Al momento in cui riprendo in mano queste note sulla nostra eredità ancestrale, è di poco passata la metà di aprile, anche se come al solito, non oso fare previsioni sul momento in cui questo scritto sarà pubblicato. Prima di vedere quali novità ci riserva questo periodo, vorrei darvi un’ulteriore precisazione circa una questione che abbiamo visto la volta scorsa nella sessantatreesima parte. Come ricorderete, io avevo riportato un comunicato ANSA del 31 marzo, che raccontava del ritrovamento dei resti di un cane in una sepoltura dell’Arabia Saudita risalente a 4000 anni fa, e faceva risalire a tale epoca l’addomesticamento del nostro compagno a quattro zampe. Io obiettavo che esso invece dovesse risalire a un’epoca molto più antica, alla luce di due fatti: che esso è stato addomesticato da tutte le popolazioni della Terra, comprese quelle più primitive che non allevano altri animali, e il gran numero di taglie e razze che la specie canina presenta, che non potrebbero essere altro che il frutto di un allevamento e di una selezione protrattisi per parecchi millenni.
Bene, ho fatto un piccolo controllo, il libro La straordinaria storia dell’uomo di Piero e Alberto Angela (Mondadori 1989, quindi non si tratta certo di una novità, ma di qualcosa di cui i redattori dell’ANSA sarebbero dovuti essere informati), parla (pag. 318) del ritrovamento di una sepoltura neolitica di 12.000 anni fa, contenente lo scheletro di un ragazzo sepolto stringendo fra le braccia un cucciolo, probabilmente il suo cane. L’addomesticamento del nostro migliore amico risale dunque almeno a quell’epoca.
Il 17 aprile il nostro amico Gianfranco Drioli ci ha segnalato una vicenda che ha dello sbalorditivo, a proposito della quale è appena uscito un video in lingua spagnola su You Tube, e un articolo in lingua italiana su un blog che si chiama “Te lo diciamo noi, se vuoi”.
La storia, nella sostanza, è questa, nel 1969, in una miniera di carbone nei pressi del villaggio di Rzhavchik Tisulskago nella regione di Kemerovo, in Russia sarebbe stato trovato un sarcofago di marmo che una volta aperto ha mostrato di contenere il corpo perfettamente conservato, immerso in un liquido che non è stato analizzato, di una donna di circa trent’anni. Svuotato il sarcofago dal liquido, il corpo della donna ha cominciato a deteriorarsi. Le autorità sovietiche che, come abbiamo visto altre volte, si sono sempre dimostrate ostili alle ricerche sulla preistoria, avrebbero messo tutto a tacere, e i testimoni del ritrovamento sarebbero perlopiù morti in alcuni strani “incidenti”.
Quello che però rende davvero sbalorditi e perplessi è la datazione, 800 milioni di anni, vale a dire il periodo carbonifero, molto prima dell’esistenza, non solo degli esseri umani, ma anche dei dinosauri.
A mio parere, se la vicenda è autentica, potrebbe trattarsi di un’intrusione. Per dirla nei termini più semplici possibile, se mi metto a scavare una buca abbastanza profonda, posso raggiungere strati geologici vecchi di decine o centinaia di milioni di anni, se deposito lì un oggetto moderno, un archeologo del futuro potrebbe attribuire quell’oggetto alla stessa età degli strati geologici, e attribuire l’invenzione della lampadina, della penna a sfera, del cellulare al miocene o al giurassico.
800 milioni di anni sarà l’età degli strati carboniferi della miniera, ma non della donna, non c’erano esseri umani nel carbonifero.
Le intrusioni sono qualcosa cui gli archeologi preferiscono non pensare, ma con cui devono tuttavia fare i conti. Un caso a suo tempo famoso, fu quello dell’uomo di Galley Hill, i cui resti furono trovati in Inghilterra negli anni ’30, cui fu attribuita un’età di milioni di anni, salvo poi accorgersi che si trattava di una sepoltura neolitica che era stata scavata molto in profondità, fino a raggiungere strati ben più antichi. Questo caso, e l’altro, quello dell’uomo di Piltdown, poi rivelatosi un falso, persuasero gli Inglesi, immaginiamo con quale rincrescimento, che forse le origini dell’umanità andavano ricercate fuori dalle Isole Britanniche
La donna, che è stata chiamata principessa Tisulsky, è stata descritta così:
“Una donna snella, di insolita bellezza, di una età apparente di 30 anni, con caratteristiche somatiche europee e grandi occhi azzurri spalancati. I suoi capelli erano folti, di colore marrone scuro con una sfumature rossastre, leggermente arricciati e cadenti sul petto. Ai suoi lati le morbide mani bianche con corte e ben tagliate unghie”.
Nel 1973 è stato scoperto nella zona un cimitero di età neolitica. Non è escluso che la “principessa Tisulsky” appartenesse alla stessa epoca.
Una recente analisi del DNA dei resti della principessa Tisulsky avrebbe rivelato un profilo genetico del tutto compatibile con quello della popolazione russa attuale, e questo è un dato importante, che contribuisce a rendere sempre più fragile la teoria, l’ipotesi o la favola di una nostra presunta ascendenza africana. Ci conferma una volta di più, a dispetto dei patiti dell’africano-centrismo che gli Europei sono sempre stati europei.
Era prevedibile che proprio la Russia e i Paesi dell’Europa orientale si sarebbero rivelati il nuovo Eldorado dell’archeologia, proprio perché, lo abbiamo visto, durante il periodo sovietico questo genere di ricerche è stato trascurato e avversato e i ricercatori che si ostinavano a occuparsene sono stati addirittura oggetto di persecuzioni da parte di quei regimi. Negli ultimi tempi, ne fanno fede le notizie sull’argomento che ho riportato negli articoli immedatamente precedenti a questo, si è riacceso l’interesse attorno all’antico popolo degli Sciti, nei cui confronti le ricerche archeologiche e la genetica sembrano essere finalmente in grado di riempire le lacune dovute alla scarsità o alla mancanza di fonti scritte.
Tuttavia, bisogna ammetterlo, il contenuto dell’articolo pubblicato da Ashley Cowie su “Ancient Origins” il 18 aprile è tanto sorprendente da far sobbalzare.
Stando ad esso, Sergei Shoigu, ministro della difesa russo e stretto collaboratore del presidente Vladimir Putin avrebbe annunciato l’intenzione di clonare il DNA degli antichi guerrieri sciti. Per realizzare un simile intento, Shoigu avrebbe suggerito in particolare il sito funerario di Arzan nella repubblica autonoma di Tuva, un luogo noto anche come “la valle dei re”, che forse non sarà ricco come l’omonima località egiziana, ma certo tale da avere un notevole interesse, da cui si spera di ricavare campioni di DNA sufficientemente integri.
Un Jurassic Park in versione (per fortuna) umana? Sembra più fantascienza che qualcosa che possa rientrare nelle nostre possibilità attuali. La Russia spera col DNA scitico di creare una stirpe di super-guerrieri? Shoigu vorrebbe clonare anche i cavalli degli Sciti, che venivano sepolti coi loro padroni. Ammesso che questi ultimi costituissero una razza speciale, c’è davvero da chiedersi quale ruolo potrebbero avere ancora delle unità a cavallo nelle guerre meccanizzate di oggi e del futuro. Sospetto che ci sia da augurarsi che il ministro della difesa russo torni un po’ con i piedi per terra.
Rimaniamo per il momento su “Ancient Origins”. Una cosa che non cessa di stupirmi, è la capacità che hanno a volte i ricercatori di scoprire come qualcosa di inedito, ciò che è del tutto ovvio. Per esempio, come ha fatto la nostra specie, che non ha né artigli né zanne, non solo a sopravvivere ma a diventare la specie dominante di questo pianeta? Magari sospettate che ciò sia dovuto all’intelligenza, alla creatività, all’elasticità mentale che le hanno permesso di elaborare strategie sempre più efficienti per risolvere i vari problemi?
Bene, rimarrete sorpresi, leggendo l’articolo di Prisha Ago del 22 aprile, nello scoprire che è proprio così, ce lo conferma un team di ricercatori dell’università di Granada che avrebbe individuato una sequenza di 267 geni presente nell’uomo e non nello scimpanzé, che parrebbe appunto connessa all’intelligenza e alla creatività.
Io vi ho spiegato più volte il concetto che se, come è ormai accertato dalla paleogenetica, gli uomini “anatomicamente moderni” si sono ripetutamente incrociati con gli uomini di Neanderthal e di Denisova dando luogo a una discendenza fertile, noi, questo significa che appartenevano tutti e tre alla stessa specie, Homo sapiens, non ha quindi alcun senso pretendere che essa sia “uscita dall’Africa” alcune decine di migliaia di anni fa, quando già popolava l’Eurasia da centinaia di migliaia di anni.
Bene, a quanto pare, le prove in questo senso si stanno facendo sempre più chiare ed evidenti. Un articolo del 24 aprile di Nathan Falde ci racconta di una ricerca condotta da un team di genetisti dell’Istituto Pasteur di Parigi sul DNA di 317 persone provenienti da 20 popolazioni diverse isolane del Pacifico, e hanno riscontrato in tutti i casi la presenza di una componente di DNA denisoviano. Gli incroci più recenti, datati attorno a 15.000 anni fa, non sembrano provenire da incroci avvenuti in Asia prima che gli antenati di questi isolani imboccassero la via del mare, ma nelle isole stesse, il che fa pensare che gli uomini di Denisova già disponessero di qualche forma di navigazione.
Un articolo di Rudra Bushan del 22 apirle ci racconta che nel sito del castello di Wildenberg nella regione Nord Renania-Westfalia (Germania), qui è stata ritrovata una vera e propria armeria dell’Età del Ferro, comprendente 150 oggetti datati tra il III secolo avanti Cristo e il I d. C., fra cui 40 punte di lancia, spade, umboni di scudo, fibule, finimenti per cavalli. Il ritrovamento è opera della Associazione Regionale della Westfalia-Lippe (LWL) di Lippstadt. Secondo Michael Waales, portavoce della LWL, si tratterebbe del più grande deposito di armi di età preistorica mai rinvenuto in questa parte della Germania, al termine di un lavoro di tre anni. Parrebbe trattarsi di un bottino di guerra, alcune spade sono piegate in un modo che non può essere avvenuto in battaglia, si suppone che in tal modo fossero “sacrificate” agli dei, e questo è un uso tipicamente celtico.
Approfondiamo il discorso sulla metallurgia. Un articolo di Ashley Cowie del 23 aprile ci porta nel sito di Ribe in Danimarca, esattamente nello Jutland sud-occidentale. Ribe è considerata la più antica città della Scandinavia, e doveva essere un centro specializzato nella metallurgia. Qui sono stati rinvenuti numerosi crogioli di età vichinga, risalenti all’VIII e IX secoli. Le tracce di fusione in essi conservate hanno permesso di seguire l’evoluzione delle tecniche di lavorazione dei metalli. Esse sono state analizzate da un team di ricercatori dell’università di Aarhus guidato dalla dottoressa Vana Orfanou. Si è notata una sostanziale evoluzione, con il passaggio da leghe casuali dovute all’impurità dei minerali, a un uso sempre più raffinato, ad esempio, nell’ottone largamente usato per la produzione di fibule e spille, diminuisce man mano la quantità di piombo e aumenta quella di zinco.
Non vi è dubbio che i vichinghi fossero non solo eccellenti guerrieri, ma anche abili artigiani.
Di nuove scoperte riguardanti l’area centroeuropea, in questo periodo si occupa anche “The Archaeology News Network”. Un articolo del 23 aprile (Fonte: Swissinfo) ci parla del ritrovamento dei resti di un villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo, datato all’incirca al 1000 avanti Cristo, sul fondo del lago di Lucerna. La scoperta è avvenuta ad opera dei ricercatori del Centro di Archeologia Subacquea di Zurigo/Cantone di Lucerna, ed è stata determinata dalla posa di una conduttura sul fondo del lago. Essa dimostra che l’area di Lucerna era abitata già 3000 anni fa.
Se ci spostiamo più a sud, nell’area mediterranea, apprendiamo che anche qui le novità non mancano. Sempre “The Archaeology News Network” in un articolo del 21 aprile (Fonte: Università Autonoma di Barcellona) dà notizia dei risultati di uno studio condotto dai ricercatori della stessa università sui resti ovini rivenuti nella grotta di Chaves vicino a Huesca (Pirenei centrali), diretto da Maria Sana, coordinatrice del dipartimento di archeologia dell’UAB. La grotta era utilizzata come ovile naturale nel periodo neolitico oltre 7500 anni fa (5600-5300 avanti Cristo). Si è riscontrato che i pastori di allora erano già riusciti a modificare i cicli naturali di riproduzione degli ovini allungando i periodi di fertilità, con la nascita di agnelli anche in autunno-inverno, questo probabilmente grazie al fatto che avevano imparato a nutrire il bestiame nella brutta stagione con foraggio, come avrebbe dimostrato una ricerca sui coproliti.
Le tecniche di zootecnia appaiono dunque essere considerevolmente più avanzate di quanto si ritenesse riguardo all’età neolitica.
Sempre in questo periodo, “The Archaeology Magazine” ha presentato in anticipo il numero di maggio-giugno e anche qui abbiamo, oltre ad articoli sui ritrovamenti di cui vi ho già parlato e che adesso non sto a ripetere, ulteriori informazioni sull’archeologia centroeuropea, che sembra proprio aver fatto un balzo in questo periodo, in particolare un articolo di Jarrett A. Lobell che ci parla dei Cigni dell’Età del Bronzo. Di che si tratta? Si tratta di una serie di lampade in metallo, generalmente bronzo, a forma di un uccello acquatico, probabilmente un cigno, tutte molto simili fra loro, risalenti a un periodo fra la tarda Età del Bronzo e l’età antica (1300-500 avanti Cristo) che sono state ritrovate in una vasta area compresa tra Ungheria, Slovacchia, Italia, Bosnia-Erzegovina.
Ora, secondo l’archeologo Filip Ondrkál che si è soffermato in particolare su di un esemplare recentemente rinvenuto nel sito di Liptovský Hrádok nel nord della Slovacchia, queste lampade avrebbero avuto un uso cerimoniale connesso con i riti funebri, e testimoniano di una cultura comune, o perlomeno di usanze culturali simili esistite all’epoca in una vasta area dell’Europa?
Ora, a parte il fatto che anche l’Italia è stata marginalmente interessata dal fenomeno delle lampade-cigno, in questo periodo stranamente vulcanico che ha visto un exploit archeologico concentrato nel giro di pochi giorni, non c’è proprio nulla che riguardi la nostra Penisola?
Beh, qualcosa c’è, lo hanno riportato RAI news del 21 e poi “Scienze notizie” del 25 aprile. Sulla spiaggia del golfo di Baratti in provincia di Piombino i lavori di scavo per la posa in opera di una tubatura hanno portato alla luce due sepolture etrusche e una di epoca romana, con ancora una parte dei rispettivi corredi funebri, sebbene si pensi siano state già violate dai tombaroli. Si tratterebbe di inumazioni riconducibili all’antica città etrusca di Populonia.
La cosa paradossale, è che queste inumazioni si trovavano a poche decine di centimetri dalla superficie dell’arenile, era quasi possibile che qualche bagnante, scavando un pochino più in profondità per fare un castello di sabbia, le rinvenisse insieme agli scheletri in essa contenuti. Ora la Soprintendenza delle Belle Arti di Pisa e Livorno sta setacciando la spiaggia alla ricerca di qualche altro reperto importante prima dell’inizio della stagione estiva e dell’arrivo dei bagnanti.
NOTA: Nell’illustrazione, la “principessa Tisulsky” (da “Te lo diciamo noi, se vuoi”).
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