Riprendiamo il nostro cammino di ricerca dell’eredità ancestrale dall’ultima decade di ottobre.
Come incipit di Ma davvero veniamo dall’Africa?, il mio secondo testo di saggistica storico-politica-archeologica (ho anche una produzione narrativa, ma lasciamo perdere), ho messo una frase che può sembrare provocatoria: “Volete la libertà e la democrazia? Dovete scegliere, non potete averle entrambe”. Sembra una provocazione, perché ci hanno abituati ad associare l’idea di democrazia a quella di libertà, ma in realtà non ho detto altro che la verità, infatti se oggi esiste un sistema tirannico, oppressivo, oscurantista, certo in maniera meno brutalmente evidente e più subdola delle tirannidi del passato, è proprio la democrazia.
Sabato 22 ottobre su “La Verità”, un articolo di Alessandro Rico, La scienza si censura per paura del razzismo, ci racconta qualcosa su cui tutti noi dovremmo riflettere, siamo forse alla vigilia di una restrizione della ricerca scientifica di tipo staliniano (pienamente democratica, antifascista, antirazzista e politicamente corretta, s’intende). Un articolo apparso su “Nature”, un tempo prestigiosa rivista scientifica, oggi scaduta al livello de “La Repubblica” e de “L’espresso”, un articolo che Rico definisce giustamente surreale, si richiede la messa al bando della genetica, scienza colpevole di fomentare “il razzismo”. Si reclama che l’accesso ai testi di genetica sia riservato a una minoranza di ricercatori selezionati, restando inaccessibili ai più, e che i testi di genetica prima di essere editi, siano visionati dai rappresentati delle minoranze etniche.
Per capire esattamente di che si tratta, dobbiamo ricordare che la parola “razzismo” ha subito in questi anni uno slittamento di significato da neolingua orwelliana, essa non indica più chi vanta la superiorità di una razza sulle altre o addirittura si propone di sopprimerne qualcuna, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono, cosa che la genetica non può non rilevare, trattandosi semplicemente di un fatto.
Una volta di più la “scienza democratica” si rivela non essere scienza, ma ciarlataneria, superstizione e reclama il ritorno all’oscurantismo.
La messa al bando della genetica, poi, è esattamente la stessa “riforma scientifica” operata in Unione Sovietica da Lysenko sotto l’egida di Stalin, che provocò il crollo dell’agricoltura sovietica, trasformando quello che nell’età zarista era il granaio d’Europa in una situazione di cronica insufficienza alimentare. Democrazia e stalinismo tendono oggi a diventare indistinguibili.
Noi, in ogni caso, andremo avanti, finché le forze ce lo consentiranno o la censura democratica non ci tapperà “democraticamente” la bocca.
A questo punto, non è difficile vedere che, nonostante gli sforzi – ho programmato di dedicare il mio spazio settimanale su “Ereticamente” interamente a L’eredità degli antenati dalla metà di novembre – le “code” del 2022 che rimangono sono ancora notevoli. Nel momento in cui stendo queste note, siamo alla fine di ottobre e restano ancora due mesi alla fine dell’anno, ed è prevedibile che in questo arco di tempo emergerà materiale per più di un articolo, anche se voi lo leggerete quando l’anno sarà trascorso.
Ricominciamo da qualcosa di piuttosto indietro, ma ormai lo sapete, il web è un mare magnum dove è difficile seguire tutto. In un articolo su focus.it del 14 ottobre Chiara Guzzonato ci parla della ricostruzione del volto di una donna paleolitica vissuta 31.000 anni fa, appartenente alla cultura aurignaziana, il cui teschio è stato ritrovato nella grotta di Mladek nella attuale Repubblica Ceca. Che dire? Se la incontrassimo per strada vestita con abiti moderni, con tutta probabilità non la degneremmo di attenzione, non appare minimamente diversa da una persona di oggi.
La ricostruzione è stata effettuata da un gruppo di ricercatori brasiliani guidati da Cicero Moraes.
E’ forse il caso di segnalare anche un breve post apparso il 16 ottobre su “RadioDruido”, post breve, ma che tratta una questione molto interessante. Il 16 ottobre è il giorno di san Gallo. Questo santo è raffigurato accompagnato da un orso, e secondo “RadioDruido” non sarebbe che la trasposizione cristiana del dio celtico Artio, appunto associato all’orso.
Riguardo a quest’ultima divinità, non può sfuggire la somiglianza del nome con la parola greca “arthos” che appunto significa orso, e viene da pensare che in origine si trattasse proprio dell’orso divinizzato, più tardi dotato di attributi umani, come è avvenuto ad esempio anche per le divinità animali egizie, e d’altra parte non sfugge neppure la somiglianza con Arthur, il mitico re Artù nel cui nome molti ravvisano appunto l’orso come animale totemico.
(Forse molti di voi ricorderanno che in anni che furono “Arthos” era anche il nome di una bella rivista di studi tradizionali).
Non si tratterebbe di un caso isolato, ad esempio in sant’Antonio abate, costantemente accompagnato da un maiale, molti hanno ravvisato la figura del dio celtico Lug, associato al cinghiale (nella versione cristiana si sarebbe preferita una versione più domestica di questo animale). Era prassi comune da parte della Chiesa all’epoca della cristianizzazione, quando non riusciva a sradicare il culto di una divinità pagana, “battezzarla” e trasformarla in un santo cristiano, così si sono creati molti santi inventati di sana pianta.
In qualche caso non ci si è neppure disturbati a cambiare il nome, così ad esempio Brigida, venerata dea del pantheon celtico è diventata tout court “santa” Brigida, e non parliamo delle festività. Samain (o Samhain), ricorrenza a cui i Celti erano attaccatissimi è diventata Ognissanti, e il 25 dicembre, data che segna la risalita del sole all’orizzonte dopo il solstizio d’inverno, dies natalis solis invicti nella tradizione romana, è diventato il compleanno di Gesù Cristo, il natale come lo conosciamo oggi. In realtà non si conosce l’anno preciso della nascita di Cristo (l’anno centrale della nostra cronologia è stato fissato in età medioevale a totale arbitrio), tanto meno la data esatta.
Vi ho più volte segnalato il fatto che alcune regioni italiane sembrano manifestare un interesse maggiore di altre per il loro/nostro passato, e se dovessimo stilare una classifica, il Veneto risulterebbe indubbiamente in testa. A ulteriore conferma di ciò, si può segnalare la mostra organizzata dal comune di Alpago (Belluno) La necropoli preromana di Pian de la Gnela, che espone reperti provenienti dalle necropoli di Pian de la Gela e di Staol, dal 22 ottobre al 12 novembre presso il Palazzo Comunale di Puos d’Alpago. Il curatore della mostra è Eugenio Padovan.
Torniamo a vedere cosa ci offre in questo periodo “Ancient Origins”. Continua la rassegna sulla mitologia greca. Un articolo di Robbie Mitchell del 26 ottobre è dedicato al Caos. Noi sappiamo che, a differenza della concezione ebraico-cristiana, secondo molte mitologie, compresa quella greca, gli dei non avrebbero creato il mondo dal nulla, ma l’avrebbero tratto dal Caos, ma il Caos stesso che cosa (o chi) era? Mitchell ci spiega che al riguardo sono possibili secondo la mitologia greca due diverse interpretazioni: una la vede semplicemente come un luogo o uno stato in cui il mondo si trovava prima dell’intervento ordinatore degli dei, secondo un’altra, sostenuta da alcuni autori classici, esso sarebbe stato invece una sorta di divinità primigenia. Trattandosi del Caos, non dobbiamo stupirci che al riguardo le idee degli antichi Greci fossero un po’ caotiche.
Passando alle tematiche di archeologia vera e propria, sembra essere il momento dell’archeologia vichinga. Il 26 ottobre Sahir ci racconta del ritrovamento di una ciotola di legno di età vichinga, fatto da un bambino di dieci anni, Erik Biskerund, che, mentre faceva canottaggio col padre sul fiume Giomma in Norvegia, ha notato l’oggetto nel letto del fiume. Il 27 è Ashley Cowie a parlarci del rinvenimento all’interno di un tumulo funerario a Viby / Norrtuna fuori Köping, nel Västmanland, in Svezia di due spade vichinghe e ornamenti di artigli d’orso, ma la notizia più sorprendente è di nuovo Sahir a darcela il 28 ottobre (tralasciamo qui il fatto che per noi è una data che ha un significato speciale), ci parla infatti del ritrovamento a Stjørdal, nella Norvegia centrale, vicino a Trondheim di un vero e proprio tesoretto di epoca vichinga costituito da ben 46 oggetti tutti d’argento: anelli, monete, bracciali.
Anche “The Archaeology News Network” ci parla di archeologia vichinga, infatti apprendiamo da un articolo del 17 ottobre di Julie Liljerot dell’Università di Oslo che ci parla della necropoli di Hunn a Østfold in Norvegia. Questo sito sepolcrale “E’ un ricco paesaggio culturale con oltre 145 tumuli funerari visibili che coprono un arco temporale di quasi duemila anni dalla tarda Età del Bronzo, 1100 a. C. alla fine dell’età vichinga, 1050 d. C.”
Qui l’archeologa Julie Lund dell’Università di Oslo ha fatto una scoperta abbastanza singolare: un tumulo funerario di età vichinga che è la quasi perfetta riproduzione di uno più antico di quasi 700 anni, risalente a quella che per noi è l’età romana. Noi non siamo i soli a voler far rivivere il passato, questa è un’aspirazione comune anche a chi ci ha preceduti, ricordiamo ad esempio a Roma la piramide Cestia, costruita a imitazione delle piramidi egizie di Giza, pur essendo molto più recente.
Ma l’archeologia vichinga non esaurisce le sorprese archeologiche di questo periodo. Un articolo di Ashley Cowie del 29 ottobre ci parla di un altro ritrovamento singolare, avvenuto però stavolta nella Repubblica Ceca. Qui, nella regione della Moravia-Slesia poco tempo fa (Cowie parla del “mese scorso”, quindi in settembre) un coltivatore di barbabietole, sradicando i suoi prodotti, si è trovato fra le mani un singolare artefatto, una lamina d’oro lunga 51 centimetri sormontata da fermagli. Inviata al museo di Opava, è risultata avere 2.500 anni e risalire alla tarda Età del Bronzo. Si è ipotizzato che facesse parte di una cintura, ma la cosa non sembra probabile. Le sue decorazioni paiono ispirate a concetti cosmologici, tanto che Cowie la definisce “soprannaturale”.
Se ve ne ricordate, ve ne avevo parlato in una precedente Eredità degli antenati. Vi sono indizi che fanno pensare che la cultura megalitica non sia nata sulle coste dell’Atlantico ma nell’Europa centro-orientale, dove sono state ritrovate strutture a terrapieno di forma circolare di età neolitica che gli archeologi hanno chiamato roundel e che sembrano essere stati i precursori dei circoli megalitici. Vi avevo anche segnalato che l’antichissimo circolo di Gosek in Germania, risalente a 7.000 anni fa, segna verosimilmente la transizione dalla struttura a roundel a quella megalitica.
Bene, il 22 settembre, citando come fonte il “Prague Morning”, “The Archaeology News Network” ci segnala la scoperta di un nuovo roundel ampio 55 metri a Vinoc, vicino a Praga, vecchio anch’esso di 7.000 anni. Il sito è collegabile alla cultura della Ceramica a Corda. Certo, siamo ancora molto lontani dall’avere una conoscenza completa di chi erano e cosa facevano questi nostri remoti antenati.
Arriviamo a qualcosa che riguarda l’Italia. Tutti noi conosciamo la storia delle Guerre Persiane e dell’eroica resistenza degli spartani di Leonida alle Termopili. E’ meno noto, però, che sul nostro suolo, mentre la Grecia affrontava la minaccia persiana, le colonie siciliane della Magna Grecia si trovavano ad affrontare un’analoga minaccia rappresentata dall’espansione cartaginese in Sicilia. Essa subì però un arresto di 70 anni grazie alla vittoria sui Cartaginesi riportata dalla coalizione greca a Himera nel 480 a. C. contemporaneamente alla battaglia delle Termopili.
Bene, secondo quanto riferisce un articolo del 10 ottobre firmato Duncan Howitt-Marshall, lo studio del DNA dei resti dei caduti “greci” inumati nella necropoli di Himera condotto da David Reich genetista dell’Università di Harvard ha dato risultati sorprendenti: molti di loro non sarebbero affatto greci, ma proverrebbero dall’Europa centrale e orientale, dall’Ucraina e perfino dal Baltico. Si tratterebbe di mercenari stranieri ingaggiati dalle città greche. Secondo Reich, il ruolo di questi mercenari sarebbe stato poi minimizzato o nascosto dagli storici greci per esaltare il valore dei loro concittadini.
Rimaniamo nella nostra Penisola, la cui storia remota probabilmente non conosciamo bene come crediamo. Per esempio, qualcosa che siamo ben lontani da aver penetrato in tutti i suoi aspetti, è il mondo etrusco.
Su ArcheoMedia del 29 ottobre troviamo un articolo di Michele Zazi dedicato alla classe sociale etrusca dei lautni. Di essi sappiamo veramente poco, non più di quel che si può rilevare da una manciata di iscrizioni funerarie, è incerto se si trattasse di una classe di liberti, schiavi affrancati, o invece di persone libere ma legate da una serie di obblighi alle famiglie gentilizie al modo dei clientes romani.
Tuttavia, si può osservare che colpisce la somiglianza del termine lautni con latini. Era abitudine nelle società schiaviste che il nome etnico delle popolazioni presso le quali venivano razziati gli schiavi, assumesse il significato di schiavo, servitore. Così ad esempio nel latino medioevale sclavus da cui deriva il nostro termine schiavo sostituì servus del latino classico perché all’epoca era presso le popolazioni slave che le persone destinate al servaggio erano perlopiù razziate. Allo stesso modo, il termine lautni potrebbe essere un forte indizio del fatto che si trattasse di schiavi o liberti di origine latina.
Se non altro, in conclusione, si può dire che il periodo di almeno relativa rarefazione delle ricerche che ha caratterizzato l’estate sembra ormai dietro le spalle, e più cose scopriamo sui nostri antenati, tanto più ci rendiamo conto di quante ve ne siano ancora da scoprire.
NOTA: Nell’illustrazione, un bassorilievo medioevale che raffigura san Gallo che nutre l’orso con del pane (da RadioDruido).
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