Io credo di dovermi scusare con tutti voi: inizio a stendere questo articolo nel mese di novembre, ma facendo un po’ di conti, è improbabile che esso arrivi sulle pagine elettroniche di “Ereticamente” prima dell’anno nuovo. Tenere il passo con gli eventi che si sono registrati in questo ormai declinante 2019 diventa sempre più difficile, anche se credo che ciò tutto sommato non invalidi quanto c’è da dire a questo riguardo, che non concerne tanto i fatti, le pubblicazioni di articoli in sé, quanto il quadro complessivo sulla tematica delle nostre origini che se ne può trarre.
A tenere banco ai primi di novembre, è una notizia riportata da ANSA.it a sua volta ripresa dall’autorevole “Nature”: una ricerca condotta da un team di ricercatori australiani del Garwan Institute e dell’università di Sidney guidato da Vanessa Hayes avrebbe individuato l’origine dell’uomo moderno nell’Africa meridionale a sud del fiume Zambesi.
Tutto chiaro allora? I sostenitori dell’origine africana della nostra specie hanno ragione e noi torto? Se si va a leggere con attenzione il contenuto dell’articolo, le cose appaiono alquanto diverse. In sostanza, questa ricerca si basa prevalentemente su considerazioni ecologiche e climatiche, cioè SE l’uomo moderno ha avuto origine in Africa (ma è precisamente questa la premessa da dimostrare), allora l’Africa meridionale a sud dello Zambesi è un candidato più verosimile ad esempio dell’Africa orientale spesso indicata come possibile luogo d’origine dell’umanità a causa dei ritrovamenti ominidi. L’Africa, lo sappiamo, nella sua punta meridionale tocca la fascia temperata australe, e qui le condizioni per lo sviluppo di Homo sapiens erano forse migliori che nel resto del Continente Nero, ma che esso sia effettivamente nato in Africa, rimane tutto da dimostrare.
I dati, i dati reali che abbiamo, non le elucubrazioni ideologiche che vorrebbero persuaderci che “siamo tutti africani” per farci accettare l’immigrazione e la sostituzione etnica, non puntano in questa direzione, ma ci tracciano un quadro molto diverso. Circa mezzo milione di anni fa in tutto il Vecchio Mondo era diffuso l’Homo erectus che in Eurasia, non in Africa, si sarebbe evoluto in Heidelbergensis e poi suddiviso nei tre rami di Cro Magnon, Neanderthal e Denisova che hanno dato origine all’uomo moderno. Solo 40.000 anni fa uomini anatomicamente moderni avrebbero raggiunto l’Africa al disotto del Sahara e qui si sarebbero incrociati con la “specie fantasma” individuata dai ricercatori dell’università di Buffalo, “specie fantasma” che con ogni probabilità non era altro che il “vecchio” Homo erectus che in Africa non aveva subito alcuna evoluzione, e dato origine ai neri subsahariani che conservano ancora l’8% di DNA non sapiens.
E’ da notare tra l’altro che proprio quest’anno è avvenuto un ritrovamento importantissimo che costituisce di fatto la smentita della teoria dell’origine africana, e di cui guarda caso, ha parlato solo un quotidiano locale e la cosa è stata subito avvolta da una cappa di silenzio: il rinvenimento nella grotta della Ciota Cara in provincia di Vercelli di un teschio parziale dalle caratteristiche intermedie fra Heidelbergensis e Neanderthal, Neanderthal, cioè sapiens, in pratica l’anello di congiunzione fra la nostra specie (di cui l’uomo di Neanderthal fa parte) e forme umane più antiche. Ora, a meno che le mie conoscenze geografiche non siano del tutto errate, mi risulta che il Piemonte non sia Africa, anche se c’è qualcuno che vuole farlo diventare tale assieme a tutta la nostra Penisola, e spostare il confine tra Europa e Africa dal Mediterraneo alle Alpi.
Avete visto dalle parti precedenti di questa serie di articoli che la scorsa estate è stata particolarmente “calda” per quanto riguarda le notizie che ci interessano circa la nostra eredità ancestrale. Oltre a tutto ciò che vi ho riportato, c’è dell’altro di cui sono venuto a conoscenza solo ora, ma si tratta di qualcosa di talmente importante che non mi sembra proprio sia il caso di sorvolare. Secondo quanto riferisce “The independent” dello scorso 11 giugno (articolo di David Keys), sarebbero state ritrovate le tracce di quella che almeno finora appare essere la più antica civiltà d’Europa e verosimilmente del mondo.
Le tracce sarebbero costituite da almeno 150 costruzioni megalitiche, comprendenti i resti di edifici religiosi, le tracce di fossati e palizzate a scopo difensivo, sparsi in una vasta area che comprende la Germania orientale, l’Austria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che avrebbe per epicentro la città di Dresda, e che risalirebbe a 2000 anni prima di Stonehenge e degli altri monumenti megalitici britannici. Lo ha annunciato l’archeologo Harald Staeuble, del Dipartimento di Stato per le Antichità della Sassonia.
Aspettiamo di saperne di più (sempre che su questa scoperta come su molte altre non cali la scure della censura accademica): la nostra immagine della preistoria europea appare tutta da ridisegnare, ma una cosa appare sempre più certa: l’Europa, e non il Medio Oriente, è stata la culla della civiltà umana.
Il 30 ottobre Focus.it ha riportato una notizia della quale vi avevo già parlato la volta scorsa, il ritrovamento di manufatti di origine chiaramente sapiens risalenti a 200.000 anni fa nell’isola greca di Naxos, ritrovamenti che imporrebbero di ridisegnare del tutto la più remota storia del nostro continente. Perché ne riparliamo ora? Perché l’articolo di “Focus” è davvero esemplare del modo in cui la scienza ufficiale e la cultura accademica cercano di risolvere l’incongruenza tra questi ritrovamenti e la “teoria generalmente ammessa”, o dovremmo dire piuttosto il dogma ufficialmente imposto dell’origine africana della nostra specie. Per “Focus” e per gli altri paladini dell’ortodossia che ci viene imposta, la soluzione è semplice: basta retrodatare ancora di un po’ a ogni nuova scoperta la fantomatica uscita dell’uomo dall’Africa. Non si rendono conto che quante più antiche prove rinveniamo della presenza dell’uomo in Eurasia, tanto meno l’Out of Africa diventa credibile? Davvero non può non venire in mente quel detto greco che afferma che gli dei fanno impazzire coloro che vogliono rovinare.
Il 2 novembre “The Telegraph” dà notizia di una ricerca archeologica condotta sul sito di Blick Mead che si trova a un solo miglio di distanza da Stonehenge, e che avrebbe permesso di individuare le tracce di quella che sembrerebbe essere la più antica “citta” britannica risalente addirittura a 10.000 anni fa. Secondo quanto riferisce il ricercatore Albert Lin, nel sito non sono stati rinvenuti resti umani, ma ben 70.000 strumenti litici e manufatti, i più antichi dei quali risalirebbero a 10.000 anni or sono, e testimonierebbero una presenza umana ininterrotta nel sito lungo l’arco di migliaia di anni. Data la vicinanza con Stonehenge si ritiene che gli abitanti di Blick Mead debbano aver avuto senz’altro parte nella costruzione del monumento megalitico, o esserne stati i costruttori.
Il 5 novembre Phys.org ha reso noto uno studio della dottoressa Rachel Sarig dell’Università di Tel Aviv condotto sui resti umani, in particolare dentali rinvenuti nella caverna di Manot nella Galilea occidentale. Questi ultimi sarebbero appartenuti a esseri umani anatomicamente moderni del tipo conosciuto come aurignaziano (da Aurignac in Francia dove furono ritrovati per la prima volta) e testimonierebbero di una migrazione avvenuta dall’Europa al Medio Oriente circa 38.000 anni fa.
Non è sorprendente? Finora l’Europa ci è sempre stata prospettata come punto di arrivo di colonizzatori provenienti sia dall’Africa, sia dal Medio Oriente. State a vedere che la realtà è esattamente opposta e che il nostro continente è stato invece un punto di irradiazione vuoi dell’umanità, vuoi della civiltà.
Passiamo ora dall’arco di tempo delle decine di migliaia di anni fa a un orizzonte più vicino a noi, già storico o perlomeno protostorico (ricordiamo che si considera protostoria quella dei popoli e delle culture che non ci hanno lasciato testimonianze dirette attraverso la scrittura, ma conosciamo per quanto ci hanno riferito altri popoli e altre culture entrate a contatto con loro. E’ questo indubbiamente il caso dei Sarmati, popolazione di ceppo indo-iranico affine agli Sciti che conosciamo soprattutto attraverso le testimonianze di scrittori greci e romani. Di essi sappiamo che erano eccellenti guerrieri, e fornirono a lungo all’esercito romano la cavalleria pesante, erano infatti sarmati i cavalieri catafratti, cioè corazzati. Con tutto ciò, le informazioni di cui disponiamo su di loro sono finora alquanto scarse.
Il 7 novembre il sito di “Georadar Italia”, associazione che appunto propugna l’uso di questo strumento non invasivo per l’indagine archeologica, ha pubblicato un articolo sugli Sconosciuti faraoni del Kazakistan. Forse il termine faraoni è eccessivo, ma le sepolture dei capitribù sarmati stanno rivelando un’inaspettata magnificenza. Nel 2018 nelle montagne Tarbagatai nel Kazakistan orientale fu scoperto un sepolcro risalente all’ottavo secolo avanti Cristo dal quale sono emersi almeno 3000 pezzi d’oro finemente lavorati. Quest’anno agli inizi di novembre nel Kazakistan occidentale vicino al villaggio di Taskop sono state rinvenute sepolture del quinto secolo avanti Cristo fra cui quella di un uomo di alto rango che giaceva sotto un tumulo alto tre metri e con almeno 60 metri di ampiezza, da cui sono emersi incensiere, punte di freccia, armi, piatti in ceramica ma soprattutto una quantità impressionante di gioielli che testimoniano un’oreficeria di grande qualità.
L’abbiamo visto altre volte: non è soltanto l’area propriamente europea a occidente degli Urali e del fiume Ural a essere snobbata dall’archeologia ufficiale sempre fissata sul Medio Oriente, ma anche questa regione a cavallo tra Ucraina, Kazakistan e Russia meridionale, dove troviamo la cultura Jamna, quella dei Kurgan e forse l’origine dei linguaggi e dei popoli indoeuropei.
Aridaje, come dicono i romani, termine quanto mai opportuno visto che è di Romani (quelli con la R maiuscola, gli antichi quiriti, che parliamo ora) rieccoci, “La Repubblica”, l’imparzialissimo giornale fondato da Eugenio Scalfari in un articolo dell’8 novembre ci spiega che Roma era “fin dalle origini” una città di immigrati, che l’esame del DNA sui resti degli abitanti della Città Eterna ha evidenziato la presenza di genomi provenienti dall’Anatolia, dall’Iran, dall’Ucraina. E’ la solita favola che ci raccontano per persuaderci che “siamo tutti migranti”.
“Fin dalle origini” certamente no, Roma sarà stata una città multietnica ai tempi del basso impero, e in ogni caso si tratta di una multietnicità relativa, di popolazioni rientranti sempre nel tipo umano caucasico.
Come dice il proverbio, “le bugie hanno le gambe corte”, infatti, nemmeno a farlo apposta, proprio il giorno prima, il 7 novembre “Gene Expression” aveva pubblicato un articolo di Razib Khan (un nome che permette di escludere qualsiasi sciovinismo italico) che è dedicato proprio allo studio della genetica dei Romani. La presenza di questi DNA allogeni copre in effetti una fascia temporale piuttosto ristretta, approssimativamente dal terzo al sesto secolo dopo Cristo, dopo di che si riscontra soltanto il tipico genoma italico. Evidentemente, questi gruppi di immigrati, che non dovevano essere molto numerosi, sono stati del tutto assorbiti dalla popolazione locale.
Ci provano, continuano a provarci, continueranno ancora a intontirci con le loro interessate favole multietniche, e noi dobbiamo avere ben chiaro che si tratta di menzogne, che l’etnia italica esiste, e si è mantenuta sostanzialmente coerente dalla preistoria fino a tempi recentissimi.
La faccenda, diciamolo, però è un pochino più complessa, perché “La Repubblica” ha ripreso i contenuti di un articolo precedentemente apparso su “Nature”. L’8 novembre “Survive the Jive” ha pubblicato un articolo che illustra sostanzialmente le stesse conclusioni di quello di “Genetic Expression”.
La “questione romana” sembra che di scalpore ne abbia destato parecchio, e anche “Science” ha preso posizione. Sempre in questo caldissimo (almeno da questo punto di vista) 8 novembre, ha pubblicato sull’argomento un articolo a firma di Margareth L. Antonio e altri, che si basa sull’analisi del DNA dei resti di un abitante di Palestrina vissuto fra il 600 e il 200 avanti Cristo, confrontato con quello degli europei attuali.
Quel che è emerso non ci sorprende. Sapevamo da un pezzo che i Romani antichi avevano caratteristiche più nordiche degli Italiani attuali (si vedano a questo riguardo le considerazioni di Adriano Romualdi nella sua corposa introduzione a Religiosità indoeuropea di Hanns F. K. Gunther). Il DNA di questo antico romano presenta maggiori affinità con i Ticinesi, i Francesi del sud, i Tedeschi dell’ovest che con i romani odierni, e addirittura è più vicino ai Danesi che ai campani. In ogni caso, siamo ben lontani dai “romani” levantini che “Nature” e “Repubblica” vorrebbero spacciarci.
Dispiace semmai il fatto che questo dibattito che riguarda le nostre origini abbia destato pochissima eco in Italia. Io a questo proposito posso ricordare che quella famosa ricerca su “Digilander” da cui prese le mosse quel mio contestato articolo sull’italianità, non è mai stata pubblicata in lingua italiana, a parte gli stralci da me tradotti e inseriti nell’articolo. Da noi è diffusa l’illusione che l’appartenenza nazionale sia un fatto soprattutto culturale e non etnico, e anche i nostri ambienti non ne sono esenti, un errore per cui rischiamo di pagare un prezzo altissimo.
Ora, si vede molto bene che in quel campo di battaglia che è divenuta la ricerca sulle nostre origini, gli schieramenti sono ben delineati. Ricorderete che proprio “Nature” ha aperto le danze sul progetto di africanizzazione della storia europea inventandosi i vichinghi multietnici, mentre “Survive the Jive” ha svelato come è stata costruita la bufala senza fondamento dell’attribuzione di una pelle scura all’uomo di Cheddar.
Bene, benissimo, noi non abbiamo paura di combattere.
Nota: nell’illustrazione legionari romani. Nel mese di novembre 2019 l’origine etnica dei Romani è stata al centro di un acceso dibattito.