Riprendiamo le nostre ricerche sull’eredità ancestrale all’incirca dalla metà di novembre 2020, anche se è facile prevedere che voi non leggerete questo scritto prima del’anno nuovo, stanti da un lato i tempi tecnici della nostra pubblicazione, dall’altro la massa di nuove informazioni che si è accumulata soprattutto nella seconda parte dell’anno, sebbene io abbia dedicato a L’eredità degli antenati tutti i miei articoli nei mesi di novembre e dicembre, proprio per non trascinarmi nel 2021 una “coda” eccessiva dell’anno trascorso, ma a quanto pare, non è bastato.
Ho il sospetto che ciò sia in qualche modo legato alla pandemia di covid19. E’ verosimile che i ricercatori abbiano preferito fare ricerche sul campo, magari in qualche località isolata, piuttosto che tenere lezioni, e gli ambienti accadamici, per quante precauzioni si prendano, non sono del tutto privi di rischi.
Ma veniamo a ciò che possiamo trovare più di recente. “The Archaeology News Network” presenta un link che rimanda al Calendario dell’Olocene proposto nel 1993 dal geologo italiano naturalizzato statunitense Cesare Emiliani. L’idea è semplice: quella di aggiungere 10.000 anni alle datazioni attuali, per cui adesso ci troveremmo nel 12020 nel momento in cui scrivo, o nel 12021 in quello in cui voi leggerete l’articolo. I vantaggi sarebbero questi, l’anno zero non sarebbe più legato alla nascita (peraltro ipotetica) di Cristo, ma alla fine dell’ultima glaciazione, e sarebbe più accettabile da parte di coloro che non fanno parte della cultura cristiana-occidentale, e non ci sarebbe la seccatura di scrivere le date dell’età antica a ritroso, rendendole poco comprensibili.
L’aspetto più interessante, in questa presentazione del calendario Emiliani è però rappresentato dagli eventi chiave citati in questa cronologia: vi si trovano citati la costruzione di Stonehenge e il ritrovamento di Warren Fields, il più antico calendario conosciuto, rinvenuto in Scozia, costituito da una serie di dodici buche in cui dovevano essere infissi dei pali, traguardando i quali all’alba era possibile determinando la posizione del sole, capire in quale mese ci trovassimo, il più antico indizio certo di misurazione del tempo. Vediamo insomma che l’ortodossia “scientifica” in campo archeologico che pretende la civiltà nata in Medio Oriente e ignora o minimizza il ruolo dell’Europa, sta finalmente iniziando a mostrare delle crepe.
Recentemente, il nostro amico Gianfranco Drioli che suppongo tutti voi ricorderete come autore dei due splendidi libri Ahnenerbe e Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta (entrambi edizioni Ritter), mi ha inviato il PDF di un libro uscito nel 2019, e scusate se ve ne parlo adesso, ma come sapete, sia internet, sia, e tento più l’editoria cartacea sono un mare magnum dove è impossibile riuscire a seguire tutto. Si tratta del testo Chi siamo e come siamo arrivati fino a qui del genetista David Reich (Raffaello Cortina editore).
Il libro vuole ripercorrere la storia biologica dell’umanità sulla base delle ricerche genetiche, in particolare l’analisi del DNA antico sviluppata da Svante Paabo ed è, come era forse prevedibile, sostenitore della più rigida ortodossia circa la presunta origine africana della nostra specie, ma c’è un grosso ma, la sua ricerca ha evidenziato non solo il fatto che le razze umane esistono, ma che le diverse razze umane hanno una diversa morbilità, cioè la tendenza ad ammalarsi di diverse malattie, ad esempio gli afroamericani sono colpiti dal cancro alla prostata con un’incidenza del 17% superiore a quella della popolazione americana di origine europea.
Come se ciò non bastasse, la stessa ricerca ha evidenziato che ciò non dipende da fattori sociali o ambientali, ma unicamente dal fatto genetico, perché gli afroamericani che hanno nel loro DNA una maggiore componente bianca sono meno esposti a questa patologia pur vivendo nelle stesse condizioni degli altri.
Risultato? Avendo presentato gli esiti della sua ricerca in vari convegni scientifici, Reich è stato accusato di razzismo (che, come sappiamo, per la democrazia è il Peccato dei Peccati), esattamente come è capitato ad Arthur Jensen per le sue ricerche sull’intelligenza.
Ora è facile rendersi conto di quanto sia grottesca la situazione: il dogma democratico dell’inesistenza delle razze umane è completamente falso, smentito da qualsiasi ricerca scientifica seria, e i ricercatori che se ne accorgono e semplicemente hanno l’onestà di lasciar parlare i fatti, sono regolarmente bollati di razzismo, ma se le cose stanno in questi termini, non sono loro a essere razzisti, ma la natura stessa. In tempi di oppressione, diceva George Orwell, dire la verità è un atto rivoluzionario, e la democrazia è un sistema oppressivo.
L’altra considerazione è che comprendere la morbilità su base genetica delle diverse popolazioni umane, potrebbe essere di grande aiuto per prevenire l’insorgenza di molte malattie, ma la salute della gente, evidentemente, non conta nulla rispetto all’esigenza di non mettere in discussione i dogmi della democrazia.
Vi ho detto all’inizio di questo articolo che oggi l’ortodossia “scientifica” dell’ex Oriente lux, della leggenda dell’origine mediorientale della civiltà sembra finalmente mostrare le prime crepe. Forse però la crisi è più profonda di quanto avevamo immaginato, e non riguarda soltanto l’ex Oriente lux, ma tutto l’impianto “scientifico” o scientistico che è stato imposto alla nostra cultura dal 1945 in poi. In particolare, abbiamo già visto che una pubblicazione scientifica “di spessore” come “Ancient Origins” ha negli ultimi tempi dedicato uno spazio inaspettato a questioni “eterodosse” come la misteriosa isola di Hi Brazil e Atlantide che secondo una recente ipotesi potrebbe essere identificata con l’Irlanda.
A quanto pare, si continua su questa falsariga. L’articolo del 18 novembre firmato Walter Cruttaden si chiede se l’età dell’oro potrebbe essere solo un mito, o non invece una realtà storica. Walter Cruttaden si rifà alle tesi esposte da Giorgio de Santillana e Herta von Dechend in Il mulino di Amleto. I due autori di questo testo eterodosso, come sappiamo, si basano sul fenomeno astronomico della pressione degli equinozi e l’idea che il “cambiamento dei cieli” influenzerebbe profondamente il mondo umano, così come è testimoniato dalle tradizioni di moltissime culture.
Un ciclo processionale completo, con il ritorno delle stelle ai loro punti di partenza, avverrebbe nell’arco di 24.000 anni. In questo immenso arco di tempo vi sarebbe un alternarsi di epoche “auree” ed età “oscure”. Come si vede bene, si tratta di una concezione di tempo ciclico che taglia radicalmente le gambe alla concezione del progresso, all’idea della storia come sviluppo lineare e ascendente.
Cruttaden sottolinea che non siamo qui nel campo di una pura speculazione astratta, ma che vi sono dei riferimenti storici concreti, ad esempio il tempio preistorico di Gobeckli Tepe, risalente a un’epoca in cui si supone che il nostro mondo fosse abitato soltanto da tribù di cacciatori-raccoglitori per le quali la realizzazione di un’opera simile sarebbe stata del tutto al di fuori della loro portata, e altri rinvenimenti su cui la scienza archeologica ufficiale ha steso un velo di silenzio, ricordiamo ad esempio i numerosi oggetti anomali la cui esistenza non trova spiegazione nella versione della nostra storia che ci viene ufficialmente raccontata.
L’autore dell’articolo fa due esempi, le antiche pile elettriche che sono state trovate a Babilonia e quell’altro ancor più inquietante meccanismo che è stato ritrovato ad Antikithera e che secondo alcuni sarebbe una sorta di antichissimo computer, ma sappiamo che ne esistono molti altri, al punto da aver dato origine a una sorta di disciplina – ovviamente priva di riconoscimenti accademici ufficiali – che studia appunto quelli che sono chiamati Ooparts (Out of Place Artifacts), cioè gli oggetti “fuori posto”, che in base alla concezione ufficiale della nostra storia non dovrebbero esistere.
Non dimentichiamo poi che interi capitoli della nostra storia sono stati strappati, ad esempio, la furia vandalica dei conquistadors spagnoli che hanno distrutto tutti i codici delle civiltà mesoamericane, talvolta vecchie di migliaia di anni, ha ricacciato queste ultime nel buio della preistoria. Forse non è un caso che l’artista Juan Carlos Barquet, per visualizzare l’Età dell’Oro nell’articolo su “Ancient Origins”, abbia scelto proprio le piramidi maya. Una suggestiva illustrazione che mi permetto ora di riprodurre.
“The Archaeology Magazine” del 13 novembre ci informa che un team di ricercatori norvegesi guidati dall’archeologa Anja Roth Niemi ha rivenuto tracce di un insediamento e la sepoltura di un uomo (probabilmente un guerriero, perché accanto allo scheletro è stata rinvenuta un’ascia) risalenti all’Età del Ferro a Gimsoya nelle isole Lofoten.
Le isole Lofoten si trovano oltre il Circolo Polare Artico, e finora si riteneva che la presenza umana nelle terre oltre il Circolo Polare fosse molto più recente.
La mitologia nordica è oggi senz’altro molto meno conosciuta di quella classica, sebbene si tratti di una materia tutt’altro che priva di interesse, fa perciò piacere segnalare che il 20 novembre è comparso su “Ancient Origins” un articolo di Aleksa Vukovich dedicato alla leggenda di Wayland il fabbro. Questa leggenda quasi dimenticata era un tempo molto nota nel mondo nordico, tanto è vero che troviamo diverse varianti del nome del protagonista: Valund e Valentr in norreno antico, Wiolant nel vecchio alto tedesco, Welandu in antico frisone, Galant in francese antico e Waland in antico inglese.
Secondo la leggenda, Wayland era un abilissimo fabbro. Un re malvagio, N’uàr, lo fece catturare e imprigionare in un’isola remota per essere il solo a potersi servire della sua abilità di artefice, e per impedirgli di fuggire, gli furono recisi addirittura i tendini delle gambe, ma Wayland fabbricò un mantello alato o che comunque gli permetteva di volare, fuggì e si prese una crudele vendetta sui figli di N’uàr. Una leggenda che ha punti di contatto con quella di Icaro, anche se oggi la figura dell’uomo volante munito di mantello ci fa forse pensare di più a un supereroe Marvel.
Una delle testimonianze più importanti della leggenda di Wayland si trova nel sarcofago di Franks. Si tratta di un sarcofago di petra risalente all’VIII secolo di fattura anglosassone rinvenuto in Inghilterra e che oggi si trova al British Museum. Finemente decorato con incisioni e rune anglosassoni, presenta immagini di vari cicli mitologici. Sullo stesso lato è riprodotta in un riquadro la leggenda di Wayland, e nell’altro un’adorazione dei magi: una chiara testimonianza del sincretismo tra paganesimo e cristianesimo che regnava in quei secoli.
Caso strano: quando la religione del Discorso della Montagna ha avuto completamente (o almeno così è parso) partita vinta sul paganesimo, sulla spiritualità europea autoctona, cosa che per la verità non è avvenuta che molto tardi, è iniziato un processo di secolarizzazione dell’Europa, lento ma progressivo e inarrestabile, come se gli uomini europei rifuggissero da qualcosa che in definitiva è loro estraneo.
Il 20 novembre sembra proprio essere una giornata clou per l’archeologia dell’Europa settentrionale, infatti in questo giorno abbiamo anche due articoli su “The Archaeology Magazine”. Il primo riguarda il ritrovamento nel sud dell’Inghilterra di un monumento dell’Età del Bronzo finora sconosciuto, precisamente a Poole nei pressi della New Forest (la zona è parco nazionale, ed è famosa per una razza di cavalli, i New Forest ponies, che vi vivono allo stato brado), un team di archeologi della Bournemont University guidato da John Milward ha individuato un sito funerario risalente a un’epoca fra il 1.500 e il 1.100 avanti Cristo.
Sono state riportate alla luce cinque urne contenenti resti umani cremati. Non è però tutto, perché sono state anche trovate le tracce di un insediamento mesolitico che il ritrovamento di alcuni gusci di nocciole ha permesso di datare a un periodo tra il 5.736 e il 5.643 avanti Cristo.
Sempre da “The Archaeology Magazine” del 20 novembre, si può menzionare la scoperta a Soham nell’Inghilterra orientale, di due sepolture dell’Età del Bronzo. Questo, e scusatemi se sono ripetitivo, ci riporta a un dubbio che ho più volte espresso: ma davvero l’Inghilterra ha un patrimonio archeologico più ricco del nostro, o non accade piuttosto che gli Inglesi abbiano per il loro passato un’attenzione che da noi non si riscontra?
Una sgradita sorpresa: il secondo pezzo di cui avevo intenzione di parlarvi, sembra scomparso nel momento in cui mi sono accinto alla stesura di questo articolo. Vi posso però dire che esso, dedicato a Cosa ci può dire un nome norreno, riferiva il caso piuttosto insolito di un antico porto fluviale vichingo il cui sito è stato individuato in base a una ricera sui toponimi. È un peccato che, non so per quale motivo, “The Archaeology Magazine” abbia rimosso l’articolo. Certamente l’archeologia nordica è ancora ricca di sorprese, un mondo affascinante che per certi versi conosciamo davvero poco.
Rimanendo sempre in argomento, si può anche citare il fatto che sempre in questo straordinario 20 novembre è comparso sul gruppo FB “MANvantara” un link a un articolo comparso su un sito in lingua inglese, “Curiosmos”, dedicato a Iperborea, la mitica terra oltre il vento del nord di cui hanno parlato gli autori classici, “Casa degli dei e terra di giganti”. L’articolo, comunque interessante vista la scarsità del materiale disponibile sul mito iperboreo, in realtà non aggiunge moltissimo a quanto raccontato nel libro di Drioli, salvo menzionare la teoria del ricercatore britannico John C. Bennett che in un articolo del 1963, The Hyperborean Origins of the Indo-european Culture, propose una tesi interessante: identificando i monti Rifei che secondo la tradizione dividono Iperborea dal mondo conosciuto, con gli Urali, ipotizzò che Iperborea sarebbe stata la Siberia, e a sostegno di ciò va il fatto che nella regione degli Urali si trovano imponenti e tuttora non studiate costruzioni megalitiche.
Forse non ci è capitato mai di vederlo altrettanto bene come in questa parte della nostra ricerca delle origini: se lasciamo la nostra bussola libera di ruotare, l’ago punta decisamente verso il nord, ed è fortissima la sensazione che tutti quelli che guardano verso l’Africa e il Medio Oriente stanno guardando nella direzione sbagliata.
NOTA: L’illustrazione è tratta da “Ancient Origins” del 18 novembre, dove correda l’articolo di Walter Cruttenden: L’età dell’oro come è stata immaginata dall’artista Juan Carlos Barquet.
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