Ricominciamo la nostra disamina più o meno dalla metà di marzo, e questa volta vi citerò brevemente un sito, dagli intenti peraltro pubblicitari, “Cloud Wanders” che ci da una notizia riguardante l’isola estone di Kinhu.
Qui, ci viene detto, “le donne hanno scambiato i ruoli con gli uomini più di 2000 anni fa. Gli uomini indossavano grembiuli, mentre le donne indossavano armature pesanti e si lanciavano in battaglia.
E’ un discorso che abbiamo già visto altre volte, ma tanto vale riprenderlo. Oggi, più che un discorso di parità fra uomo e donna, sembra si voglia andare a una totale intercambiabilità dei sessi, a dispetto di tutte le differenza fisiche e psicologiche, e si vanno a cercare nel passato esempi storici di comunità di amazzoni, come a voler dare consistenza storica alla favola di Wonder Woman.
Abbiamo già visto che in passato comunità di amazzoni sono effettivamente esistite, ma che il “modello amazzone” è risultato complessivamente perdente rispetto a quello che riservava le armi alla popolazione maschile. Il motivo di ciò non consiste nella prevaricazione maschile verso le donne e, in ultima analisi, nemmeno nella superiorità di forza fisica dell’uomo sulla donna, ma in un fatto biologico molto importante: una donna può, nel corso della sua vita fertile, avere solo un numero limitato di gravidanze, mentre un uomo potrebbe teoricamente fecondare un numero di donne pressoché illimitato. Questo significa che mentre i vuoti nella popolazione maschile potrebbero essere colmati con relativa facilità, il tasso di fecondità di una popolazione dipende dal numero di donne in età fertile, che in altre parole, rappresentano un capitale biologico troppo prezioso per arrischiarlo sul campo di battaglia.
Se nella cultura attuale pesantemente condizionata da stereotipi americani, c’è del sessismo, si tratta di un sessismo rivolto contro l’uomo e non contro la donna. Ad esempio si pretende che la donna sia “multitasking”, cioè capace di fare più cose contemporaneamente, l’uomo no. Strano, vero? Non mi risulta ad esempio che quelli che durante la seconda guerra mondiale contemporaneamente marciavano, cantavano e portavano le armi, fossero perlopiù donne.
Vediamo ora di dare un’occhiata a quel che ci offre di questi tempi “Ancient Origins”, e si tratta di un carnet davvero ricco, un vero e proprio florilegio di articoli, che ora vediamo uno per uno. Cominciamo con un articolo di Ashley Cowie dell’11 marzo riguardante gli antichi Sciti. Noi ci immaginiamo sempre questa antica popolazione che viveva in una regione grosso modo corrispondente all’attuale Ucraina, come composta da cavalieri e guerrieri nomadi, ma era proprio così? Ashley Cowie ci assicura di no. Molti di loro effettivamente lo erano, ma la maggior parte della popolazione era sedentaria e dedita all’agricoltura.
C’entra sempre il metodo dell’analisi degli isotopi nello smalto dentario di cui vi ho parlato altre volte a proposito di altri ritrovamenti. Grazie a esso, un team di ricercatori guidato da Alicia R. Vetresca Miller dell’Università del Michigan, analizzando i resti umani provenienti da varie necropoli scitiche, ha potuto stabilire che la maggior parte di loro ha vissuto proprio dove i loro resti sono stati trovati.
In generale, il nomadismo è un fenomeno complesso riguardo al quale abbiamo perlopiù idee semplicistiche, o meglio si tratta di un termine che copre fenomeni abbastanza diversi. Tendiamo a pensare che il nomadismo di allevatori e cavalieri derivi direttamente da quello dei preistorici cacciatori-raccoglitori. Questo, ci ha spiegato N. C. Doyto “lo sconosciuto Gobineau del XX secolo”, il più delle volte è sbagliato: capita più spesso che una popolazione già sedentaria ridiventi, almeno parzialmente, nomade, o perché pressata da popolazioni vicine, o per sfruttare nuove risorse. Un esempio in questo senso, nell’età moderna, sono i pionieri che hanno “conquistato” il Far West, il lontano Ovest americano, lasciandosi alle spalle sempre più numerose comunità sedentarie. L’espansione degli Sciti dalla Siberia meridionale all’Ucraina, avrebbe potuto aver seguito un modello simile.
Sempre l’11 marzo un articolo di Nathan Falde ci parla di una macabra scoperta avvenuta a Potocani, nella Croazia orientale, dove gli operai di un cantiere edile nei lavori di scavo hanno riportato alla luce una fossa comune contenente i resti di 41 persone. La scoperta è avvenuta nel 2007 ma in un primo momento si è pensato si trattasse dei resti di vittime delle recenti pulizie etniche che hanno colpito la ex Jugoslavia, ma a distanza di 14 anni dalla scoperta, l’analisi al radiocarbonio delle ossa ha dimostrato che si tratta dei resti di un massacro preistorico avvenuto 6.200 anni fa. Frammenti di ceramica rinvenuti insieme alle ossa hanno dimostrato che appartenevano alla cultura chiamata di Lasinga, una popolazione di agricoltori e allevatori che un tempo abitava la regione.
I ricercatori del Centro di Bioantropopologia Applicata presso l’Istituto di Ricerca Antropologica di Zagabria hanno potuto stabilire che si trattava di uomini, donne, adulti, adolescenti, bambini uccisi contemporaneamente con grande brutalità, le ossa presentano numerosi segni di ferite da taglio e da punta. Si trattava forse di un clan familiare massacrato da un clan rivale.
Nathan Falde sottolinea che questo non è l’unico esempio dei resti di stragi che ritroviamo in età preistorica, ne abbiamo altri, risalenti fino a 12.000 anni fa, Con questo, che Falde se ne renda conto o no, viene meno uno dei caposaldi della mentalità di sinistra imbevuta di rousseauianesimo che attribuisce alla civiltà una violenza che invece è profondamente insita nella natura umana.
Parliamo della Scandinavia, cui “Ancient Origins” tra l’11 e il 12 marzo dedica tre articoli. Con una ricerca archeologica costantemente fissata sul Mediterraneo e il Medio Oriente dove non ci dev’essere più nemmeno un ciottolo che non sia stato rivoltato più volte, tendiamo a ignorare il fatto che la grande Penisola nord-europea, già prima dell’epoca vichinga, ha avuto una cultura dell’Età del Bronzo particolarmente ricca, forse perché ciò contrasta in maniera netta colla leggenda della derivazione della civiltà da oriente. Uno dei pochissimi testi che ci hanno illuminati sull’Età del Bronzo nordica è Omero nel Baltico di Felice Vinci.
L’ispettore capo Jesper Hansen dei musei della città di Odense si è detto “deliziato” dal ritrovamento che ha definito “una meriaviglia”. Attorno alla spada sono state trovate tracce di fibre vegetali che fanno pensare fosse avvolta in un panno di lino o canapa. Questo suggerisce che potesse far parte di un corredo funebre.
Che i vichinghi amassero l’oro, per la verità, è una cosa che sapevamo già, ma si pensava che quello che possedevano fosse perlopiù il frutto di scorrerie, invece, a quanto pare, esisteva anche una notevole oreficeria locale. Nel tumulo di Aska, a 36 chilometri da Stoccolma, gli archeologi hanno portato alla luce una grande sala per banchetti di età vichinga. All’interno di essa sono state trovate 22 lamine d’oro raffiguranti delle coppie che si abbracciano, ma compresi i frammenti più piccoli si arriva a una cinquantina di oggetti aurei che testimoniano la presenza di una vivace oreficeria.
Questo materiale è stato recentemente studiato da Martin Rundkvist, professore di archeologia all’Università di Lodz in Polonia.
Il significato di queste lamine non è chiaro: è stato ipotizzato che potrebbe trattarsi di accoppiamenti fra divinità del pantheon norreno, che avrebbero dovuto attestare l’origine divina della famiglia che governava ad Aska, o forse avere un senso molto più prosaico.
Sempre di vichinghi ci parla l’articolo del 12 marzo di Niels Bjerre Jorgensen. Tutti noi conosciamo la storia di Amleto, lo sfortunato principe di Danimarca come l’ha raccontata Shakespeare, però forse non è noto a tutti che non si tratta di una storia di pura invenzione, ma Shakespeare si rifece a eventi riferiti come autentici nella cronaca di Saxo Grammaticus. Ora, a quanto sembra, nientemeno che la sepoltura del vero Amleto potrebbe essere identificata da una pietra-maschera di Sjelliebro nello Jutland orientale. Le pietre-maschera erano delle pietre con incisi volti umani stilizzati che servivano, appunto, a contrassegnare le sepolture.
Noi sappiamo comunque che il mito di Amleto rispecchia significati più profondi della vicenda sia pure ricca di pathos raccontataci di Shakespeare, ce l’hanno spiegato Giorgio De Santillana ed Herta von Dechend in Il mulino di Amleto.
Sarebbe stato strano se anche questa volta “Ancient Origins” non avesse avuto qualcosa da raccontarci circa i complessi megalitici delle Isole Britanniche, e infatti il giorno 14 Ashley Cowie ci racconta un fatto piuttosto singolare: un gruppo di nazionalisti gallesi capeggiato da tale Lyn Jenkins pretende la restituzione al Galles delle “pietre blu” di Stonehenge che appunto da lì provengono.
Confesso che l’idea mi ha fatto sorridere. Immaginate se l’Italia pretendesse la restituzione dei capolavori artistici italiani sparsi nei musei di tutto il mondo!
Sempre un articolo dell’evidentemente infaticabile Ashley Cowie ci riporta finalmente nel Mediterraneo. Uno degli oggetti più enigmatici tramandatici dall’antichità è il meccanismo di Antikythera, si tratta di un artifatto che è stato ritrovato nel relitto di una nave risalente al I secolo avanti Cristo affondata appunto in vicinanza dell’isola greca di Antikythera.
Si è ipotizzato che questo meccanismo, composto da una serie di ruote concentiche, alcune delle quali dentate come ingranaggi moderni, servisse per indicare le posizioni apparenti nel cielo del sole, della luna, dei pianeti, di prevedere i moti planetari e le eclissi, fosse qualcosa di simile a un astrolabio molto complesso, o come ha detto qualcuno, un computer dell’antichità.
Bene, questa supposizione è oggi confermata dai ricercatori dell’University College London (UCL) che hanno realizzato una copia funzionante del dispositivo, che doveva servire agli antichi marinai greci per orientarsi durante la navigazione.
Questa notizia, che ci conferma la prova più tangibile del fatto che la scienza antica era molto più “evoluta” di quanto ordinariamente supponiamo, è stata riportata anche il 13 marzo da Msn.com che riporta anche il nome del ricercatore, Tony Freeth che ha portato a termine la ricostruzione e che il di solito molto preciso Cowie si era scordato di nominare.
E torniamo finalmente in Italia, dove ogni tanto capita qualcosa che ci ricorda che la nostra Penisola è terra di antichissima civiltà, anche se i nostri connazionali non sembrano dedicare al loro passato quell’attenzione premurosa che vi danno ad esempio gli inglesi.
Lo riferisce il giornale “L’Arno” del 12 marzo. Sulla via francigena, dalle parti di Pontremoli, un escursionista, Paolo Pigorini, ha notato fuori dal ciglio della strada uno strano sasso, che, esaminato e ripulito dal terriccio si è rivelato essere una statua-stele, una di quelle singolari sculture per cui la Lunigiana è famosa, che poi Angelo Ghiretti direttore del Museo delle Statue-Stele Lunigianesi ha datato all’Età del Rame, 5.000 anni or sono.
La stessa notizia è stata riportata da un’articolo di Alessia Ribaudo, sempre in data 12 marzo dal “Corriere della sera”.
Infine vorrei parlarvi di una cosetta uscita su MANvantara. Un contributore ha riportato, ovviamente ironizzando un post di un tizio di sinistra che vi cito:
“Le razze non esistono perché il sapiens non ha avuto tempo per lo sviluppo di un’altra razza. Fatela finita con le boiate sulla razza”.
A parte il sagace e condivisibilissimo commento di Michele Ruzzai, se le razze non esistono, come mai si vedono? Se affianchiamo un norvegese, un coreano, un nigeriano, nessuno che li veda avrà dubbi nell’indicare l’appartenenza razziale di ciascuno dei tre, io direi che ciò evidenzia al contrario l’importanza del lavoro che sto cercando di svolgere su queste pagine.
L’Out of Africa, la leggenda secondo la quale la nostra specie sarebbe nata in Africa poche decine di migliaia di anni fa, serve proprio a questo, a negare che essa abbia avuto il tempo di differenziarsi in razze, e di favorire un atteggiamento “accoglione” verso coloro che oggi ci invadono dall’altra sponda del Mediterraneo.
Si tratta naturalmente di un falso: gli studi di Svante Paabo e tutta la paleogenetica hanno dimostrato che gli uomini di Cro Magnon si sono ripetutamente accoppiati con quelli di Neanderthal e di Denisova dando luogo a una discendenza fertile, noi, erano dunque della nostra stessa specie, per la quale non ha nessun senso parlare di un’origine africana recente, dal momento che essa popolava l’Eurasia già da centinaia di migliaia di anni. Ma la prova regina, la pistola fumante, sono i resti dello spagnolo Homo Antecessor di Atapuerca, anatomicamente indistinguibile da un uomo moderno, vecchio di qualcosa come 600.000 anni.
Che tutto ciò non sia solo teoria, ma abbia un chiaro peso nell’indirizzare comportamenti concreti, direi, è cosa che non sfugge a nessuno.
E’ proprio questo il senso del nostro lavoro, mio, e credo di poter dire, degli altri collaboratori di “Ereticamente”, quello di promuovere non un’erudizione fine a se stessa, ma ciò che possiamo chiamare una cultura militante.
NOTA: Nell’illustrazione, guerrieri vichinghi. Del mondo nordico e dei Vichinghi si occupano tre articoli recentemente apparsi su “Ancient Origins”.
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