse la più antica lingua indoeuropea a essere messa per iscritto non significa che fosse la più antica a essere parlata. L’abbiamo visto già altre volte: il più probabile luogo di origine degli Indoeuropei è un’area eurasiatica a cavallo fra gli attuali Ucraina e Kazakistan, verosimilmente connessa con la cultura Jamna, quella dei Kurgan e forse di Cucuteni. Un brutto colpo per i patiti della luce da oriente, ma che volete farci, così è la vita.

Rimaniamo per il momento in Russia: “Retro/Vintage” è il nome di un sito che farebbe pensare a qualcosa di lingua inglese, invece si tratta di un sito russo. A ottobre ha pubblicato la foto risalente agli anni ’60 di una ragazza amerindia, si tratta dell’ultimo membro della tribù indiana dei Clonycavan oggi verosimilmente estinta. A guardarla, c’è da rimanere stupiti: non solo è una donna molto bella, ma ha una fisionomia prettamente caucasica-mediterranea. Qualcuno ha commentato che potrebbe essere una ragazza spagnola o sarda. Anche questo non è un discorso che ci venga del tutto nuovo, abbiamo già visto che, a parte meticciamenti recenti, nelle popolazioni amerindie si riscontra una notevole componente europide, sia che essa fosse già presente in coloro che migrarono sul continente americano dalla Beringia, sia che essa debba essere provenuta da oltre Atlantico secondo l’ipotesi di Stanford e Bradley che collega la cultura Clovis a quella solutreana europea.

Oggi pare di assistere, almeno in campo scientifico e per quanto riguarda le origini dell’uomo, a una sorta di nuova guerra fredda a parti invertite. Mentre in Occidente domina, viene forzatamente imposta la visione africano-centrica delle nostre origini, nella Russia post-sovietica c’è una libertà di gran lunga maggiore di dire le cose come stanno. Non c’è solo Olga Samarina, in Russia relativamente alle scoperte archeologiche fatte nella penisola di Kola, i media hanno parlato tranquillamente di Iperborea, un termine che in Occidente solo a nominarlo in un articolo provocherebbe l’espulsione dalla comunità scientifica dell’autore dello stesso. E come dimenticarsi delle ricerche del genetista Anatoly Klysov sugli aplogruppi del cromosoma Y che hanno portato a escludere che i DNA europei derivino da DNA africani. Il caso forse più evidente e nello stesso tragico della differenza che esiste tra la Russia di oggi e il sedicente “libero” mondo occidentale, è quello del professor Aris Poulianos, di nazionalità greca che lavorava presso l’università di Mosca.

Richiamato in patria per studiare il famoso teschio di Petralona, lo ricorderete, e avendo stabilito che esso risale a 750.000 anni fa ed è la prova di un’evoluzione dell’uomo europeo del tutto separata da quella africana, si è trovato ad affrontare l’ostracismo del sistema accademico e un muro di gomma mediatico, non solo ma lui e la moglie hanno subito un attentato. E’ la seconda grande arma della democrazia: quando la censura non basta, si ricorre alla violenza.

E’ ovviamente un discorso che non riguarda soltanto la paleoantropologia, sappiamo che i liberal occidentali odiano la Russia di Putin e vorrebbero introdurvi qualche rivoluzione fucsia, lilla o a pois che imponga anche in questo Paese una democrazia come la si intende in Occidente, cioè il perfetto allineamento ai voleri del NWO, noi stessi siamo costretti a mantenere contro di essa delle sanzioni ridicole che sono un danno soprattutto per il nostro export, un boomerang per la nostra economia.

Riguardo alla storia remota delle Americhe, sappiamo che ci sono molte pagine strappate. E’ verosimile che l’insediamento umano nel grande doppio continente sia molto più antico dei 12.000 anni che gli concede l’archeologia ufficiale. Ne abbiamo parlato più volte, citando il ritrovamento di un’impronta umana nel Nuovo Messico, menzionato da Wikipedia, che risalirebbe a 40.000 anni fa, e le pitture rupestri della Serra de Capivara in Brasile alcune delle quali secondo i ricercatori, risalirebbero addirittura a 50.000 anni fa.

Che la presenza umana nelle Americhe risalga a 50.000 anni fa o forse a un’epoca anteriore, è anche l’opinione di un ricercatore argentino indipendente, ovviamente snobbato dalla cultura ufficiale, di cui ultimamente si è parlato sul web, Dick Edgar Ibarra Grasso, che nel suo testo (traduco in italiano) Esame critico sull’antichità dell’uomo in America fa risalire la presenza umana nel Nuovo Mondo appunto a tale orizzonte temporale, ma non è tutto, perché Ibarra Grasso del pari rileva la presenza di una componente europide, bianca nell’America in epoche molto anteriori a quella di Colombo o anche dei Vichinghi, e uno dei suoi libri è appunto dedicato agli Uomini barbuti nell’America precolombiana.

Una domanda che a questo punto non ci si può fare a meno di porre, è perché, nonostante le evidenze contrarie, l’idea di una presenza umana nelle Americhe anteriore a 12.000 o al massimo a 15.000 anni fa, è respinta con sdegno dall’archeologia ufficiale. La risposta non è difficile: una presenza umana non solo in tutto il Vecchio Mondo ma anche in America intorno ai 50.000 anni fa, cioè contemporaneamente o addirittura prima della sua presunta uscita dall’Africa metterebbe definitivamente in crisi il dogma out-of-africano. La versione ufficiale delle nostre origini è un sistema di menzogne ben collegate che entra in crisi se ne salta una.

Che le origini dell’umanità siano state parecchio “ringiovanite” per creare a tutti i costi una cronologia compatibile con l’out of Africa, questa è una cosa che oggi appare sempre più evidente. Proprio perché si tratta di una falsità, l’interpretazione ufficiale delle nostre origini costituisce una struttura rigida che rischia di saltare a ogni nuova scoperta, e questo è senz’altro il caso, ne abbiamo parlato, del ritrovamento di Apidima. In questa grotta greca, lo ricordo, è stato ritrovato il teschio fossile di un Homo sapiens anatomicamente moderno risalente a 230.000 anni fa, il più antico mai ritrovato e assolutamente incompatibile con la fiaba out-of-africana.

Sale sulla piaga. “Science Advances” del 16 ottobre presenta un articolo a firma collettiva sulla (traduco il titolo) Più antica occupazione dell’Egeo centrale (Nasso) Grecia: implicazioni per il comportamento e la diffusione degli ominidi e di Homo sapiens. In sintesi, il risultato di questa ricerca è che gli strumenti litici caratteristici di Homo sapiens compaiono nell’Egeo centrale già attorno ai 200.000 anni fa, un dato chiaramente coerente con la scoperta di Apidima, e una smentita totale della “teoria” out-of-africana che presupporrebbe la presunta uscita della nostra specie dal continente africano in un tempo separato da noi che è circa un quarto di quello di questi ritrovamenti.

In questo periodo abbiamo nuove informazioni che vengono a comporre un quadro sempre più chiaro della nostra storia remota. Msn.com del 22 ottobre riporta una scoperta riferita in questo caso all’Età del Bronzo. Sulle rive del fiume Tollense nella Germania settentrionale, gli archeologi avrebbero individuato le tracce di quella che potrebbe essere stata una delle più antiche battaglie del mondo o quanto meno d’Europa: sono stati rinvenuti i resti di centinaia di uomini, e armi, risalenti al 1200 avanti Cristo. Non sappiamo chi fossero le due parti contendenti né tanto meno chi vinse la battaglia. Quello che sicuramente sappiamo, è che i punti interrogativi circa la nostra storia remota sono ancora tanti.

Dalla preistoria recente, vicina al tempo storico, dall’Età del Bronzo, facciamo ora un balzo indietro che ci porta sull’orizzonte delle decine o centinaia di migliaia di anni, perché “Le Scienze” del 23 ottobre ci dà una notizia che riguarda gli uomini di Neanderthal. Costoro producevano catrame di betulla e lo usavano come mastice per immanicare strumenti di selce. E’ quanto si è potuto dedurre dall’esame di un reperto scoperto nel 2016 sulla spiaggia di Zandmotor in Olanda. Questi nostri predecessori, così a lungo ingiustamente disprezzati e dipinti falsamente come bruti scimmieschi, si sono invece dimostrati capaci di una tecnologia complessa e anche – l’abbiamo visto diverse volte – di manifestazioni artistiche.

L’unico appunto da muovere all’articolo de “Le scienze” è che parlando di neanderthaliani, forse sarebbe più giusto parlare di antenati che non di cugini, dato che una porzione del nostro DNA variabile dal 2 al 4% noi che non siamo subsahariani, l’abbiamo ereditata da loro.

Come ricorderete, diverso tempo fa, ormai dovrebbe essere quasi un anno, ho avuto dalla redazione di “Ereticamente” un invito a non occuparmi dell’attività dei gruppi facebook che trattano delle tematiche ancestrali, sia perché questi gruppi che riuniscono qualche centinaio di membri, sono delle realtà piuttosto scheletriche, sia perché – soprattutto – non hanno mostrato molta gratitudine per la cassa di risonanza loro offerta. Si tratta di un consiglio che io ho preso cum grano salis, nel senso che quando in queste sedi si è toccato qualche argomento davvero importante, qualche utile spunto di riflessione, non mi sono astenuto dal citarlo, senza per questo sentirmi obbligato a relazionare sulla loro attività complessiva. Questo è stato ad esempio il caso degli articoli di Olga Samarina.

Il 25 ottobre, un membro del gruppo MANvantara che si firma Renato Ghenone (si tratta chiaramente di uno pseudonimo, un’italianizzazione di René Guenon) ha messo un link a un pezzo postato in un altro sito che poi è stato rimosso, con la conseguenza che esso non è più visibile neanche nel gruppo di Michele Ruzzai. E’ rimasto tuttavia il commento di Renato:

“Guardate come i Watussi cercano in tutti i modi di falsificare la storia della civiltà bianca”.

Richiesto di precisare quale fosse il contenuto del post rimosso, ha poi scritto:

“Avranno tolto il post originale dal gruppo dal quale l’ho condiviso, comunque l’utente che l’aveva messo è stato fatto letteralmente a pezzi”.

Perché vi cito adesso questo fatto apparentemente marginale e minimo? Perché ci offre il destro per alcune conclusioni molto importanti: primo, l’offensiva per mistificare la nostra storia “africanizzandola” prosegue, ed è meglio non sorriderne, vista la presa che questo cumulo di menzogne può avere sui ragazzi disinformati, secondo, la censura di FB o la paura di essa che induce gli amministratori dei gruppi ad autocensurarsi, non riguarda ormai questioni di netiquette od opinioni espresse magari in modo acceso, ma fatti su cui non è permesso richiamare l’attenzione della gente, terzo, che se l’autore del post originale “è stato fatto letteralmente a pezzi”, questo vuol dire che i buonisti (che poi tanto buoni non sono) non ammettono di sentirsi dire verità sgradite che turbino i loro sogni di un mondo egualitario e dove l’appartenenza etnica non abbia alcuna importanza.

In altre parole, la “scienza dell’uomo” oggi è molto lontana da come dovrebbe essere la ricerca scientifica, cioè un sereno raffronto di teorie elaborate a partire dall’osservazione dei fatti, è diventata un campo di battaglia.

Ma se è così, noi non abbiamo nessuna paura di combattere.

 

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra in una foto degli anni ’60 ragazza della tribù amerindia dei Clonycavan, si notino i lineamenti marcatamente europidi, al centro un libro di Dick Edgar Ibarra Grasso, a destra un contenitore di bronzo decorato ritrovato nel sito dell’antico campo di battaglia di Tollense.

 

 

 

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